Corte dei Conti – Giudizi di responsabilità amministrativa per danno erariale – Sezione Giurisdizionale Lombardia – Sentenza n. 375 del 7 giugno 2006 – Danno da tangente – Illecito erariale per maggiore esborso di somme e per danno all’immagine della PA

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Con la sentenza n. 375/2006, la Sezione Giurisdizionale Lombardia ha riconosciuto doloso il comportamento del Dirigente di un Ente Pubblico che attraverso la illecita percezione di tangenti ha determinato per la PA un maggiore esborso di somme nonché una lesione alla propria immagine.
 
La predetta decisione esamina il c.d. danno da tangente il cui perfezionamento è strettamente correlato alla indebita percezione di somme da parte di soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione in occasione di affidamento di lavori, di realizzazione di opere e di conseguimento di forniture.
E’ il danno derivante dai maggiori costi accollati alla Pubblica Amministrazione e, perciò, sulla collettività, a seguito della illecita dazione pecuniaria (************ 2006); infatti, la provenienza delle tangenti da privati implica come controprestazioni irregolarità o favoritismi che espongono la Pubblica Amministrazione a costi superiori quantomeno di importo pari alla somma versata o promessa (S.U. Cass. n. 98/2000 e Corte Conti n. 102/ 2002 – Sez. I App.).
Esso equivale ai maggiori oneri finanziari sostenuti dalla PA a seguito della c.d. traslazione di tangente che abbia incrementato il costo gravante sull’amministrazione e cioè si trasferisce il costo della tangente sul prezzo contrattuale con inevitabile aumento dell’importo corrisposto rispetto a quello effettivo di mercato; tale traslazione può avvenire con modalità plurime quali la mancata valutazione di uno sconto in sede di vaglio di offerte (C.d.C. Sez. Lombardia n. 114/2006), l’esecuzione di lavori supplementari a costi incrementati, la realizzazione di economie di spesa eseguendo prestazioni di valore inferiore, la revisione concordata dei prezzi, e via dicendo (************ – op. cit.).
Va tuttavia precisato che la dimostrazione che il pubblico funzionario abbia percepito alcune somme, a titolo di tangenti in pubblici appalti, non equivale a dimostrazione del danno erariale, non potendosi di fatto ritenere che sussista un danno erariale (consistente nella maggiorazione dei prezzi di acquisto di beni e servizi) qualora i prezzi in questione risultino comunque congrui, secondo le perizie acquisite in sede di giudizio penale (Tenore 2004).
E’ pertanto necessario che venga data rigorosa prova dell’avvenuta traslazione e che la stessa si sia tradotta in un danno per la PA atteso che il mero collegamento della tangente ad un presunto danno erariale di natura patrimoniale non può assumere rilevanza in modo aprioristico ed acritico, essendo necessario che esso sia accompagnato da ulteriori elementi in grado di suffragarlo e non basato sul criterio della matematica equazione tra tangente e danno: ancorché, infatti, secondo l’id quod plerumque accidit, con l’avvenuto pagamento della tangente si presume un danno pubblico per un implicito costo patrimoniale occulto almeno uguale all’importo di essa, questo criterio non può ritenersi automaticamente applicabile, poiché: a) a volte, il maggior costo rappresentato dalla tangente può ripianarsi con la riduzione dell’utile dell’appaltatore; b) altre volte, al contrario, il danno patrimoniale subito dall’Amministrazione – in seguito ad accordi criminosi intercorsi tra il dipendente infedele ed altri soggetti – sia direttamente, per il minor valore delle opere realizzate, che indirettamente (ad esempio, nel caso che vengano erogate somme a titolo di risarcimento a terzi danneggiati da opere realizzate con costi inferiori a quelli pattuiti), può essere di gran lunga superiore all’ammontare della tangente percepita (Corte dei Conti Sez.Trentino Alto Adige – Trento, n. 111/2004).
Nel caso in esame, il danno da tangente viene a profilarsi quale danno da lievitazione dei costi per l’affidamento a trattativa privata di determinati lavori per la ricostruzione e l’ammodernamento della viabilità stradale.
Preliminarmente, i giudici vagliano l’eccezione di prescrizione dell’azione erariale sollevata dalla difesa del convenuto sostenendo quest’ultima che il dies a quo prescrizionale coincide con la data di conoscenza da parte della Corte dei Conti dei provvedimenti afferenti il ricorso a trattativa privata, ammessi a registrazione con riserva in sede di controllo preventivo di legittimità.
La corte rileva l’infondatezza di quanto eccepito osservando che tale cognizione da parte dell’organo giuscontabile attiene a profili di illegittimità procedurale e non a fatti tangentizi forieri di lievitazione di costi di aggiudicazione che costituiscono l’oggetto del giudizio erariale, conseguentemente, ed in conformità ad univoco indirizzo giurisprudenziale, i giudici affermano che il dies a quo prescrizionale coincide con la data della richiesta di rinvio a giudizio trattandosi di una manualistica fattispecie di “occultamento doloso del danno” ex art.1, co.2, l. n.20 del 1994.
Il collegio, inoltre, pur prendendo atto della rinuncia attorea su tale fattispecie dannosa, procede comunque nella valutazione di tale voce di danno sostenendo che la dichiarazione di rinuncia fatta in udienza dalla Procura non può esentare il giudice contabile dall’esame della domanda attrice ma può solo costituire mero elemento di valutazione ai fini della relativa indagine, stante il noto principio della irrinunciabilità dell’azione contabile da parte della Procura regionale (cfr. C. conti, sez. I, 13 luglio 2001, n.222/A).
La Corte, proseguendo nel merito, ritiene altresì rilevanti le dichiarazioni confessorie rese nel giudizio penale estintosi per prescrizione; i giudici considerano tali confessioni ben valutabili, quale mezzo probatorio quale che sia l’esito del giudizio penale in cui furono rese, in quanto, per la loro inequivocità e per la loro verosimiglianza in relazione alle anomale procedure di affidamento lavori seguite dall’ente pubblico, appaiono pienamente probanti ed utilizzabili in sede di giudizio erariale.
Riconosciuta la condotta dolosa dell’imputato, la Corte procede a definire il quantum del danno da tangente.
