Consiglio d’Europa: si al testamento biologico

Redazione 30/01/12
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Anna Costagliola

Con la Risoluzione del 25 gennaio, n. 1859 sul testamento biologico, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha invitato espressamente gli Stati membri a regolamentare con legge il testamento biologico, esprimendo, invece, un fermo no all’eutanasia e al suicidio assistito, ovvero alla previsione di qualsiasi possibilità di mettere in atto azioni od omissioni che permettano di provocare la morte di una persona.

Il testamento biologico è un documento scritto per garantire il rispetto della volontà in materia di trattamento medico, anche quando non si è più in grado di esprimerla. In sostanza, si tratta di una dichiarazione anticipata di trattamento espressa in condizioni di lucidità mentale in merito alle terapie che si intende o non si intende accettare nell’eventualità in cui ci si dovesse trovare nella condizione di incapacità ad esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte (cd. consenso informato) a causa di malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti, malattie che costringano a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione.

Sono pochi gli Stati dotati di una specifica legislazione al riguardo, per cui i parlamentari di Strasburgo sollecitano, ove esista un vuoto legislativo, di provvedere mediante apposite iniziative, secondo quanto già previsto dalla Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina (1997), in base alla quale le volontà espresse da un paziente che al momento dell’intervento non è in grado di operare una scelta consapevole devono essere tenute in considerazione, riconoscendosi così validità e giuridicità al testamento biologico.

In Italia, c’è un vuoto normativo assoluto; la totale assenza di punti di riferimento giuridici ha scatenato un intenso dibattito tra laici e cattolici e tra le varie forze politiche in Parlamento, il quale ha avuto come più importante conseguenza quella impedire un processo di legiferazione riguardo al tema. La L. 145/2001 ha autorizzato il Presidente della Repubblica a ratificare la Convenzione di Oviedo, ma sono poi mancati i decreti legislativi previsti per l’adattamento dell’ordinamento italiano. Allo stato, pertanto, manca la possibilità di dichiarare preventivamente la propria volontà a non essere sottoposti a terapie finalizzate a posporre la morte biologica, imperando piuttosto una situazione di estrema confusione su di una argomento di massima delicatezza. Ciò nonostante esistano nel nostro ordinamento appigli normativi importanti in tale direzione, non ultimo quello di cui all’art. 32 Cost. il quale riconosce che la salute è un diritto fondamentale e non un dovere e prevede trattamenti sanitari obbligatori solo per disposizione di legge, così garantendo l’indipendenza del soggetto nella scelta delle terapie.

Persistendo il denunciato vuoto legislativo, il malato (rectius: chi per lui) è quindi costretto a rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione a staccare la spina, che può essere concessa solo nella sussistenza di due presupposti:

a) che le condizioni di stato vegetativo del paziente siano irreversibili (circostanza che deve essere accertata dai medici);

b) che il paziente non avrebbe mai accettato di continuare a vivere in caso di grave infermità (condizione accertabile con riguardo al vissuto del paziente quanto i suoi convincimenti etici, culturali e religiosi).

Deve ricordarsi, al riguardo, come la Cassazione, con la sentenza 21748/2007, relativa al noto caso Englaro, abbia affermato che «il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (il sondino naso-gastrico che garantisce l’alimentazione e l’idratazione) in presenza dei seguenti presupposti:
a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza;

b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona».

L’indicazione di Strasburgo è dunque quella di colmare un vuoto legislativo divenuto intollerabile, mediante un’apposita normazione che consenta di regolamentare anche i momenti finali della propria vita, in una prospettiva di tutela della libertà di scelta del soggetto e della dignità umana. Appare infatti inaccettabile che le famiglie di pazienti in gravi situazioni debbano far ricorso all’autorità giudiziaria per far cessare l’agonia dei propri cari. Occorre invece che sulle tematiche della malattia, del dolore e della morte siano evitate ingerenze esterne, trattandosi di temi che riguardano la libertà di scelta del soggetto, tutelata mediante la predisposizione di regole collettive e condivise.

Né, rispetto alla possibilità di effettuare il testamento biologico, deve ritenersi che assumano rilevanza le fattispecie di cui all’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente) e all’art. 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio), giacché il rifiuto di ricevere determinati trattamenti sanitari non si concretizza in una forma di eutanasia, anche quando conduce alla morte.

Infine l’Assemblea di Strasburgo indica una serie di principi e di misure concrete che gli Stati devono osservare in sede di regolamentazione del testamento biologico, tra i quali assume rilievo la necessità di prevedere procedure semplificate e oneri sostenibili per garantire l’accesso a tutti al nuovo istituto. 

 

 

 

 

 

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