Cosa il giudice deve considerare ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero ex art. 86 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309

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(Riferimento normativo: d.P.R. n. 309/1990, art. 86)

     Indice

  1. Il fatto 
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione 
  3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione 
  4. Conclusioni

1. Il fatto

Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna aveva rigettato un appello presentato avverso la misura di sicurezza dell’espulsione dal territorio dallo Stato applicata da un Magistrato di sorveglianza della stessa città ai sensi dell’art. 86 d.P.R. 9 ottobre 1990, ed a conferma di quanto già disposto dal Tribunale di Bologna in sede di cognizione.

2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato era proposto ricorso per Cassazione, deducendosi violazione di legge, sostanziale e processuale, e vizio di motivazione in quanto, ad avviso del ricorrente, il Tribunale di Sorveglianza aveva tratto argomento da circostanze remote e, comunque, precedenti rispetto al reato la cui commissione gli era valsa l’adozione della misura di sicurezza, superate, per di più, dalla positiva evoluzione della sua personalità attestata dalla proficua sottoposizione al programma rieducativo e riabilitativo, che lo aveva visto, tra l’altro, dedicarsi a regolare attività lavorativa, nonché dall’opportunità di contare sull’ausilio delle sorelle, con lui coabitanti e socialmente inserite.

3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso era dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.

Si osservava a tal proposito – una volta fatto presente che l’art. 86 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, stabilisce, al primo comma, che lo «straniero condannato per uno dei reati previsti dagli articoli 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, a pena espiata deve essere espulso dallo Stato» e che tale disposizione deve essere interpretata alla luce dell’intervento della Corte costituzionale che, con sentenza n. 58 del 1995, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui obbliga il giudice a emettere l’ordine di espulsione, senza l’accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale, che si manifesta principalmente con la reiterazione dei fatti criminosi – che la giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente affermato, in proposito, che, ai «fini dell’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero ex art. 86 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 per la avvenuta commissione di reati in materia di stupefacenti, è necessario non solo il previo accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale del condannato, in conformità all’art. 8 CEDU in relazione all’art. 117 Cost., ma anche l’esame comparativo della condizione familiare dell’imputato, ove ritualmente prospettata, con gli altri criteri di valutazione indicati dall’art. 133 cod. pen., in una prospettiva di bilanciamento tra interesse generale alla sicurezza sociale ed interesse del singolo alla vita familiare» (Sez. 4, n. 52137 del 17/10/2017; Sez. 3, n. 30493 del 24/06/2015; Sez. 4, n. 50379 del 25/11/2014).

Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, gli Ermellini facevano presente come il Tribunale di sorveglianza, a suo avviso, avesse motivatamente ritenuto la persistenza della pericolosità sociale del condannato il quale, gravato da un precedente definito per il reato sanzionato dall’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, aggravato ex art. 80, comma 2, del medesimo testo normativo perché avente ad oggetto oltre 93 kg di hashish, commesso nel 2017, che gli era valso la condanna definitiva alla pena detentiva di tre anni di reclusione, essendo ciò sintomatico della sua contiguità a perniciose organizzazioni criminali, tanto più se si considerava che costui annoverava, altresì, precedenti condanne e pendenze, oltre che per il reato sanzionato dall’art. 316-ter cod. pen., per gravi delitti, anche associativi, in materia di narcotraffico.

Di conseguenza, a fronte di un apparato argomentativo (stimato) alieno da qualsivoglia deficit logico e coerente con le evidenze disponibili, per i giudici di piazza Cavour, il ricorrente si era limitato a contestare, in termini di tangibile genericità, l’adeguatezza della motivazione sottesa al provvedimento impugnato, esaltando l’esito positivo dell’affidamento terapeutico senza, tuttavia, considerare che, come segnalato dal Tribunale di sorveglianza, un precedente intervento riabilitativo, peraltro di durata assai più ampia (in quanto protrattosi per un biennio, mentre quello più recente si era esaurito in poco più di quattro mesi), e coronato da apparente successo, era stato seguito dalla commissione, a breve distanza temporale, di gravi reati, sintomatici, oltre che del totale fallimento dell’azione rieducativa, dell’inserimento con ruolo protagonistico, in più vasti ambienti criminali, senz’altro idoneo a rendere più intenso il pericolo di reiterazione della condotta criminosa.

Il Tribunale di sorveglianza aveva, dunque, per la Corte, coerentemente fondato la propria valutazione su condotte che, quantunque precedenti all’arresto del 2017 ed al successivo intervento terapeutico-riabilitativo, testimoniavano di una propensione all’illecito — attestata anche dalla ulteriore, concomitante pendenza per reato di diversa natura — che, tenuto conto di quanto accaduto in passato, non aveva ritenuto elisa dalla fruttuosa sottoposizione all’affidamento ex art. 94 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, né dalla dedizione ad attività lavorativa lecita o dalle opportunità garantitegli nel contesto familiare.

Le obiezioni difensive non valevano, pertanto, sempre ad avviso del Supremo Consesso, ad attestare l’illogicità o la contraddittorietà della motivazione dell’ordinanza resa dal Tribunale di sorveglianza il quale, ritenuta la persistente pericolosità sociale del condannato, destinatario della misura di sicurezza dell’espulsione ex art. 86 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, aveva debitamente considerato in guisa tale da giungere alla conclusione secondo cui, ferma ogni peculiarità della situazione emersa, la decisione emessa era scevra da vizi rilevabili in sede di legittimità.

Leggi anche: Entro quando deve ritenersi stabilito il divieto di rientro dello straniero nel territorio dello Stato in caso di espulsione disposta ex art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286/1998

4. Conclusioni

Stante quanto previsto dall’art. 86, co. 1, d.P.R. n. 309/1990 che, come è noto, prevede che lo “straniero condannato per uno dei reati previsti dagli articoli 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, a pena espiata deve essere espulso dallo Stato”, la decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito, sulla scorta di quanto affermato dalla Consulta nella sentenza n. 58 del 1995 a alla luce di un pregresso orientamento nomofilattico, cosa il giudice deve considerare ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero ex art. 86 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.

Difatti, in tale pronuncia, si afferma che, ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero ex art. 86 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 per la avvenuta commissione di reati in materia di stupefacenti, è necessario non solo il previo accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale del condannato, in conformità all’art. 8 CEDU in relazione all’art. 117 Cost., ma anche l’esame comparativo della condizione familiare dell’imputato, ove ritualmente prospettata, con gli altri criteri di valutazione indicati dall’art. 133 cod. pen., in una prospettiva di bilanciamento tra interesse generale alla sicurezza sociale ed interesse del singolo alla vita familiare.

Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba appurare se tale misura di sicurezza sia stato, o meno, correttamente applicata.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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