Il collegio si uniforma all’univoco indirizzo seguito dalla Corte medesima che ha chiarito che il costo delle c.d. mazzette percepite da pubblici funzionari nell’ambito di procedure ad evidenza pubblica si traduce casualmente in un aumento dei prezzi rispetto a quelli di mercato; la dazione di denaro, infatti, affermano i giudici, diviene requisito indefettibile di accesso all’affidamento dei lavori, soprattutto in un illegittimo sistema a trattativa privata, quale quello in esame, ove l’anomalia e la standardizzazione del ribasso sono inequivoci indici di un fraudolento accordo con i vertici dell’ente pubblico, nel quale il più modesto ribasso ha avuto come giustificazione l’accollo in capo alla PA dei costi tangentizi sopportati dall’imprenditore, che non ha ovviamente rinunciato al proprio fisiologico utile di impresa, né parimenti è stata provata in giudizio la congruità dei prezzi di aggiudicazione.
In merito a tale fattispecie (danno da tangente), i giudici contabili concludono riconoscendo il risarcimento a favore dell’erario nella misura pari all’importo delle dazioni illecite riscontrate.
Successivamente, i giudici stessi ravvisano altresì a carico del convenuto la responsabilità amministrativa per lesione dell’immagine dell’ente pubblico la cui tutela viene inizialmente ricompresa in quella ex art. 2043 c.c. per poi confluire quale danno esistenziale avente natura non patrimoniale, nell’ambito dell’art. 2059 c.c. secondo la lettura più moderna di quest’ultima disposizione proposta di recente dai giudici costituzionali e di legittimità (C. Cost. n.233/2003; ******** Sez. III nn. 8827-8828/2003).
Il danno all’immagine, afferma il collegio milanese, va configurato quale danno-evento e non danno-conseguenza da risarcirsi ex art. 2043 c.c. per il cui perfezionamento non è necessario che si sia verificata una deminutio patrimoni, ma è sufficiente la sussistenza di un fatto intrinsecamente dannoso in quanto configgente con interessi primari protetti in modo immediato dall’ordinamento giuridico; esso ben può configurarsi anche in caso di percezione di somme da parte di un pubblico dipendente non necessariamente in correlazione con fenomeni tangentizi (corruzione o concussione), essendo comunque socialmente disdicevole e giuridicamente illecito che un pubblico dipendente percepisca denaro o donativi da privati nell’esercizio di compiti istituzionali; tale introito, secondo i giudici, lede l’immagine esterna dell’YYYYY, i cui dirigenti, al pari di qualsiasi pubblico dipendente, non possono percepire compensi extralavorativi latu sensu connessi, da occasionalità necessaria, a compiti di istituto.
In ordine alla prova, i giudici seguono l’indirizzo meno restrittivo che contempla la natura sanzionatoria e non risarcitoria del giudizio contabile ritenendo pertanto sufficiente l’accertamento dell’avvenuta lesione dell’immagine dell’ente inteso come valore in sé senza soffermarsi sugli eventuali costi di ripristino dell’immagine medesima che sono ormai un costo fisiologico per la p.a. dopo l’entrata in vigore della legge n.150 del 7 giugno 2000. Il danno all’immagine della p.a. si sostanzia invero esclusivamente in una menomazione della funzionalità dell’amministrazione stessa che, in base agli art. 97 e 98 Cost., deve agire in modo efficace, efficiente, economico e imparziale; in altre parole, il danno all’immagine è un danno pubblico in quanto lesione del buon andamento della p.a., che perde, per la condotta illecita di suoi dipendenti, credibilità ed affidabilità all’esterno, ed ingenera la convinzione che i comportamenti patologici posti in essere dai propri lavoratori siano un connotato usuale dell’azione dell’ente.
I giudici rammentano, inoltre, che le Sezioni Riunite della Corte con la sentenza n.10/SR/QM del 23.4.2003, hanno confermato che il danno all’immagine di una pubblica amministrazione non rientra nell’ambito di applicabilità dell’art. 2059 del codice civile, ma è una delle fattispecie rientranti nella più generale figura del danno esistenziale; ma essi riflettono che tale approdo giurisprudenziale va tuttavia completato alla luce delle ricordate sentenze 31.5.2003 nn.8827 e 8828 della Corte di Cassazione in cui viene prospettata un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ., tesa a ricomprendere, nell’astratta previsione della norma, ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona comprendendo tra essi il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona stessa.
Il giudice della legittimità, sottolinea il collegio, ha ritenuto risarcibile il danno non patrimoniale, evidentemente inteso in senso diverso dal danno morale, anche in favore delle persone giuridiche, soggetti per i quali non è ontologicamente configurabile un coinvolgimento psicologico in termini di patemi d’animo (v., da ultimo, sentenza 2367/00); in base a tale interpretazione, avallata anche dalla decisione n. 233 dell’11 luglio 2003 della Corte Costituzionale, ne deriva che il danno non patrimoniale ben può trovare collocazione, ai fini che interessano, anche nella previsione dell’art. 2059 c.c., dal momento che la lettura dell’articolo, volta a riconoscere la minima tutela costituita dall’indennizzabilità della lesione di interessi costituzionalmente protetti per rendere la norma conforme a Costituzione, rende possibile ricomprendere nella previsione normativa anche la risarcibilità del danno esistenziale che è la categoria giuridica entro cui si colloca il danno all’immagine come pure affermato dalla citata sentenza delle SS.RR. n. 10/2003/QM.
In merito alla quantificazione del danno all’immagine, i giudici, specificando che in tale fase alcun rilievo assume l’intervenuta iniziativa diretta, transattiva, recuperatoria o risarcitoria promossa dall’amministrazione danneggiata con il convenuto se non da eccepirsi eventualmente solo in sede di esecuzione e di opposizione all’esecuzione del giudicato erariale, liquidano in via equitativa ex art.1226 c.c., sulla scorta dei parametri riscontrati nella fattispecie quali la diffusività dell’episodio nella collettività, la gravità oggettiva del fatto (desunta dalle modalità di perpetrazione del fatto, dalla eventuale reiterazione dello stesso, dall’entità dell’arricchimento e, dunque, dall’entità della tangente percepita), la qualifica dei soggetti agenti e il loro ruolo nell’organizzazione amministrativa in conformità a quanto asserito sul punto dalla prevalente giurisprudenza giuscontabile (ex pluribus, da ultimo, ********, sez. Lombardia, 10 dicembre 2003 n.1478; id., sez. Marche, 18.1.2002 n.104; id., sez. Lazio, 25.2.2003 n.439).
