Cosa non è o non dovrebbe essere la mediazione familiare

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Abstract: L’Autrice, in attesa di una compiuta definizione da parte del legislatore nazionale, traccia i confini dello strumento della mediazione familiare, differenziandolo da altre attività.

 

“La mediazione familiare è un percorso che sostiene e facilita la riorganizzazione della relazione genitoriale nell’ambito di un procedimento di separazione della famiglia e della coppia alla quale può conseguire una modifica delle relazioni personali tra le parti” (art. 1 comma 1 legge n. 26 del 24-12-2008 Regione Lazio). Fino ad ora è questa, in Italia, la definizione legislativa di mediazione familiare più completa, seppure discutibile, contenuta nella discussa legge regionale del Lazio. Discutibile perché non si riorganizza solo la relazione genitoriale e la famiglia non si separa ma si trasforma. Comunque tutte le discussioni sullo specificum della mediazione familiare rimangono aperte.

E’, però, quasi pacifico ciò che non è o non dovrebbe essere:

  • psicoterapia o terapia tout court;

  • consulenza (nella legge n. 14 del 28-07-2008 Regione Emilia Romagna “Norme in materia di politiche per le giovani generazioni” si continua ad accostare la mediazione familiare alla consulenza);

  • counseling, chiarimento del problema all’interessato ed orientamento dello stesso verso una soluzione autonoma;

  • psicologia forense e giuridica, la cui ricerca è di ausilio all’avvocato nel campo civilistico per es. per l’interpretazione di clausole generali quali diligenza del buon padre di famiglia, buona fede, ecc. e nel campo penalistico per es. nelle indagini difensive (circa la lentezza dei tempi del legislatore in materia di mediazione familiare, può “consolare” sapere che la legge sugli psicologi si è avuta nel 1989, L. 18 febbraio 1989 n. 56 “Ordinamento della professione di psicologo”);

  • assistenza (nella legge n. 37 del 30-12-2009 Regione Piemonte “Norme per il sostegno dei genitori separati e divorziati in situazioni di difficoltà” si continua ad assimilare l’assistenza alla mediazione familiare; anche la legge sugli assistenti sociali è stata tardiva, L. 23 marzo 1993 n. 84 “Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione dell’albo professionale);

  • pedagogia, da quella clinica a quella giuridica;

  • reflecting, letteralmente “aiuto a riflettere”.

Non si tratta di una distinzione meramente terminologica e concettuale, necessaria ma non sufficiente, bensì di una differenziazione sostanziale essendo diversi gli effetti giuridici, i soggetti deputati ai vari tipi di intervento ed i ruoli delle parti e degli operatori. L’eventuale sovrapposizione o confusione determinerebbe non solo un’usurpazione di ruoli professionali ma soprattutto effetti negativi sulle persone coinvolte.

Molti studiosi mostrano un forte interesse alla differenziazione tra terapia familiare e mediazione familiare. Le principali fonti del possibile equivoco tra questi due interventi sono nell’aggettivazione comune e nel fatto che molti centri italiani per la mediazione familiare sono nati per gemmazione da quelli per la terapia familiare. A parte queste comunanze, numerose sono le differenze tra cui la semantica, la formazione di base degli operatori (che nella terapia è fondamentalmente clinica, nella mediazione è principalmente relazionale), la metodica (che nella terapia è analizzare il passato, nella mediazione progettare il futuro), il coinvolgimento delle parti (che nella terapia è accettazione dell’intervento, nella mediazione partecipazione all’intervento). Si ribadisce che anche se della mediazione familiare esistono tipi terapeutici ed essa può avere effetti terapeutici tuttavia la mediazione non si identifica con la terapia.

La mediazione familiare si distingue dalla consulenza tecnica (e specificatamente da quella psicologica disposta d’ufficio in materia di minori) per la finalità, in quanto la mediazione verte ad aiutare la famiglia mentre la consulenza ad aiutare il giudice (art. 193 c.p.c.), per esempio sulle modalità dell’affidamento; per la metodologia, la mediazione è una relazione ternaria basata su colloqui paritari e progetti condivisi tra le parti mentre la consulenza si svolge sulla base di un programma peritale delineato individualmente dal consulente e si realizza in raccolta dell’anamnesi, colloqui clinici ed eventuale somministrazione di test; per l’impatto psicologico sugli utenti che tendono ad accogliere meglio il mediatore e non il consulente.

