Cosa è sufficiente per integrare l’elemento oggettivo del delitto di calunnia e da cosa può desumersi la prova del suo elemento soggettivo: un chiarimento da parte della Cassazione

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(Ricorso dichiarato inammissibile)

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 368)

Il fatto

La Corte di appello di Roma aveva riformato parzialmente la sentenza del Tribunale di Roma che a sua volta aveva condannato un imputato per il reato di cui di calunnia (art. 368 cod. pen.) dichiarando non doversi procedere perché il reato era estinto per prescrizione e confermando le statuizioni in favore delle parti civili.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso questa decisione proponeva ricorso per Cassazione l’imputato, denunciando, a mezzo del suo difensore, i seguenti motivi: 1) vizio di motivazione, travisamento delle difese dell’imputato in quanto la Corte di appello non aveva compreso il motivo di appello proposto dall’imputato con il quale intendeva far valere l’argomento della ragione della disposta archiviazione del procedimento a carico dei denunciati ovvero la mancanza nella denuncia di alcun reato precisandosi al contempo che, nel caso in cui la denuncia abbia già esplicitato i suoi effetti dando luogo alla apertura di un procedimento, non può più rilevare la potenzialità dell’instaurazione di un processo penale ma occorre verificarne in concreto l’esito; 2) violazione di legge in relazione agli artt. 368 e 479 cod. pen. e vizio di motivazione in quanto i fatti addebitati nella denuncia querela non erano idonei a configurare alcuna falsità penalmente rilevante e vi era stato un erroneo accertamento dei fatti addebitabili alle parti offese mancando quindi l’elemento materiale della incolpazione di un fatto penalmente rilevante come stabilito con il decreto di archiviazione mentre il P.M. aveva precisato le condotte addebitate come false solo in sede di udienza preliminare su eccezione della difesa trattandosi di fatti in ogni caso irrilevanti e non utili alla causa contro la moglie separata e fermo restando che nessuna delle circostanze denunciate dal ricorrente, ad avviso del ricorrente, poteva comunque integrare il falso quali: la distanza tenuta dall’imputato; l’invito all’imputato di allontanarsi; 3) vizio di motivazione in relazione alla calunnia atteso che la circostanza oggetto della contestata calunnia – l’incontro non casuale tra l’imputato e la moglie – non sarebbe risultata inserita nella annotazione; 4) violazione di legge in relazione agli artt. 368 cod. pen., 530, 533, 535, 190, 192, 197, 197-bis, 210, 234 cod. proc. pen. e vizio di motivazione, incapacità a testimoniare delle parti offese dal momento che la difesa del ricorrente aveva fatto di tutto per accertare la verità dei fatti mentre le parti offese non avevano indicato testi e si erano opposte alle richieste di prova dell’imputato essendo stato vano il tentativo di ottenere la identificazione ed escussione del centralinista del 113 e tenuto conto altresì del fatto che le prove documentali erano state trascurate; 5) violazione di legge in relazione agli artt. 368 cod. pen. e vizio di motivazione per mancanza del dolo poiché la Corte di appello aveva offerto sul punto del dolo una motivazione assertiva mentre andava considerata la mancanza di utilità della denuncia ai fini dei processi dell’imputato con la moglie così come la circostanza della presentazione della denuncia a tre anni da distanza (poteva esserci buona fede per ricordi imprecisi) fermo restando che in ogni caso l’imputato aveva dichiarato che era convinto della colpevolezza dei verbalizzanti e la sentenza non esaminava affatto tale atto e, pertanto, secondo l’impugnante, non poteva escludersi che l’imputato fosse rimasto involontaria vittima di equivoci anche dovuti al tempo trascorso; 6) vizio di motivazione sul movente della condotta dell’imputato e delle persone offese in quanto, secondo il ricorrente, la sentenza ridondava in considerazioni privi di valenza e che non convincevano riguardanti i tre agenti al fine di concludere che essi non conoscevano l’imputato che erano di reparti diversi e dunque che non avrebbero avuto motivo di verbalizzare il falso fermo restando che, da un lato, l’imputato non aveva mai sostenuto che essi avessero un movente per scrivere il falso così come l’irrilevanza del fatto escludeva che essi avessero la finalità di nuocerlo, dall’altro, la mancanza di un movente da parte dei tre agenti non aveva alcuna valenza probatoria mentre la Corte di Appello non si preoccupava di esaminare e ricercare un movente da parte dell’indagato nel calunniare i tre agenti.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.