Segue la pronuncia.
 
 
                                               Sent. 375/2006
 
 
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE LOMBARDIA
composta dai Magistrati:
Dotto ******************                                Presidente
Dott.   ***********                                             Magistrato rel.
Dott. **************                                          Magistrato
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di responsabilità, ad istanza della Procura Regionale, iscritto al numero 23460 del registro di segreteria, nei confronti di:
XXX XXXX, rappresentato e difeso dall’avv. ******* e presso la stessa elettivamente domiciliato in ******, via *******;
letta la citazione in giudizio ed esaminati gli altri atti e documenti fascicolati;
richiamata la determinazione presidenziale con la quale è stata fissata l’udienza per la trattazione del giudizio;
ascoltata, nell’odierna udienza pubblica, la relazione del Magistrato designato prof. *********** e uditi gli interventi del Pubblico Ministero nella persona del Sostituto Procuratore Generale dr. ****************** e dell’avv. ******* per il convenuto;
viste le leggi 14 gennaio 1994, n. 19 e 20 dicembre 1996, n. 639.                                                     
FATTO
Con atto di citazione in riassunzione depositato il 22.12.2006 la Procura Regionale Lombardia conveniva innanzi a questa Sezione l’ing. XXXXXXXXX, dirigente dell’YYYYY, esponendo quanto segue: a) che con atto di citazione del 10.3.1999 la Procura Regionale Lombardia aveva citato in giudizio l’ing. XXX chiedendone la condanna al pagamento della somma di L.11.700.000.000 (euro 6.042.545,71) o, in subordine, di L.1.950.000.000 (euro 1.007.090,95) oltre accessori, quale danno diretto e all’immagine per la illecita gestione degli appalti di lavori pubblici affidati a trattative private (per le quali erano state pagate tangenti al convenuto da parte delle ditte aggiudicatarie) nell’ambito degli interventi per la ricostruzione e l’ammodernamento della viabilità stradale delle zone colpite dall’alluvione della Valtellina dell’estate 1987; b) che, a seguito della evocazione in detto giudizio di altri convenuti (XXXXXXX, XXXXXXXX, XXXXXXXX) e di una serie di pronunciamenti di questa Sezione, l’ultimo dei quali (sent.1929/2002) aveva statuito la propria incompetenza territoriale a favore della Sezione Lazio, era intervenuta la sentenza 2401/2003 della cennata sezione Lazio che aveva assolto i sigg. **** e XXXX e condannato il XXXXX al pagamento di euro 369.266,70 oltre accessori e spese; c) che detta sentenza 2401/2003, con decisione 219/2005/A della I sez.Centrale d’Appello, era stata tuttavia annullata nella parte in cui si era pronunciata nei confronti del XXXXX, ritenendo competente sul punto questa Sezione Lombardia; d) che occorreva dunque riassumere il giudizio nei confronti del XXXXX presso la competente sezione giurisdizionale Lombardia, in ottemperanza alla ricordata sentenza 219/2005/A della I sez. Centrale d’Appello.
Tutto ciò premesso, l’istante Procura, nel riassumere il giudizio, chiedeva la condanna del XXXXX al pagamento della somma di euro 6.042.545,71 quantificata, alla luce sia della delibera 107/96 della Sez.Controllo di questa Corte, che di una perizia espletata dalla Procura attrice (nell’originario giudizio alla base del presente), tenendo conto del minor ribasso (di circa il 6%) conseguito attraverso il ricorso alle cennate trattative private, tutte caratterizzate dal ribasso standardizzato del 15%, rispetto al ribasso del 21% mediamente conseguito per lavori di analoga natura affidati in loco dall’YYYYY nello stesso periodo con rituali procedure concorsuali.
In subordine, la Procura quantificava il danno erariale in euro 1.007.090,95, oltre accessori, tenendo conto sia della lievitazione dei costi di aggiudicazione per l’imposizione tangentizia percepita dal XXXXX (L. 650 milioni, pari ad euro 335.696,98, per ammissione dello stesso convenuto in sede penale: c.d. danno da tangente), sia del danno all’immagine dallo stesso arrecato all’YYYYY da tali condotte penalmente rilevanti assurte a rilevanza sociale e quantificato in un importo doppio rispetto alla percepita tangente (L. 650 milioni x 2 = L.1.300.000.000 pari a euro 671.393,96).
Si costituiva il XXX, difeso dall’avv. *******, eccependo: a) l’estraneità dell’ing. XXX alla fattispecie causativa del danno, non avendo il convenuto né effettuato la scelta delle trattative private asseritamene causative del danno, né delle ditte con cui intrattenerle, trattandosi di decisioni assunte dal Ministro dei LLPP, dal Consiglio di amministrazione dell’YYYYY e dal Capo del Compartimento milanese dell’YYYYY; b) il difetto di giurisdizione di questa Corte su danni da asserita percezione di tangenti, trattandosi di condotte svincolate dal rapporto di servizio; c) la mancata percezione di tangenti legate alle opere in ********** (anche se introitate per altre opere, come riconosciuto a p.12 della memoria), e la mancata conferma delle dichiarazioni confessorie sul punto in sede dibattimentale penale, essendosi quest’ultimo giudizio chiuso con assoluzione per prescrizione e senza dunque vincoli di pregresse statuizioni penali in sede giuscontabile.
