Considerazioni generali sulle prime prassi applicative della Legge n.54/06 (affido condiviso) Riforma innovativa o mera petizione di principio?

Florio Marina 15/11/07
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Indice:
1.Premessa; 2.Affido condiviso ed affidamento monogenitoriale: tutto cambia per restare come prima?; 3.Concreto contenuto dell’affidamento condiviso: alcune questioni processuali;4.Affidamento condiviso e risvolti economici: 4° co, art.155 c.p.c.
 
  1. Premessa
 
Una rapida disamina delle prime prassi applicative della L.54/06 fa paventare il dubbio che l’affannosa conquista dell’equa ripartizione, in uno all’esercizio “congiunto e/o disgiunto” ma comunque paritario, delle responsabilità connesse alla potestà genitoriale, non rappresenti altro che una mera petizione di principio.
 
E’ indubbio che la riforma, frutto di molteplici spinte, prima di tutto di ordine sociale e morale, sia stata accolta come approdo ad una agognata modernità. Da un lato, infatti, la stessa ha dato voce alle declamazioni delle lotte associazioniste dei “padri separati”, così come di svariate associazioni di operatori del diritto (AIAF, Camere minorili, Forum associazione donne giuriste, Anm, Aimmf, etc..) che hanno recepito spinte emotivo -relazionali ispirate ad una condivisione dei ruoli e delle responsabilità genitoriali anche nel venir meno della condivisione delle “coniugalità”. Dall’altro, la riforma si è posta come risposta al necessario allineamento ai principi giuridicamente già sanciti in diversi Paesi Europei (Svezia, Francia e Spagna, sin dal 1981; Regno Unito: Children Act 1991; Francia: Legge 8/01/93; Olanda: Legge 1/01/98; Germania: Legge 1/06/98) oltre che sulla scorta degli orientamenti da tempo espressi in sede internazionale[1]e comunitaria[2]  che pongono il minore al centro della tutela giuridica.
 
Tuttavia, ad un’immediata lettura del testo della riforma, emerge icto oculi come l’entusiasmo dell’obiettivo perseguito, abbia, contestualmente, messo in luce l’arditezza della sua concreta realizzazione, imbattendosi in espressioni dall’impatto suggestivo, ma sovente generico e financo contraddittorio. Tutto ciò, ingenera la sensazione di trovarsi dinanzi all’affascinante e sofisticata cornice di un quadro ancora da dipingere o quanto meno da delineare, perfezionare e completare con maggiore nitidezza.
 
Le modifiche introdotte dalla legge prestano il fianco a numerosi spunti di riflessione, sia di ordine generale, sia di natura squisitamente tecnico-processuale che, in questa sede, ci si limita a circoscrivere a due aspetti in particolare ravvisabili nell’art.155 c.c.:
1)      Concreto contenuto e significato dell’affido condiviso;
2)      Dubbi processuali inerenti ai “contrasti per questioni di maggior interesse riguardanti i figli”;
3)      Riflessi di ordine economico.
 
     2. Affido condiviso ed affidamento monogenitoriale: tutto cambia per restare come prima?
 
L’espressione di “gattopardiana memoria” non assurge ad altro che ad una riflessione provocatoria sui concreti riflessi della riforma che – ad avviso della scrivente – si prospetta solo astrattamente rivoluzionaria. Probabilmente una sua corretta interpretazione, scevra dalle fuorvianti distorsioni alle quali si presta, potrebbe scongiurare il rischio di difficoltà applicative e conflitti dalle proporzioni dirompenti – purtroppo già rilevati – proprio in danno di quel preminente interesse dei figli che, viceversa, rappresenta, proprio l’ineludibile obiettivo cui ambisce.
 
L’art.155 c.c. come sostituito dalla riforma così recita:
(Provvedimenti riguardo ai figli) “Anche in caso di separazione personale dei genitori, il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione di entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con parenti di ciascun ramo genitoriale.
Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi adotta provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli restino affidati ad entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro permanenza presso ciascuno genitore, fissando altresì il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione ed all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole.
La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggior interesse per i figli relativi all’istruzione, l’educazione ed alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.
Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:
1)      le attuali esigenze del figlio;
2)      il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;
3)      i tempi di permanenza presso ciascun genitore;
4)      le risorse economiche di entrambi i genitori;
5)      la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.”
 
