Costantino Mortati: il disegno della Costituzione, della sua redazione, interpretazione ed applicazione

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Commemorare la figura e l’opera di un giurista è un’operazione complessa, ben più di quanto già non lo siano i tributi agli artisti, ai letterati e alle altre figure intellettuali che lasciano un segno durevole del proprio percorso concettuale. Per il giurista, infatti, è ancora più probabile che la commemorazione debba incentrarsi sul riscontrare le aporie tra quanto l’Autore aveva teorizzato e messo a punto e le modalità (contraddittorie, caduche, ingannevoli) della sua attuazione pratica in un ordinamento giuridico dato.

Costantino Mortati, nato a Corigliano nel 1891, è tra i protagonisti di un momento oggettivamente irripetibile nella storia italiana, uno di quelli dove diventa più facilmente percepibile la distanza tra la promessa e il risultato, tra il progetto di idee e valori e l’applicazione affidata (o usurpata) in conto terzi. Mortati si forma, infatti, negli anni della Prima Guerra mondiale. Raggiunge la parte più impegnativa del proprio sviluppo teorico a regime fascista ormai instaurato. Non può qualificarsi, in questa fase, esponente di un’opposizione simbolica, come fu quella dei Croce e dei Ruffini, o ancor meno di un’opposizione militante, come molti dei fautori del federalismo di seconda generazione. Ma anche nei decenni del regime l’opera di Mortati non sembra affatto ossequio connivente o complicità mal travestita. L’A. partecipa, poi, all’irripetibile esperienza della Costituente. Per la Democrazia Cristiana, che contribuì ad orientare su posizioni più mature e consapevoli di quelle che il partito cattolico rischiava di reiterare acriticamente alla sua riorganizzazione. Infine, oltre che schivo giurista d’accademia, giudice della Corte Costituzionale -organo le cui competenze concorse a perfezionare, nelle fila della “Commissione dei Settantacinque”, il nucleo ristretto dei deputati dell’assemblea incaricati di proporre il progetto di costituzione repubblicana.

Accanto agli studi giuridici e alle numerose responsabilità personalmente assunte, Mortati percorse con profitto anche gli studi filosofici. 

Non si trattava per Mortati di un’erudizione fine a se stessa: l’approccio filosofico, al contrario, forniva elementi ulteriori e complementari al ragionamento giuridico, anzi, riuscendo a descriverne i presupposti meglio di molte altre scienze affini. Prova ne sia che i temi di studio di Mortati sono numerosi. Alcuni ben noti (come l’elaborazione intorno alla nozione di “costituzione materiale”, non curiosamente a Statuto in vigore e a regime avanzato), altri inadeguatamente obliati, come gli studi sulle forme di governo, sul ruolo costituzionale dei partiti o sulla tutela del lavoro, al tempo di grandi trasformazioni produttive. In questa sensibilità, Costantino Mortati è pienamente uomo della generazione della Costituente. Deputati eletti che percepivano l’irripetibilità del contesto creatosi e il sollievo per la liberazione, ma che non si illusero di potere redigere un testo ermeticamente chiuso alle esigenze attualizzanti del cambiamento e agli inderogabili impegni dell’attuazione pratica. La stessa accezione di “costituzione materiale” concepita da Mortati, e per altro verso non di rado strumentalizzata come cinico elogio dei risultati della decisione politica, è segno della consapevolezza di questa dinamica intrinseca agli ordinamenti giuridici.

Alla stessa stregua, nell’interesse di Mortati per i partiti politici -anche prima dell’entrata in vigore della Costituzione- stava la grande intuizione sulle virtù della partecipazione politica. Pure il lavorio intellettuale di Mortati sulla forma partito è stato non occasionalmente e, forse, consapevolmente equivocato. Quando la miglior chiave di lettura della riflessione dell’A. sarebbe da potersi ritenere proprio l’articolo 1 della Costituzione: l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. In essa, la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. È una proposizione relativa quella che specifica l’esercizio della sovranità popolare, non ci sono toni avversativi. Che le forme e i limiti siano quelli dettati dalla Costituzione avrebbe potuto e dovuto significare che quella sovranità non potesse essere usurpata da una integrale spersonalizzazione dei meccanismi di delega. Né svuotata dall’inflazione e segmentazione della consultazione elettorale, né smodatamente attuata con linciaggi, violenze e inosservanza di qualsivoglia garanzia universale.