In via gradata il convenuto evidenziava sia la mancata prova di un danno da maggiori esborsi derivanti dal ricorso a trattative private in luogo di gare pubbliche, come già statuito dalla (annullata) sentenza 2401/2003 della Sezione Lazio, sia la mancata prova dell’ipotizzato danno “da tangente”, in assenza di riscontri certi sulla ipotizzata lievitazione dei prezzi contrattuali. Inoltre la difesa del XXX eccepiva la preliminare prescrizione dell’azione contabile, stante la coincidenza del dies a quo prescrizionale o con la scoperta del fatto dannoso, coincidente con la data della propria sottoposizione a misure restrittive della libertà personale (1993) e non del rinvio a giudizio, ovvero con la data di conoscenza da parte della Corte dei conti, in sede di controllo preventivo di legittimità, dei provvedimenti afferenti il ricorso a trattativa privata,ammessi a registrazione con riserva.
In via ulteriormente gradata il XXX eccepiva, documentandolo, sia l’avvenuto versamento all’YYYYY, a titolo risarcitorio, di L.725.000.000 (più L.2.500.000 per l’Avvocatura dello Stato) in sede penale, ove era intervenuta costituzione di parte civile dell’YYYYY, che aveva poi revocato la stessa, sia l’avvenuta propria condanna, con sentenza 248/2002 di questa Sezione Lombardia, al pagamento di L.120.000.000 a titolo di danno all’immagine per la medesima dazione. Infine il convenuto invocava l’applicazione dell’art.1, co.1-bis, l. n.20 del 1994, stanti i “vantaggi comunque conseguiti” dalla collettività a seguito della esecuzione di lavori assai utili in **********.
All’udienza del 7 giugno 2006, sentito il magistrato relatore prof. ***********, la Procura Regionale, in persona del Sostituto Procuratore Generale predetto insisteva nella sola domanda volta al ristoro del danno all’immagine, rinunciando alla pretesa relativa al c.d. danno da tangente. Il difensore del convenuto, avv. *********, sviluppava gli argomenti prospettati in memoria di costituzione.
Quindi la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
1.   Va preliminarmente vagliata l’eccezione di prescrizione formulata dalla difesa del convenuto. La stessa è infondata, in quanto, secondo univoco indirizzo di questa Corte (C. conti, sez. III app., 18 gennaio 2002, n. 10; id. sez. I app., 3 aprile 2002 n.102/A; id., sez. I app., 2 ottobre 2002, n. 336/A; id., sez. II app., 7 novembre 2002, n. 338/A; id., sez. I app., 18 marzo 2003, n. 103/A sez. I app., 13 ottobre 2004, n. 348/A; id., ******** reg. Sicilia, sez. giurisd., 22 aprile 2004, n. 66/A) il dies a quo prescrizionale coincide, in evenienze come quella sub iudice, con la data della richiesta di rinvio a giudizio (1996) – trattandosi di una manualistica fattispecie di “occultamento doloso del danno” ex art.1, co.2, l. n.20 del 1994. La pregressa sottoposizione a misure restrittive della libertà personale (1993) del XXX non appare idonea a dare idonea conoscenza dei fatti di danno erariale, non avendo parte convenuta comprovato né l’attinenza di tali misure ai fatti sub iudice, né, soprattutto, che di tale misura cautelare, ove attinente ai fatti della **********, avesse avuto puntuale conoscenza l’amministrazione YYYYY o questa Corte quale specifica fonte di danno erariale e non solo di illecito penale.
            Al predetto rinvio a giudizio hanno fatto seguito idonei atti interruttivi della prescrizione (citazione originaria di questa Corte del 10.3.1999 e successivo sviluppo processuale indicato in fatto) non contestati dalla difesa del convenuto.
            Né può darsi rilevanza alla tesi della difesa del XXX volta ad individuare quale dies a quo prescrizionale la data di conoscenza da parte della Corte dei conti, in sede di controllo preventivo di legittimità, dei provvedimenti afferenti il ricorso a trattativa privata ammessi a registrazione con riserva: è agevole osservare che tale conoscenza da parte dell’organo giuscontabile attiene a profili di illegittimità procedurale e non a fatti tangentizi forieri di lievitazione di costi di aggiudicazione, costituenti, come si chiarirà nel prosieguo, lo specifico oggetto del presente giudizio.
2.   Venendo al merito, la condotta illecita del XXX tradottasi nella percezione di tangenti dalle imprese aggiudicatarie nell’ambito degli interventi per la ricostruzione e l’ammodernamento della viabilità stradale delle zone colpite dall’alluvione della Valtellina dell’estate 1987, è storicamente accertata dalle dichiarazioni confessorie rese da talune imprese e dallo stesso convenuto nel giudizio penale attivato nei suoi confronti e conclusosi con prescrizione (v. sentenza 25.1.2001 n.3723 Trib. pen. Milano agli atti). Tali confessioni, come è noto, sono ben valutabili da questa Corte quale mezzo probatorio quale che sia l’esito del giudizio penale in cui furono rese. Orbene, le stesse, per la loro inequivocità e per la loro verosimiglianza in relazione alle anomale procedure di affidamento lavori seguite dall’YYYYY, appaiono pienamente probanti ed utilizzabili in questa sede.
            Parimenti incontestabile è, sulla scorta del parere 31.10.1990 n.1004/90 della sez. II del Consiglio di Stato e della delibera 107/1996 della Sezione Controllo di questa Corte dei Conti, l’illegittimità del ricorso da parte dell’YYYYY a procedure abbreviate per l’aggiudicazione delle opere pubbliche in **********, in assenza dei presupposti previsti dalla legge n. 205 del 1989 (c.d. legge sui Mondiali del 1990).
Che tale inequivoca illegittimità procedurale non rappresenti, nella sua “coartata” scelta approvativa da parte del consiglio d’amministrazione dell’YYYYY, l’oggetto del contendere in questa sede è stato definitivamente acclarato dalla sentenza 8.7.2005 n.219 della I sez. d’appello di questa Corte (v. pp.12-13), che ha altresì chiarito, e questa Sezione lo condivide, che la percezione tangentizia dal parte del XXX per realizzare l’accordo spartitorio tra le imprese partecipanti alla trattativa privata per i lavori in **********, configuri la reale questione sottoposta a questa Sezione.
La percezione illecita di denaro da parte del convenuto è stata in citazione correlata dalla attrice Procura, sotto il profilo causale, in primo luogo ad un danno da lievitazione dei costi per l’affidamento a trattativa privata dei cennati lavori. A tale “danno da tangente” la Procura ha poi rinunciato nel corso della discussione orale avutasi nell’udienza del 7.6.2006.