Quanto al primo motivo, si osservava come esso fosse palesemente infondato ritenendosi sufficiente ribadire a tal proposito il consolidato principio secondo cui il delitto di calunnia si configura come reato di pericolo e, quindi, è sufficiente ad integrare l’elemento oggettivo una falsa accusa che, essendo astrattamente configurabile come “notitia criminis” in quanto a prima vista non manifestamente inverosimile, sia pertanto idonea all’apertura delle indagini preliminari, risultando del tutto irrilevante il fatto che le stesse si siano successivamente concluse con un decreto di archiviazione (tra le tante, Sez. 6, n. 48525 del 05/11/2003).

Quindi indipendentemente dalle valutazioni del P.M. avanzate in sede di richiesta di archiviazione e dalla stessa archiviazione, ad avviso del Supremo Consesso, quel che rilevava pur sempre era l’idoneità valutata ex ante della denuncia a far avviare le indagini penali.

Parimenti privo di evidente fondamento era considerato il secondo motivo.

La tesi difensiva — ovvero che nella denuncia non fosse stato denunciato alcun reato di falso – era difatti contrastata dal principio pacifico secondo cui viene ad integrare il reato di falso ideologico in atto pubblico la condotta del pubblico ufficiale che in una relazione di servizio fornisca una parziale o falsa rappresentazione dei fatti caduti sotto la sua diretta percezione in quanto tale relazione costituisce atto pubblico (per tutte, Sez. 5, n. 17929 del 20/01/2020; Sez. 5, n. 6182 del 03/11/2010) rilevandosi al contempo che la Suprema Corte, nei medesimi arresti, aveva precisato che, ai fini della integrazione del falso, è sufficiente il dolo generico consistente nella rappresentazione e nella volontà dell’”immutatio veri” mentre non è richiesto l’”animus nocendi” né l’”animus decipiendi” con la conseguenza che il delitto sussiste sia quando la suddetta falsità sia compiuta senza l’intenzione di nuocere, sia quando la sua commissione sia accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun danno.

Ciò premesso, il fatto che il P.M. avesse precisato quali erano state le condotte addebitate come false solo in sede di udienza preliminare su eccezione della difesa non determinava, per il Supremo Consesso, alcuna conseguenza sulla sussistenza del reato (potendo la questione rilevare ai fini della genericità della imputazione, ma tale eccezione non è stata coltivata in sede di impugnazione).

Quanto poi alla irrilevanza dei falsi denunciati, anche tale tesi era considerato parimenti infondata visto che sussiste il “falso innocuo” quando l’infedele attestazione (nel falso ideologico) sia del tutto irrilevante ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio e, pertanto, non esplicano effetti sulla sua funzione documentale con la conseguenza che l’innocuità deve essere valutata non con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto ma avendo riguardo all’idoneità dello stesso ad ingannare comunque la fede pubblica (Sez. 5, n. 47601 del 26/05/2014).

Ciò posto, a sua volta il terzo motivo relativo alla calunnia, secondo gli Ermellini, aveva ad oggetto censure di merito e in ogni caso si fondava su un presupposto di diritto errato in quanto ciò che rileva ai fini della calunnia è la falsità dell’accusa da valutarsi ex ante (risultando pertanto irrilevante che la circostanza dell’incontro non casuale tra l’imputato e la moglie non risultasse inserita nella annotazione là dove la stessa sia stata oggetto della denuncia calunniosa).

Dal canto suo, il quarto motivo, sempre secondo i giudici di piazza Cavour, si articolava in motivi da un lato preclusi e dall’altro manifestamente infondati dato che il motivo proposto era di puro merito quanto al significato e alla portata delle prove raccolte mirando ad una non consentita lettura alternativa del compendio probatorio.