Il ruolo del partito politico avrebbe potuto e dovuto, anche stavolta, essere cruciale, ma lo è stato assai più spesso in violazione (e non a sostegno) dell’articolo 1. La repubblica dei partiti non è stata la Repubblica democratica fondata sul lavoro. Proprio perché la dirigenza dei partiti politici ha progressivamente rimosso l’utilità della riflessione collettiva sulla forma partito. La centralità del partito politico per Mortati non era affatto la prosecuzione del corporativismo fascista con altri mezzi. Lo Stato fascista era coattivamente monopartitico. Mortati non guardava alle formazioni sociali come corpi intermedi che assicurassero la presa politica dell’esecutivo in ogni spazio dell’agire sociale. Esigeva che i partiti fossero una forma dell’esercizio della sovranità popolare. Il luogo della formazione della classe politica, l’osservatorio delle dinamiche dell’azione di governo, e non del consenso fine a se stesso. Non è un azzardo vedere nelle funzioni che Mortati assegna al partito politico le medesime necessità storico-culturali che il demolaburista Ettore Lombardo Pellegrino tra gli anni Dieci e Venti del secolo XX sembrava intravedere nello sviluppo della rappresentanza sindacale. Le formazioni sociali vengono così restituite alle loro istanze primarie: canali della partecipazione, a beneficio del libero svolgimento della persona.

Non sembra coerente, come pure sin troppo spesso si fa, ravvisare in Mortati una incompiuta via di mezzo tra la dottrina kelseniana e la teoria della sovranità di Carl Schmitt. E proprio avere descritto la dinamicità della costituzione materiale (pur sempre correlata a un nucleo di indisponibile costituzionale, al cui mutare muterebbe, stravolgendosi, anche la forma di Stato) consente di vedere Mortati ben più che come un “modesto derivatore”. Devoto, senza fantasia, alla comparazione giuridica -di cui pure fu precursore. Nella costituzione materiale non c’è spazio per l’elogio, quasi iconografico, della norma posta, né per l’affidamento dogmatico alla norma presupposta.

Il sistema kelseniano, a ben vedere, si rivela molto utile nel concepire una teoria gerarchica dell’amministrazione, ma si arresta nel descrivere i meccanismi che fanno di una costituzione, effettivamente, la costituzione. Forse, qualche somiglianza in più può vedersi tra la teoria di Mortati e la costruzione a gradoni dell’ordinamento, immaginata da Adolf Merkl, altro giurista della “grande Vienna”. Solo che, almeno sul piano ideologico, il sistema merkliano immagina un’elevata comunicazione tra un gradino e l’altro, mentre Mortati sembra curarsi, se si resta in metafora, anche della comunicazione all’interno di ciascun gradino.

Né si può dire che Mortati aderisca al decisionismo schmittiano, tutto schiacciato sull’idea dell’eccezionalità come sede ultima per verificare in nome di quale titolo (e con quale forza) si eserciti il potere del governo. Il costituzionalista Mortati non poteva avere fiducia in un ordinamento che per descrivere il funzionamento dei propri organi facesse costantemente riferimento all’emergenzialità (persino nelle norme relative alla deliberazione dello stato di guerra il potere, nella Costituzione, non è mai privo di perimetro). E il filosofo Mortati non poteva attribuire carattere assolutistico a un decisore singolo, isolato, slegato dalla vivace materialità dei rapporti sociali e della loro necessaria dimensione collettiva.  

Questi pochi elementi di riflessione non vogliono sostituirsi ad uno studio più accurato su un giurista che ha percorso quasi per intero la parabola novecentesca e che, nella sua formazione, ben testimoniava lo zelo e l’aulicità di una stagione ormai tramontata. Vogliono, però, servire, se sarà loro possibile, ad aprire un dibattito su quanto di attuale vi sia nelle intuizioni di Mortati. Probabilmente fuori da metodologie superate o da itinerari di riformismo giuridico mai attuati e, perciò, fuori tempo massimo. Bensì, con l’intenzione di ragionare collettivamente sul lascito più importante dell’Assemblea alla neonata Repubblica. Talora mitizzata, ancor più facilmente stracciata, la sua Costituzione. Pur se tra oblio ed abuso di revisione, i patrimoni di idee son sempre merce rarissima.

Dott. Bilotti Domenico

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