      Ritiene tuttavia il Collegio che, nonostante la formulazione di detta rinuncia attorea, tale voce di danno sia doverosamente valutabile dalla Sezione, stante il noto principio della irrinunciabilità dell’azione contabile da parte della Procura regionale (cfr. C. conti, sez. I, 13 luglio 2001, n.222/A). Ne consegue che detta dichiarazione di rinuncia non può esentare questo giudice dall’esame della suddetta domanda, ma può solo costituire mero elemento di valutazione ai fini della relativa indagine.
        Con riferimento a tale voce di danno, la Sezione osserva quanto segue.
L’importo reclamato in citazione dalla Procura viene determinato, in via principale, in euro 6.042.545,71, somma quantificata, alla luce sia della delibera 107/96 della Sez. Controllo di questa Corte che di una perizia espletata dalla Procura attrice (nell’originario giudizio alla base del presente), tenendo conto del minor ribasso (di circa il 6%) conseguito attraverso il ricorso alle cennate trattative private, tutte caratterizzate dal ribasso standardizzato del 15%, rispetto al ribasso del 21% mediamente conseguito per lavori di analoga natura affidati in loco dall’YYYYY nello stesso periodo con rituali procedure concorsuali.
            Tale suggestiva prospettazione, già smentita dalla sentenza 24.11.2003 n. 2401 della sez. Lazio di questa Corte, non appare condivisibile nella sua assolutezza in quanto l’automatismo nel raffronto tra i ribassi dei lavori de quibus (15%) e quelli della “media regionale YYYYY” concorsuale (21%) non tiene conto della peculiarità (condizioni ambientali) e dell’urgenza dei lavori in ********** e trascura il dato, evidenziato dalla difesa del XXX, che la stessa indagine comparativa espletata dalla Procura ha evidenziato che, nell’ambito delle 132 procedure esaminate, 68 prevedevano ribassi inferiori al predetto 21% e, di queste, 24 offerte evidenziavano ribassi inferiori al 16% e 14 ribassi inferiori al 15%. Orbene, per le 6 procedure menzionate dalla attrice Procura a p.1-2 dell’iniziale citazione del 10.3.1999 recepita nella citazione alla base del presente giudizio, non può ritenersi acquisita prova certa e matematica che le stesse fossero tutte anormalmente sotto la media del 21% assunta come parametro di raffronto, anche se è innegabile la anomalia della standardizzazione della percentuale del ribasso, soprattutto ove si tenga conto che le imprese aggiudicatarie ebbero ad erogare al XXX tangenti in correlazione agli intervenuti affidamenti.
Tale ultima circostanza assume invece decisivo rilievo in relazione alla prospettazione quantificatoria formulata in via gradata dalla attrice Procura, che invoca un danno erariale “da tangente” di euro 1.007.090,95, oltre accessori, tenendo conto sia della lievitazione dei costi di aggiudicazione per l’imposizione pecuniaria percepita dal XXX (L.650 milioni, pari ad euro 335.696,98, per ammissione dello stesso convenuto in sede penale: c.d. danno da tangente), sia del danno all’immagine dallo stesso arrecato all’YYYYY da tali condotte penalmente rilevanti assurte a rilevanza sociale e quantificato in un importo doppio rispetto alla percepita tangente (L.650 milioni x 2=L.1.300.000.000 pari a euro 671.393,96).
            Osserva sul punto il Collegio che un univoco indirizzo di questa Corte ha chiarito che il costo delle c.d. mazzette percepite da pubblici funzionari nell’ambito di procedure ad evidenza pubblica si traduce casualmente in un aumento dei prezzi rispetto a quelli di mercato. Difatti la dazione di denaro diviene requisito indefettibile di accesso all’affidamento dei lavori, soprattutto in un illegittimo sistema a trattativa privata, quale quello in esame, ove l’anomalia e la standardizzazione del ribasso sono inequivoci indici di un fraudolento accordo con i vertici dell’YYYYY, nel quale il più modesto ribasso ha avuto come giustificazione l’accollo in capo alla PA dei costi tangentizi sopportati dall’imprenditore, che non ha ovviamente rinunciato al proprio fisiologico utile di impresa. Né vi è prova agli atti della congruità dei prezzi di aggiudicazione a smentire l’anomalia del poco elevato ribasso, rinvenendosi anzi perizie a conforto della prospettazione accusatoria della Procura istante che evidenziano, sebbene in modo non automatico e matematico come vorrebbe parte attrice, un minimale e sistematico ribasso del 15% di tutti gli affidamenti.
            Deve quindi concludersi che la percezione tangentizia di L.650 milioni, pari ad euro 335.696,98, goduta dal XXX abbia comportato una lievitazione dei costi di aggiudicazione per un importo almeno pari a detta mazzetta, ed un conseguente danno erariale di pari importo, ad oggi già rivalutato, da addebitare al convenuto: ove tale illecita erogazione non fosse stata imposta (o concordata) le imprese aggiudicatarie avrebbero potuto offrire un maggior ribasso. Non avendolo fatto, il maggior introito è stato destinato, secondo logica verosimiglianza, al pagamento della tangente. Trattandosi di comportamento doloso, l’eventuale contributo causale dato da altri soggetti (vertici YYYYY o ministeriali) a tale specifica voce di danno da tangente non ridurrebbe il quantum addebitato all’attuale convenuto XXX.