Invece, quanto poi all’incapacità a deporre, le Sezioni Unite avevano escluso l’incompatibilità ad assumere l’ufficio di testimone per la persona già indagata in procedimento connesso ai sensi dell’art. 12, comma 1 lett. c), cod. proc. pen. o per reato probatoriamente collegato, definito con provvedimento di archiviazione (Sez. U, n. 12067 del 17/12/2009) essendo stato in tale arresto affrontato anche l’argomento contrario della possibile riapertura delle indagini poiché venne rilevato in quella occasione che si tratta di una eventualità sostanzialmente assimilabile, e anzi probabilisticamente inferiore, a quella della possibile “apertura” delle indagini nei confronti di qualsiasi soggetto (per notizia di reato individualmente attribuito).

Oltre a ciò, veniva notato come non avessero fondamento nemmeno le critiche sul dolo finendo anch’esse per avanzare critiche precluse in sede di legittimità posto che la motivazione sul dolo offerta dalla sentenza impugnata, ad avviso del Supremo Consesso, era in linea con i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità risultando anche in tal caso le critiche difensive dirette ad attaccare piuttosto il merito della valutazione espressa dalla Corte territoriale ribadendosi a tal riguardo che la prova dell’elemento soggettivo del reato di calunnia può desumersi dalle concrete circostanze e modalità esecutive dell’azione criminosa attraverso le quali, con processo logico-deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto in modo da evidenziarne la cosciente volontà di un’accusa mendace nell’ambito di una piena rappresentazione del fatto attribuito all’incolpato (per tutte, Sez. 6, n. 10289 del 22/01/2014) avendo la Corte di appello ritenuto rilevante, ai fini della dimostrazione del dolo, da un lato, la personalità del ricorrente, dall’altro, la suggestiva esposizione di una mirata ricostruzione distorta dell’operato dei funzionari volta a supportare l’accusa di falso avanzata nei loro confronti.

In ordine infine al movente della condotta dell’imputato e delle persone offese, il ricorrente lamentava, secondo la Suprema Corte, non vizi rilevanti in sede di legittimità ordinaria, quanto piuttosto “non convincenti” argomentazioni.

Nel momento del controllo di legittimità sulla motivazione, infatti, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, dovendo limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento“,  secondo una formula giurisprudenziale ricorrente.

Orbene, nel caso in esame, la motivazione in ordine ad un eventuale movente degli operanti era, per gli Ermellini, perfettamente coerente con la valutazione fatta dalla Corte di appello in ordine alla affidabilità soggettiva di quanto dichiarato dai verbalizzanti e non risultava pertanto essere manifestamente illogica mentre, per contro, una volta accertato il dolo della calunnia, è irrilevante stabilire il movente dell’imputato che può avere rilevanza decisiva solo nei casi in cui non sia stata raggiunta la prova della consapevolezza del denunciante in merito all’innocenza dell’accusato (Sez. 6, n. 32838 del 12/05/2009).

La Suprema Corte di Cassazione, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava il ricorso proposto inammissibile e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000 in favore della cassa delle ammende nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante in quanto in essa si spiega cosa è sufficiente per integrare l’elemento oggettivo del delitto di calunnia e da cosa può desumersi la prova del suo elemento soggettivo.

Difatti, in tale pronuncia, citandosi precedenti conformi, viene postulato, da un lato, che il delitto di calunnia si configura come reato di pericolo e, quindi, è sufficiente ad integrare l’elemento oggettivo una falsa accusa che, essendo astrattamente configurabile come “notitia criminis” in quanto a prima vista non manifestamente inverosimile, sia pertanto idonea all’apertura delle indagini preliminari, risultando del tutto irrilevante il fatto che le stesse si siano successivamente concluse con un decreto di archiviazione, dall’altro, che la prova dell’elemento soggettivo del reato di calunnia può desumersi dalle concrete circostanze e modalità esecutive dell’azione criminosa attraverso le quali, con processo logico-deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto in modo da evidenziarne la cosciente volontà di un’accusa mendace nell’ambito di una piena rappresentazione del fatto attribuito all’incolpato fermo restando che, una volta accertato il dolo della calunnia, è irrilevante stabilire il movente dell’imputato che può avere rilevanza decisiva solo nei casi in cui non sia stata raggiunta la prova della consapevolezza del denunciante in merito all’innocenza dell’accusato.

Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione per verificare la sussistenza degli elementi costitutivi del delitto preveduto dall’art. 368 c.p..

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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