Ciò che, sin da una prima rapida lettura, emerge, con estrema evidenza, è il cambiamento della prospettiva dalla quale prende le mosse la riforma. Assolutamente adeguata e pertinente si pone, in tal senso, la suggestiva ed eloquente immagine[3] che raffigura il minore come “il sole attorno al quale ruota tutto il sistema solare della famiglia e cioè i due genitori”ed oggi gli ascendenti e parenti.
Or, pur non potendosi dubitare della portata innovatrice della norma, occorre sottolineare come la necessità di adeguarsi ai profondi mutamenti sociali, oltre del più ampio panorama normativo comunitario ed internazionale non possano certamente trovare in un’accattivante formula ( condivisione della genitorialità ) la loro panacea. Il limite, peraltro, si evidenzia ancor più se solo si consideri che tra le ambite finalità della novella si rinverrebbe anche quella di porre rimedio alle dolorose disfunzioni di carattere psicopatologico osservate su minori, figli di genitori che vivono dolorose e conflittuali separazioni: sindrome di alienazione parentale, complesso di Medea, o disturbo di allineamento del minore con un genitore[4].
 
Nel nuovo impianto normativo, l’affidamento condiviso diventa la regola generale: la separazione dei coniugi, il venir meno della convivenza e la lacerazione della famiglia non possono comportare il venir meno del rapporto parentale, preservando inalterato in capo al minore l’ineludibile diritto a mantenere un rapporto continuato e continuativo non solo con ciascuno dei genitori, ma altresì degli ascendenti e parenti di ciascuno. Principio quest’ultimo che più appare concretamente innovativo, introducendo a chiare lettere il diritto – sancito e tutelato giuridicamente – in capo a tutti i legami familiari “ascendenti e parenti di ciascun ramo genitoriale” di mantenere significative relazioni affettive con il minore.
 
Tuttavia, in concreto, si comprende – e la prassi applicativa ne dà conferma – come al concetto di affido condiviso non consegua o comunque non necessariamente consegua un’equa o paritaria distribuzione dei tempi di permanenza del minore con ciascuno dei genitori che, nell’impatto dirompente della legge, ha ingenerato – tra i non addetti ai lavori – confusione tra affido condiviso, congiunto e alternato.
Le maggiori preoccupazioni dei genitori “affidatari esclusivi”, in esito all’introduzione della riforma, convergevano sul timore che il figlio potesse essere sottoposto alla mercè di un continuo ping pong tra un genitore e l’altro, perdendo punti di riferimento logistico, fonte di sicurezza e stabilità in un momento già particolarmente delicato quale quello conseguente alla disgregazione e destrutturazione del proprio modello familiare: il timore di un aggravamento degli oneri organizzativi, il terrore di far vivere al figlio la sindrome del “vagabondo”, con una valigia sempre pronta per trascorrere periodi di permanenza più o meno lunghi dall’uno o dall’altro dei genitori (a giorni alterni o per settimane o mesi), con gravi comprensibili problematiche.
 
I genitori affidatari hanno messo in luce – mi sento di affermare ottimisticamente – il reale interesse dei minori e con ciò mitigandosi la communis opinio che ha, non sempre a torto, raffigurato il genitore “monoaffidatario” come colui che illegittimamente, si ergeva ad unico arbitro delle sorti del figlio, sovente utilizzandolo come munus, o strumento ritorsivo del quale avvalersi per “vendicare”personali rancori nei confronti dell’altro genitore.
 
Nei lavori parlamentari, tuttavia, il dubbio viene dipanato, laddove il relatore Paniz precisa “Il testo in esame non tende ad una ripartizione dei tempi analitica dei tempi di permanenza del minore con i genitori: nel testo unificato, affidamento ad entrambi i genitori non significa 50% del tempo del figlio con ciascun genitore, né 50% delle competenze, né ping pong tra due case, ma conservazione di una effettiva responsabilità genitoriale per entrambi i genitori, con modalità di esercizio della potestà da stabilire caso per caso.”
 