4.         A tale voce di danno va poi aggiunto il reclamato danno all’immagine della PA.
Sul punto, giova ribadire, in via generale, che la risarcibilità del danno all’immagine della p.a. innanzi alla Corte dei Conti rappresenta ormai un approdo univoco sia per la magistratura contabile, che per la stessa Corte di Cassazione (ex pluribus, C. conti, sez.I, 7.3.1994 n.55; id., sez. II, 27.4.1994 n.114; id., sez. giur. Lombardia, 24.3.1994 n.31; id., sez. giur. Umbria, 23.5.1995 n.211; id., sez. giur. Umbria, 10.2.1995 n.20; id., sez. giur. Lombardia, 12.1.1996 n.133; id., sez. giur. Sardegna, 14.4.1997 n.372; id., sez. giur. Campania, 23.4.1998 n.29; id., sez. I, 28 aprile 1998 n.10; id., sez. giur. Sicilia, 4 maggio 1998 n.179; id., sez. giur. Umbria, 28.5.1998 n.628; id., sez. giur. Piemonte, 7.6.1999 n.1041; id., sez. riun., 28.5.1999 n.16/99/QM; id., sez. giur. Lombardia, 15.12.1999 n.1551; id., sez. giur. Lombardia, 18.5.2000 n.672; id., sez. I centr. app., 25.3.2002 n.96; id., sez. Lazio, 25 febbraio 2003 n.439; id., sez. I centr., 6 giugno 2003 n.187; id., sez. I centr., 14 novembre 2003 n.392; id., sez. Lombardia, 10 dicembre 2003 n.1478; id., sez. I centrale, 28 gennaio 2004 n.28; id., sez. Sicilia, 17 marzo 2004 n.795; Cass., sez. un., 25.6.1997 n.5668; id., sez. un., 25.10.1999 n.744; id., sez. un., 4.4.1998 n.98; id, 28.12.2001 n.16215; id., n.3600 del 2003).
Trattasi di danno ex art. 2043 c.c. (ergo non sottoposto ai limiti previsti dall’art.2059 c.c. di recente comunque superati ad opera di una lettura costituzionalmente orientata di tale norma: cfr. Cass. Sez. III, 31 maggio 2003 n.8828; C. cost., 11 luglio 2003 n.233) e, in particolare, di danno-evento e non già di danno-conseguenza, per cui non è necessario che si sia verificata una deminutio patrimoni, ma è sufficiente la sussistenza di un fatto intrinsecamente dannoso in quanto configgente con interessi primari protetti in modo immediato dall’ordinamento giuridico: in altre parole, il danno non va ravvisato solo secondo il noto criterio della Differenztheorie, ma, più modernamente, nella lesione di un interesse, inteso come rapporto tra il soggetto e un bene. E l’immagine esterna della p.a., e di quella militare in particolare, che ha alla sua base il fondamentale principio dell’”onore militare” (antica norma-base di tutte le regole militari, non derivata dallo Stato, ma da questo riconosciuta), rientra senza dubbio tra tali valori primari.
Tale danno all’immagine ben può configurarsi anche in caso di percezione di somme da parte di un pubblico dipendente non necessariamente in correlazione con fenomeni tangentizi (corruzione o concussione), essendo comunque socialmente disdicevole e giuridicamente illecito che un pubblico dipendente percepisca denaro o donativi da privati nell’esercizio di compiti istituzionali. Anche a voler ipotizzare, in astratto ma non certo nel caso di specie, che la percezione sia avvenuta non in un contesto “sinallagmatico” (denaro in cambio di aggiudicazioni), ma quale generica liberalità o cortesia da parte dell’imprenditore aggiudicatario, tale introito lede l’immagine esterna dell’YYYYY, i cui dirigenti, al pari di qualsiasi pubblico dipendente, non possono percepire compensi extralavorativi latu sensu connessi, da occasionalità necessaria, a compiti di istituto.
In ordine alla prova di tale danno arrecato al peculiare bene immateriale, a fronte di un indirizzo più restrittivo – che ha come substrato una concezione prevalentemente riparatoria del giudizio contabile – tendente ad ammetterne la sussistenza solo ove si dimostri l’erogazione di spese (es. promozionali), da parte della p.a., per il ripristino dei beni immateriali della stima e reputazione dell’Amministrazione (C. conti, sez. giur. Lombardia n. 1458 del 1998; id., sez. giur. Umbria, n. 255 del 1998; id., sez. riun., 28.5.1999 n.16/99/QM; id., sez. centr. app., 5.3.2002 n. 63; id., sez. centr. app., 6.3.2002 n. 69; Cass., sez. un., 25.10.1999 n.744; id., sez. un., 4.4.1998 n. 98), si contrappone un altro indirizzo, che affonda le sue radici nell’approccio prevalentemente sanzionatorio al giudizio contabile, e che richiede un mero accertamento della lesione dell’immagine dell’ente inteso come valore in sé, in quale può subire un offuscamento nella collettività, nazionale o internazionale, a seguito di condotte illecite di suoi dipendenti e, come tale, richiede un ripristino e non una riparazione. Tale secondo approccio non dà dunque rilevanza agli eventuali costi di ripristino dell’immagine sopportati dalla p.a. (sul punto C.conti, sez.giur.Umbria, 10.2.1995 n.20; id., sez.giur.Piemonte, 14.2.2000 n.935; id., sez.giur.Piemonte, 19.4.2000 n.1196; id., sez.I centrale, 22.1.2002 n.16/A; id., sez.I centrale, 11.2.2002 n.45/A; id., sez.I centrale, 18.2.2002 n.48/A; id., sez I centrale, 25.3.2002 n.96; id., sez.I centrale, 9.4.2002 n.109/A; id., sez.giur.Lombardia, 6.12.2002 n.1954; id., sez.Lombardia, 10 dicembre 2003 n.1478), né ad eventuali lesioni da perdita di chance (sviamento di clientela, allontanamento di investitori dalla p.a. etc.).
Tale secondo orientamento appare preferibile, secondo questo giudicante, sia perché le pretese spese di ripristino del bene-immagine leso sono ormai un costo fisiologico per la p.a. dopo l’entrata in vigore della l.7.6.2000 n.150 (in materia di comunicazione pubblica) e, comunque, un eventuale costo suppletivo potrebbe essere sostenuto solo dopo l’introito del risarcimento del danno patito (e non certo prima), sia in quanto il danno all’immagine della p.a. si sostanzia esclusivamente in una menomazione della funzionalità dell’amministrazione stessa che, in base agli art.97 e 98 cost., deve agire in modo efficace, efficiente, economico e imparziale. In altre parole, il danno all’immagine è un danno pubblico in quanto lesione del buon andamento della p.a., che perde, per la condotta illecita di suoi dipendenti, credibilità ed affidabilità all’esterno, ed ingenera la convinzione che i comportamenti patologici posti in essere dai propri lavoratori siano un connotato usuale dell’azione dell’ente.