L’attività mediativa si avvicina al counseling per la comune origine statunitense e perché entrambi i mezzi sono “relazioni di aiuto”, ma la prima si caratterizza per l’essere relazione di aiuto nelle relazioni familiari mentre il secondo è diretto più all’aiuto individuale.

La mediazione differisce ontologicamente dall’assistenza (dal latino “adsistere”, stare presso, davanti, “star presso ad alcuno per aiutarlo, soccorrerlo o altrimenti gioviargli”), in primis quella sociale, perché l’assistente opera “per la prevenzione, il sostegno e il recupero di persone, famiglie, gruppi e comunità in situazioni di bisogno e di disagio e può svolgere attività didattico-formative” e di “collaborazione con l’autorità giudiziaria” (dall’art. 1 della legge 84/1993).

L’intervento mediativo è diverso da quelle misure economiche come reddito minimo di inserimento, prima, reddito di cittadinanza, ora, o altro, che prevedono percorsi di sostegno alla genitorialità o altri percorsi formativi. Queste misure sono provvidenze (ai sensi dell’art. 31 comma 1 Cost.) che, pertanto, provvedono ad una necessità, ad un disagio che può anche perdurare.

Per determinare la mediazione familiare bisogna partire dal suo aggettivo “familiare”, per cui essa non è né coniugale, né genitoriale, né minorile (anche se nell’interesse dei minori là dove vi siano), ma agisce per la famiglia nella sua interezza (giustamente la legge n. 13 del 16-02-2010 Regione Umbria è intitolata “Disciplina dei servizi e degli interventi a favore della famiglia”), quale sistema di relazioni, comunicazione e conflittualità. Relazione (dal latino “referre”, portare di nuovo, ricondurre, rivolgere, indirizzare), comunicazione (dal latino “cum” e “munus”, che compie il suo incarico insieme con altri) e conflitto (dal latino “cum” e “fligere”, in Lucrezio “far incontrare”, in Cicerone “mettere a confronto”) sono concetti connaturati alla mediazione. Questa interviene quando nella famiglia avvengono lacerazioni delle relazioni, interruzione della comunicazione ed esacerbazione della conflittualità. La definizione più adeguata appare, pertanto, quella più frequentemente usata di percorso di ri-organizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito alla separazione o al divorzio. Anziché riferirsi solo alla separazione e al divorzio, per rendere onnicomprensiva questa definizione si potrebbe mutuare la terminologia della legge regionale dell’Emilia Romagna “in occasione di eventi critici e fasi problematiche della vita familiare”.

La mediazione familiare (come ogni forma di mediazione), a differenza degli altri mezzi summenzionati, è un “intervento” in senso etimologico (dal latino “venire inter”) con due significati tecnici: intervento di situazione ed intervento di problema.

Si tratta di “intervento di situazione” se presenta le seguenti caratteristiche: se si prefigge di affrontare vicende delimitate nel tempo e nello spazio tramite azioni atte a rispondere a richieste circoscritte; se i singoli interventi mediativi non sono considerati come azioni finalizzate ad affrontare problemi sociali con una “logica operativa di servizio”; se i compiti attribuiti agli operatori si presentano piuttosto standardizzati (è tale la mediazione soprattutto quando si occupa dell’affidamento dei bambini, cosiddetta mediazione parziale). In queste ipotesi la mediazione è intesa quale “tecnica di gestione di situazioni conflittuali” tesa a recuperare la relazionalità interpersonale.

Si tratta, invece, di “intervento di problema” quando si è guidati dall’intento di affrontare non solo la situazione conflittuale emergente, ma anche di coglierne il significato di contesto, al fine di individuare, interpretare (dal latino “inter partes”; interpretare, dunque, che è diverso dal risolvere che caratterizza altri strumenti), accompagnare le modificazioni che intervengono nel sistema relazionale di contesto, con una “logica operativa di confronto sociale”. La finalità è che soggetti e gruppi siano sollecitati a mettere alla prova le reciproche interpretazioni della realtà per ricercare le ragioni e le condizioni della compatibilità: in queste ipotesi la mediazione è intesa dunque quale “processo di confronto sociale” (processo ancor più rilevante nella mediazione penale) teso a recuperare anche la relazionalità sociale.

La peculiarità della mediazione è quella centrata dalla legge regionale del Lazio, già nella sua rubrica, ove si legge “diffusione della mediazione familiare”. Dobbiamo fare in modo che la mediazione familiare divenga un fatto culturale, come in Cina e Giappone, ricordando che la cultura stessa è frutto di mediazione e riportando la famiglia alla sua cultura che è quella del servizio.

 

Dott.ssa Marzario Margherita

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