 
 
     3. Concreto contenuto dell’affidamento condiviso: alcune questioni processuali
 
La ratio della legge – pur nell’ampiezza della formulazione che, purtroppo, come sopra paventato, si presta a reali dubbi interpretativi – ha messo in evidenza come, in realtà, il reale contenuto dell’affidamento condiviso si concretizzi, di fatto, unicamente nell’esercizio congiunto della potestà genitoriale, ossia nella necessità che entrambi i genitori, seppur non più coabitanti, e pur nel cessare del rapporto di coniugio, continuino a “gestire” il ruolo genitoriale, seguendo la vita della prole a tutti i livelli (ordinari e straordinari) di scelte e decisioni e ciò a prescindere dall’entità dei tempi di permanenza di ciascuno di essi con la prole. Di ciò ne costituiscono conferma i primi provvedimenti resi dai nostri Tribunali (ed in particolare, dalla 1° Sezione Civile del Tribunale di Catania) laddove – a meno che le parti (ed i casi sono davvero rari ed isolati) non siano in grado di predisporre un elaborato progetto di affido condiviso che, nel contemperamento delle reciproche esigenze professionali e dei concreti fabbisogni della prole, riesca a prevedere calendari di incontri equilibrati e paritari – nel perdurare del contrasto, il Decidente, il più delle volte, nelle ipotesi di giudizi di modifica delle condizioni di separazione o divorzio, conferma la regolamentazione del provvedimento sottoposto a censura, ovvero, dispone uno schema generalizzato che non si discosta in misura significativa dalle statuizioni antecedenti alla riforma se non per una maggiore elasticità dello stile (es. due pomeriggi infrasettimanali, in luogo di uno solo, e fine settimana alternati con pernottamento).
 
Ciò premesso e posto per certo che, nel tessuto normativo, l’affidamento generalizzato è quello condiviso, relegandosi l’affidamento esclusivo alla residuale ipotesi di contrarietà all’interesse del minore, si tratta di verificare come possa concretamente realizzarsi l’ardito programma della legge laddove la maggior parte delle separazioni sono caratterizzate da una profonda ed inestricabile conflittualità (che non costituisce ragione ostativa), ossia come possano concretamente coniugi, intrisi da reciproche ostilità, essere in grado di “gestire civilmente il disaccordo e affrontare in modo culturalmente diverso rispetto a quanto avviene in attualità la loro ragione di conflittualità” ?[5]
 
La risposta è arrivata con i riflessi delle prime concrete sperimentazioni che hanno – più di tutte – confermato il quasi assoluto immobilismo rispetto alla situazione registrata in epoca antecedente alla riforma. E ciò poiché, dinanzi alla maggior parte delle ipotesi nelle quali i coniugi non siano in grado di predisporre o prospettare un accordo programmatico, né un progetto articolato di affido condiviso dei minori, i provvedimenti giudiziali prevedono esplicitamente che la potestà ordinaria venga esercitata disgiuntamente in ragione dei tempi di permanenza del minore con ciascuno, con ciò evitando o quanto meno limitando i rischi concreti dinanzi al persistere della conflittualità coniugale. Invero, sin dalle prime applicazioni della novella si è voluto scongiurare l’intuitivo rischio di un vorticoso insorgere di contenzioso per qualsivoglia iniziativa ( anche pertinente l’ordinaria amministrazione ) che un coniuge volesse assumere, senza riuscire ad ottenere il consenso dell’altro. ,
 
Di tal chè, similmente a come accadeva nel passato ed in ossequio a quanto espressamente previsto dal 3° c., art.155 c.c., ciascuno dei genitori continua ad esercitare liberamente il proprio ruolo genitoriale ogni qualvolta tiene presso di sé il minore, così come in ordine a tutte le decisioni di maggior interesse afferenti scelte di carattere educativo, scolastico, medico-sanitario, che oltrepassino l’ordinaria amministrazione, vige il principio – improntato all’equilibrato buonsenso prima ancora che imposto da dictat normativi – secondo il quale le stesse continuano a dover essere prese, di comune accordo, tra i genitori nel precipuo ed ineludibile rispetto degli interessi della prole.
 