Quest’ultima evenienza assai bene si attaglia alla fattispecie sub iudice, che vede coinvolti dirigenti dell’YYYYY e vertici politici (Ministro dei LLPP §§§§§ e suo staff) in diversi giudizi innanzi a questa Corte, assurti a rilevanza mediatica e sociale.
Tale approdo interpretativo ha ricevuto l’autorevole avallo delle Sezioni Riunite di questa Corte che, con l’approfondita e condivisibile sentenza 23.4.2003 n.10/SR/QM, hanno confermato che il danno all’immagine di una pubblica amministrazione non rientra nell’ambito di applicabilità dell’art. 2059 del codice civile, ma è una delle fattispecie rientranti nella più generale figura del danno esistenziale. Tale danno esistenziale consiste in un pregiudizio areddituale che prescinde dal reddito del danneggiato, di natura non patrimoniale (ma ben distinto dal danno morale soggettivo di cui al cennato art. 2059 c.c.), tendenzialmente omnicomprensivo, in quanto qualsiasi privazione, qualsiasi lesione di attività esistenziali del danneggiato può dar luogo a risarcimento sulla base di quanto disposto dall’art. 2043 c.c. 
Nel contempo la Corte ha chiarito che, nell’ambito del rispetto dell’immagine della p.a. e nell’interesse costituzionalmente garantito dall’art. 97, comma 2°, è necessario che le competenze siano individuate e rispettate; le funzioni assegnate vengano esercitate e le responsabilità proprie dei funzionari vengano attivate: ne consegue che ogni azione del pubblico dipendente che leda tali interessi si traduce in un’alterazione dell’identità della pubblica amministrazione e, più ancora, nell’apparire di una sua immagine negativa in quanto struttura organizzata confusamente, gestita in maniera inefficiente, non responsabile né responsabilizzata. La violazione di questo diritto all’immagine, intesa come diritto al conseguimento, al mantenimento ed al riconoscimento della propria identità come persona giuridica pubblica, è economicamente valutabile. Essa, infatti, secondo le cennate SS.RR., si risolve in un onere finanziario che si ripercuote sull’intera collettività, dando luogo ad una carente utilizzazione delle risorse pubbliche ed a costi aggiuntivi per correggere gli effetti distorsivi che, sull’organizzazione della pubblica amministrazione, si riflettono in termini di minor credibilità e prestigio e di diminuzione di potenzialità operativa.
Le Sezioni Riunite hanno dunque ribadito che il danno all’immagine deve essere individuato nell’ambito dei danni non patrimoniali come danno-evento e non come danno-conseguenza, e per la sua quantificazione si può fare riferimento, oltre che alle spese già sostenute per il ripristino del prestigio leso, anche a quelle ancora da sostenere.
Tale approdo giurisprudenziale va tuttavia completato alla luce delle ricordate sentenze 31.5.2003 nn. 8827 e 8828 della Corte di Cassazione in cui viene prospettata un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ., tesa a ricomprendere, nell’astratta previsione della norma, ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona comprendendo tra essi il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona stessa. Il giudice della legittimità ha ritenuto risarcibile il danno non patrimoniale, evidentemente inteso in senso diverso dal danno morale, anche in favore delle persone giuridiche, soggetti per i quali non è ontologicamente configurabile un coinvolgimento psicologico in termini di patemi d’animo (v., da ultimo, sentenza 2367/00). Le citate sentenze hanno poi chiarito, sempre con riferimento all’art. 2059 c.c., che “nel caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente protetto, la riparazione mediante indennizzo (ove non sia praticabile quella in forma specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non é assoggettabile a specifici limiti, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi (v. Corte costituzionale, sentenza 184/86)”.
In base a tale interpretazione, avallata anche dalla decisione 11 luglio 2003 n. 233 dalla Corte costituzionale, deriva che il danno non patrimoniale ben può trovare collocazione, ai fini che interessano, anche nella previsione dell’art. 2059 c.c., dal momento che la lettura dell’articolo, volta a riconoscere la minima tutela costituita dall’indennizzabilità della lesione di interessi costituzionalmente protetti per rendere la norma conforme a Costituzione, rende possibile ricomprendere nella previsione normativa anche la risarcibilità del danno esistenziale che è la categoria giuridica entro cui si colloca il danno all’immagine come pure affermato dalla citata sentenza delle SS.RR. n. 10/2003/QM.
            Venendo alla quantificazione di tale conclusiva voce di danno, sono noti gli approdi della prevalente giurisprudenza dell’organo giuscontabile (ex pluribus, da ultimo, C.conti, sez.Lombardia, 10 dicembre 2003 n.1478; id., sez.Marche, 18.1.2002 n.104; id., sez.Lazio, 25.2.2003 n.439) che, nel fare doverosamente ricorso al parametro equitativo ex art.1226 c.c., assume quali ragionevoli indicatori, volti a prevenire giudizi arbitrari, la diffusività dell’episodio nella collettività, la gravità oggettiva del fatto (desunta dalle modalità di perpetrazione del fatto, dalla eventuale reiterazione dello stesso, dall’entità dell’arricchimento e, dunque, dall’entità della tangente percepita), la qualifica dei soggetti agenti e il loro ruolo nell’organizzazione amministrativa.
Orbene, nel caso di specie, l’attrice Procura Regionale, per giungere ad una pretesa risarcitoria di L.1.300.000.000, pari a euro 671.393,96, assume quale esclusivo parametro il doppio dell’importo della tangente percepita.
       Questa Sezione Giurisdizionale ritiene tuttavia rilevante, ai fini del decidere, non solo la intrinseca gravità dei fatti e la rilevante entità (650 milioni di lire) della somma percepita, ma anche la qualifica non minimale rivestita dal convenuto (dirigente) ed il ruolo istituzionale dallo stesso assolto. Né può trascurarsi sia il riflesso emulativo di condotte, quali quelle assunte dal convenuto all’interno dell’YYYYY e del Ministero dei LLPP, come la ricca patologia giudiziaria ha evidenziato e sta ancora evidenziando innanzi a questa Corte, sia il coinvolgimento del XXX in altre vicende tangentizie, anch’esse assurte a rilevanza giudiziaria, giornalistica e sociale, segno della diffusività di comportamenti illeciti forieri di discredito per la P.A. (v. sentenza 18.2.2002 n.248 di questa Sezione, citata dalla stessa difesa del convenuto e relativa a tangenti legate alla realizzazione della S.S. 36- Superstrada Lecco Colico).