Resta salva in forza dell’art.155 c.c., 3° co., la facoltà di rimettere al giudice le controversie in merito alle decisioni di maggior interesse per i figli relative all’istruzione, l’educazione ed alla salute che i genitori non siano in grado di assumere di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.
Tale disposto consente di operare un breve richiamo alla particolare procedura di cui all’art..709 ter c.p.c. a tenore del quale “Per le controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’art.710 c.p.c. è competente il tribunale del luogo di residenza del minore. A seguito del ricorso il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni.” Senza entrare nel merito dell’analisi delle singole tipologie di intervento annoverate nel successivo comma dell’articolo appena richiamato, la laconicità del contenuto di quest’ultimo, induce una riflessione a se stante sotto un profilo squisitamente tecnico giuridico per la difficoltà di inquadrare la tipologia del procedimento introdotto e, per l’effetto, la natura del suo provvedimento conclusivo, la cui impugnabilità viene rimessa – ai sensi dell’ult.co. del medesimo art.709 ter c.p.c.- ai “modi ordinari”.
Or, limitandosi all’ipotesi di procedimento (di separazione o divorzio) pendente, nell’indicarsi quale competente “il giudice del procedimento in corso” sembrerebbe riferirsi al giudice istruttore. In tal modo, sembrerebbe introdursi la legittimazione del g.i., nell’ambito di un procedimento di competenza del collegio ( art.50 bis c.p.c. ) ad emettere veri e propri provvedimenti di condanna tendenzialmente definitivi. Pertanto, se a siffatti provvedimenti volesse ricondursi valore di “sentenze” parziali, il mezzo di impugnazione ordinaria al quale ricorrere sarebbe l’appello immediato o la riserva di appello. Tuttavia, non appare condivisibile conferire al g.i. il titolo ad emettere sentenze in una causa collegiale. Siffatta ipotesi, peraltro, renderebbe del tutto incongruente l’interpretazione sistematica delle disposizioni sopra richiamate che, singolarmente, attribuirebbero al giudice monocratico il titolo ad emettere sentenze se la domanda è proposta pendente iudicio ed, invece, al tribunale collegiale in funzione camerale ex art.710 c.p.c., negli altri casi.
Se, come appare preferibile, a siffatti provvedimenti va ricondotta natura di ordinanza del giudice istruttore, similmente a quella di natura provvisoria resa, ad esempio, in corso di causa, in esito alle richieste – sovente anche numerose – di modifica dell’ordinanza presidenziale ex art.708 c.p.c. si pone l’annoso dilemma della reclamabilità o meno degli stessi.
In proposito, da un lato, l’entrata in vigore della L.80/05 ( riforma del codice di procedura civile ) ed il suo silenzio in merito, aveva fatto concludere per la perdurante inammissibilità di siffatto mezzo di gravame, dall’altro, si è viceversa ritenuto che la nuova disciplina in materia di procedimenti cautelari e l’attenuazione del principio di strumentalità di siffatto giudizio rispetto a quello di merito ( ragione ostativa all’applicazione analogica della norma nei provvedimenti de quibus ) porterebbe ad un’implicita affermazione della loro reclamabilità.
 
Tuttavia, condividendo in tal senso, le argomentazioni di parte della giurisprudenza di merito[6], “affannosi” e frutto di forzature ermeneutiche si palesano gli sforzi dottrinali diretti ad un’interpretazione estensiva delle disposizioni vigenti al fine di sostenere la reclamabilità dei provvedimenti emessi dal g.i., sia ai sensi dell’art.708, 2° co., c.p.c., sia ai sensi dell’art.669 terdecies c.p.c.
 
Sotto il primo profilo, non vi è dubbio che l’art.708 c.p.c. delinei indefettibilmente un mezzo di impugnazione tipico ed eccezionale che, peraltro, si innesta perfettamente nel nuovo assetto bifasico ( con una netta demarcazione tra fase presidenziale e fase contenziosa ) del procedimento di separazione, così come delineato dalle recenti riforme . Esso, nella sostanza e nella forma, integra un vero e proprio reclamo camerale ex art.739 c.p.c. rispetto al quale, tuttavia, per la sua specificità e peculiarità non può ipotizzarsi né un’interpretazione estensiva dei provvedimenti che ne possano costituire l’oggetto, né un’applicazione analogica delle norme sul reclamo cautelare.[7]
Peraltro, a suffragio di tale tesi, appare coerente e lineare l’inquadramento di tali provvedimenti – tanto emessi in sede presidenziale che in sede contenziosa – non quali provvedimenti di natura cautelare, bensì di carattere interinale e sommaria, non sempre anticipatori della statuizione definitiva. Gli stessi, infatti, hanno quale precipua finalità quella di ovviare ed, in qualche modo, dirimere le necessità del momento – plausibilmente sovvertibile in esito alla compiuta istruttoria del giudizio o al verificarsi di fatti che ne giustifichino un’eventuale modifica o riassestamento – e la cui urgenza è sovente in re ipsa. Ed invero, trattasi di “urgenza” insita all’estrema delicatezza ed alla stessa natura delle questioni da dirimere che possono essere quelle in tema di affidamento, piuttosto che la decisione dell’iscrizione di un minore in un istituto scolastico piuttosto che in un altro, o ancora la decisione di condurlo in una gita all’estero o la scelta di una visita medico specialistica o un intervento chirurgico,etc….
 
Pertanto, dovendosi escludere la reclamabilità di siffatti provvedimenti tanto ai sensi dell’art.669 terdecies c.p.c., tanto ai sensi dell’art.739 c.p.c. trattandosi di provvedimenti emessi in sede contenziosa e non camerale, non è nemmeno prefigurabile il rimedio del reclamo al collegio ai sensi dell’art.178 c.p.c. essendo tale mezzo previsto esclusivamente avverso le ordinanze che dichiarano l’estinzione del processo. Resterebbe, pertanto, la facoltà – che, alla luce della disamina della norma, appare l’unica via correttamente percorribile – della parte “soccombente” di richiedere allo stesso g,i. la modifica del provvedimento nel caso in cui fosse necessario un riesame della documentazione e della fattispecie sottoposta al vaglio, ovvero ove vi fossero circostanze nuove o sopravvenute o che ne rendessero evidente l’inadeguatezza e la necessità di una revoca e/o modifica, ovvero, infine, sottoporre al collegio il sede di decisione ogni questione già decisa dal Giudice Istruttore.
 
Tuttavia, dinanzi alla coerenza sistematica di simili conclusioni, sotto un profilo squisitamente tecnico processuale, è d’uopo mettere in rilievo come proprio la stessa natura e delicatezza degli interessi sottoposti al vaglio del “giudice del procedimento” chiamato a decidere su “controversie in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento”, mal si concilia con le necessarie esigenze di garanzia e tutela di applicazione degli stessi che verrebbero ex se fortemente vanificati, dinanzi alla mancata previsione di un concreto ed immediato gravame idoneo a consentirne un celere riesame.
In tal senso, volendo in qualche modo forzare la lettura del testo normativo, nulla lascerebbe escludere che con l’indicazione “giudice del procedimento” si sia inteso riferirsi al Tribunale in funzione collegiale, al quale è demandata la decisione finale dei procedimenti di separazione e divorzio (art.50 bis c.p.c.). A simili provvedimenti, pertanto, potrebbe attribuirsi funzione decisoria, sia pur con natura meramente interinale, e, per l’effetto, potrebbe considerarsi ammissibile, per la necessaria natura urgente, assimilabile a quella precipuamente dei provvedimenti di carattere cautelare – pur con le peculiarità sopra esposta – prevedere avverso gli stessi il rimedio del reclamo ai sensi dell’art.669 terdecies c.p.c.. Diversamente, potrebbe assimilarsi – anche qui non senza rischiare forzature interpretative – il procedimento introdotto ai sensi dell’art.709 ter c.p.c pendente iudicio (di separazione o divorzio) ad una peculiare procedura da introdursi con ricorso al competente Tribunale in funzione collegiale che verrebbe a definirsi con ordinanza camerale reclamabile ai sensi e per gli effetti dell’art.739 c.p.c. 
 