         A tal proposito, dagli atti processuali depositati si evince che per la medesima vicenda risultano intrapresi ulteriori giudizi nei confronti di altri soggetti (XXXXX, XXXX, XXXX) volti a reclamare nei loro confronti anche il cennato danno all’immagine, alla cui configurazione hanno innegabilmente contribuito più soggetti, coinvolti nell’illecito meccanismo aggiudicatario, oltre al XXX.
            Ne consegue, sulla scorta dei sovraesposti argomenti, che equa e corretta appare la quantificazione in euro 100.000,00, ad oggi già rivalutati, dell’importo del danno all’immagine cagionato dal convenuto all’amministrazione.
            Deriva conclusivamente un debito complessivo di euro 435.696,98 ad oggi già rivalutati, alla cui refusione va condannato il convenuto,oltre interessi legali dal deposito della sentenza al saldo effettivo. Non può applicarsi a tale importo alcuna decurtazione, come invocato dalla difesa del convenuto, ex art.1, co.1-bis, l. n.20 del 1994, in quanto alcuna utilitas ha tratto la PA dalla condotta illecita del convenuto, essendo i lavori eseguiti doverosamente e sinallagmaticamente correlati al prezzo di aggiudicazione e dunque non sono un vantaggio per l’amministrazione e la collettività, ma l’ordinaria controprestazione di un appalto di lavori. In ogni caso è notorio l’indirizzo giuscontabile secondo cui va esclusa la possibilità di compensare utilità conseguite contra legem.
5.    La difesa del XXX ha tuttavia evidenziato, ai fini di una compensazione o decurtazione del credito attoreo, sia l’intervenuto versamento all’YYYYY, a titolo risarcitorio, di L.725.000.000 (più L.2.500.000 per l’Avvocatura dello Stato) in sede penale, ove era intervenuta costituzione di parte civile dell’YYYYY, che aveva poi revocato la stessa, sia l’avvenuta condanna del convenuto, con sentenza 248/2002 di questa Sezione Lombardia, al pagamento di L.120.000.000 a titolo di danno all’immagine per la medesima dazione.
            Osserva sul punto il Collegio, in primo luogo, la non attinenza della sentenza 18.2.2002 n.248 di questa Sezione, citata dalla difesa del convenuto, ai fatti oggetto di questa causa, essendo la predetta decisione relativa a distinte tangenti legate alla realizzazione della S.S. 36- Superstrada Lecco Colico e ai relativi profili di danno erariale. Nessuna portata decurtante può dunque avere tale distinta condanna del XXX se non, come detto, a corroborare il danno all’immagine arrecato alla PA da reiterate e diffuse condotte illecite.
            Circa invece l’intervenuto versamento all’YYYYY, a titolo risarcitorio, di L.725.000.000 (più L.2.500.000 per l’Avvocatura dello Stato) in sede penale, osserva il Collegio che la giurisprudenza, anche di questa Sezione, ha più volte chiarito, in giudizi in cui il convenuto ha prospettato, in via di eccezione alla pretesa creditoria erariale, la valenza estintiva o almeno decurtante della transazione stragiudiziale con la PA creditrice o del recupero intervenuto innanzi all’AGO in sede risarcitoria da parte della PA danneggiata, che alcun rilievo assume l’intervenuta iniziativa diretta, transattiva, recuperatoria o risarcitoria promossa dall’amministrazione danneggiata con i convenuti, non comportando tale iniziativa effetti preclusivi sull’azione della Procura contabile (ma al limite decurtanti) e sul libero convincimento della Sezione giurisdizionale in ordine alla piena soddisfazione o meno del credito vantato nei confronti dei convenuti ad opera dell’intervenuto recupero (ex pluribus C.Conti,sez.riun.,17.2.1992 n.752/A; id., sez.I, 23.9.1992 n.200; id., sez.riun., 9.12.1992 n.816/A; id., sez.giur.Sardegna 25.5.1994 n.239; id., sez.riun.10.11.1997 n.76; id., sez.Lomb., 13.3.1998 n.436; id., sez.Lombardia, 10 dicembre 2003 n.1478; id., sez.Lombardia, 2 marzo 2005 n.198; Cass., sez.un., 21.5.1991 n.369; id., sez.un., 27.5.1993 n.5943; *******, 7.7.1988 n.773): un immanente limite a tale “doppio (rectius triplo) binario” va rinvenuto nel divieto di duplicazione di condanna, in sede stragiudiziale, in sede giurisdizionale ordinaria e in sede giuscontabile, per il medesimo fatto, circostanza eccepibile in sede di esecuzione e di opposizione all’esecuzione, ove potrà evidenziarsi da parte del convenuto l’intervenuto parziale saldo, in sede civile, penale o transattiva (o di dazione risarcitoria stragiudiziale), degli importi oggetto di condanna definitiva innanzi alla Corte dei conti.
            Il sequestro concesso si convertirà in pignoramento nei limiti della condanna statuita da questa sentenza.
            In applicazione della regola della soccombenza, il convenuto va condannato al pagamento delle spese di lite, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La sezione giurisdizionale Lombardia, definitivamente pronunciando, condanna XXXXXXX al pagamento della somma di euro 435.696,98 ad oggi già rivalutati, oltre interessi legali dal deposito della sentenza al saldo effettivo. Condanna il convenuto alla refusione delle spese di lite, che liquida in complessivi euro
            Così deciso in Milano nella camera di consiglio del 7.6.2006.
 Il giudice                                                                 Il Presidente             
Vito Tenore                                                        ******************                                             
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 19.6.2006
Il Direttore della Segreteria

Crucitta Giuseppe – Francaviglia Rosa

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