Tuttavia, non deve trascurarsi il rischio che la legittimazione di siffatta possibilità comporterebbe un’eccessiva parcellizzazione del giudizio con la conseguenza dello svuotamento dei poteri e delle facoltà del g.i. che, viceversa, lo spirito della riforma sembrerebbe proprio tendere a valorizzare.
E’ di tutta evidenza, pertanto, che il legislatore, avvalendosi di riferimenti vaghi ed essenziali (il giudice del procedimento, mezzi di impugnazione ordinari) abbia perso l’opportunità di delineare i confini di una peculiare procedura che, viceversa, avrebbe dovuto e potuto, annoverare con dovizia di particolari. In particolare, ha omesso di specificare gli strumenti (ad esempio chiarendo che per giudice del procedimento si intende il giudice istruttore e specificare il relativo mezzo di impugnazione magari prevedendo una peculiare forma di reclamo al collegio) ai quali ricorrere in controversie di tal fatta, lasciando alle incertezze applicative ed alla prassi giurisprudenziale, l’arduo compito di fornire adeguati orientamenti che, a parere della scrivente, tardano a farsi avanti con quella necessaria stabilità che, viceversa, la tematica de qua declama a gran voce.
 
         4. Affidamento condiviso e risvolti economici: 4° co., art.155 c.p.c.
 
Altro aspetto meritevole di ulteriori riflessioni è quello afferente la definizione degli aspetti economici e del mantenimento dei figli in conseguenza dell’introduzione del regime di affido condiviso. Richiamando il sopra richiamato art.155 c.p.c. al suo 4° co. è dato leggersi “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità,…”. 
Come è noto, la prassi unitaria che si era radicata sulla prescrizione dell’art.155 c.c. introdotto dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 – a tenore del quale “il giudice stabilisce la misura ed il modo con cui l’altro genitore deve contribuire al mantenimento, alla cura, dell’istruzione ed all’educazione dei figli…” – si concretava nell’attribuzione del genitore affidatario di un assegno mensile che veniva posto a carico dell’altro genitore a titolo di contributo per il mantenimento della prole. La continuità che sembra leggersi nel secondo comma dell’art.155 nuova formulazione, sembra poi essere in qualche modo interrotta dal suo quarto comma, dalla cui lettura è dato prima facie evincersi l’introduzione preferenziale e generalizzata di una forma diretta di contribuzione ai fabbisogni della prole, senza prescindere dall’ineludibile principio di proporzionalità ancorato alle reciproche situazioni economico patrimoniali, privilegiando l’accordo delle parti all’individuazione dei relativi capitoli di spesa, in linea alla ratio della riforma che mira ad attuare un pieno ed equilibrato esercizio delle “funzioni potestative” in uno ad una maggiore se non del tutto paritetica presenza nella dei figli di entrambe le immagini affettive genitoriali di riferimento[8]
 
Unico dato incontrovertibile pare essere l’insindacabilità degli accordi interni liberamente convenuti tra le parti in ordine alla distribuzione dell’obbligazione solidale del mantenimento dei figli, senza che ciò possa tuttavia in alcun modo condizionare l’esistenza del credito e la relativa determinazione secondo gli ordinari criteri di proporzionalità in ossequio ai principi sanciti dal combinato disposto degli articoli 155 c.c., art.30 Cost., artt.147 e 148 c.c.[9]  
 
Questione, viceversa, maggiormente dibattuta è stata, ed è, quella che consegue alla disposizione che così recita “il giudice, ove necessario, stabilisce la corresponsione di un assegno periodico”. Il tenore della norma ha fatto, nelle prime applicazioni, emergere il dubbio del ribaltamento dell’onere contributivo indiretto quale misura eccezionale e residuale. La regola, viceversa, appariva essere, in linea alla ratio dell’affido condiviso e del modello dell’equa spartizione di tutte le responsabilità connesse, la contribuzione diretta: ossia ciascun genitore, anche in ragione dei tempi di permanenza e nel contemperamento dei parametri indicati dalla norma, si assume direttamente parte degli oneri relativi al mantenimento della prole, mediante l’attribuzione o il pagamento diretto di un bene o di un servizio.
 
Ebbene, anche in tal caso, la poca chiarezza della norma, – nell’incertezza della concreta realizzazione di siffatta tipologia di contribuzione – ha lasciato pericolosamente aperta la via all’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, con evidenti ricadute di ordine pratico che non hanno tardato a farsi strada.[10]
 
Ed invero, dinanzi alla dilagante incapacità dei coniugi di predisporre un progetto articolato e dettagliato, nelle prime ipotesi applicative ( con particolare riferimento alla giurisprudenza di merito della 1° sezione Civile del Tribunale di Catania ) fissata una quota ideale mensile per il mantenimento della prole commisurata alle esigenze della stessa, e tenuto conto delle capacità economiche dei coniugi onerati e del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, si è proceduto ad una ripartizione, anche in ragione dei tempi di permanenza del coniuge non collocatario, della misura di contribuzione diretta ( individuata da una frazione della complessiva quota mensile ), indicandosi, prevalentemente, quali voci o capitoli di spesa quelle genericamente riferite a beni “essenziali” (cibo, vestiario) occorrendi ai minori.
 
E’ di palmare evidenza che la necessità di stabilire in termini di equivalente economico la contribuzione diretta, incardinandola in un’obbligazione determinata o quanto meno determinabile, unitamente all’opportunità di individuare i relativi comparti di spesa, è strettamente connessa alle esigenze di tutela nell’ipotesi di inadempimento che, tuttavia, non resta indenne dai persistenti contrasti nell’ascrivibilità o meno di quella spesa all’alveo della contribuzione diretta, nonché alla prova dell’effettiva realizzazione della stessa. In tal senso, è intuitivo prefigurare una insulsa guerra di scontrini, ad es. afferenti spese alimentari assai difficilmente imputabili, con ragionevole grado di certezza, all’assolvimento delle esigenze del minore, piuttosto che a quelle personali o del nuovo nucleo familiare del genitore onerato[11].
 
Il contenzioso immediatamente insorto dinanzi a tali prime prassi ha fatto emergere, da un lato, oltre che l’incertezza dell’iniziativa giudiziaria più adeguata o corretta da intraprendere (un giudizio ordinario, denunzia penale, decreto ingiuntivo, sequestro ex art.156, 6°co, c.c…) l’ineffettività di qualsivoglia strada diretta ad ottenere il pagamento di tale forma di contribuzione, dall’altro, l’inesorabile constatazione del fallimento della nobile ratio sottesa alla riforma.
 
Su tale fronte, i primi interventi della giurisprudenza, sopperendo alle lacune letterali della norma, non hanno tardato a rinvenire validi correttivi.
Da un lato, con qualche pronuncia dei giudici di merito[12] è stato applicato l’art.709 ter c.p.c. alle fattispecie di violazione degli obblighi di natura patrimoniale, compiendo una forzatura interpretativa del suo secondo comma che, nel definire le soluzioni della controversie insorte tra i genitori per le quali è competente il giudice del procedimento in corso, aggiunge a quelle afferenti l’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento, il compimento di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore. Tuttavia, il più invalidante limite di tale provvedimento si rinviene proprio nel suo dispositivo e nelle conseguenze attribuite a siffatto comportamento: nell’ammonire il genitore inadempiente, gli si infligge una sanzione amministrativa da versare alla Cassa delle ammende, riservando all’esito della prova della persistenza inottemperanza e dei conseguenti eventuali danni, l’eventuale condanna al risarcimento patrimoniale. E’ di tutta evidenza come simile decisione non possa seriamente ritenersi garantista delle esigenze di effettività dei diritti del minore che una multa da versare alla Cassa delle Ammende non tutela in alcun modo, né, d’altronde, è dato rinvenirsi dalla lettera della norma il presupposto per accertare l’inadempimento della contribuzione diretta del coniuge onerato (il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna, imponendo l’instaurazione di un giudizio ordinario, o una pronuncia penale, …) e la condizione per qualificare come grave l’inadempienza del coniuge: è sufficiente la mancata corresponsione di una sola mensilità di “contribuzione diretta”, o deve raggiungersi un certo ammontare, ammesso che sia agevole provarne l’omissione…?
 
In tal senso, appare utile sottolineare come il testo del disegno di legge risultante dagli emendamenti approvati dalla Commissione Giustizia l’8/02/05, prevedeva all’articolo 155 quater c.c. che, in caso di inadempienza – e non già grave inadempienza – rispetto agli obblighi di mantenimento diretto, il Giudice disponesse, relativamente al genitore inadempiente, la loro sostituzione tramite corrispondente assegno da versare all’altro genitore.
Purtroppo, tale disposizione, nel testo definitivo, non viene riproposta, perdendosi l’opportunità di una previsione certa che, tuttavia, potrebbe, in qualche modo, ricondursi a quanto sancito dall’art.155 ter c.c., ove, avvalendosi del potere discrezionale conferito in tal senso al Giudice, si prevede espressamente in capo ad entrambi i genitori “il diritto di chiedere, in ogni tempo, la revisione delle disposizioni concernenti…la misura e le modalità del contributo”.
 
Dall’altro lato, a soccorso dell’incerto incedere su tali tematiche, è intervenuta una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (n.18187/06) che, per la completezza dell’iter logico argomentativo di cui si avvale, nonché mercè la capillare divulgazione sulle reti di comunicazione ragionevolmente ascrivibile alla notorietà delle parti in lite (coniugi Carrisi – Power) ha avuto il merito di dirimere i termini della questione, pur prendendo le mosse dalla diversa fattispecie dell’affido congiunto alla quale ha affiancato con un parallelismo precursore (essendo la legge pubblicata in epoca successiva all’impugnata decisione) quella dell’affido condiviso.
 
In un passaggio significativo, è dato leggersi “In proposito, è da rilevare, come anche la recente legge 54/06, …introduca il principio della bigenitorialità, con ciò ovviamente privilegiando l’interesse esistenziale del minore e, prescindendo, in particolare, sia dal rapporto patrimoniale tra i due ex coniugi, sia dagli aspetti economici riguardanti la vita del minore, autonomamente disciplinati dal quarto comma, di detto art.155 c.c., in cui è previsto che ciascuno dei genitori, provvede direttamente al mantenimento dei figli, in misura proporzionale al proprio reddito e che “il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità” sulla base di parametri tra cui “le risorse economiche di entrambi i genitori”.
La linea ermeneutica seguita dalla Suprema Corte, pertanto, ha eliminato i dubbi sopra paventati dal tenore letterale dei principi sopra analizzati. Invero, diversamente da come emergeva prima facie, la L.54/06 – pare potersi pacificamente affermare – non ha affatto introdotto come privilegiata e prevalente modalità di contribuzione il mantenimento diretto, bensì ha previsto e mantenuto inalterato l’obbligo della corresponsione di un assegno indiretto che il genitore non convivente – tenuto conto dei parametri di riferimento ed in ossequio al principio di proporzionalità – deve continuare a corrispondere al genitore coaffidatario e collocatario della prole.
 
Fortunatamente, le conclusioni di tale pronuncia – assai verosimilmente dietro le spinte del rovinoso ricorso ed insuccesso delle più svariate iniziative giudiziarie a tutela degli interessi anche patrimoniali dei minori – sono state recepite dalle successive statuizioni dei giudici di merito che hanno finito per allinearsi a tale nuovo orientamento, assestando l’iniziale rotta verso un revirement alla situazione ante riforma, individuando come prevalente ed ineludibile forma di contribuzione alle esigenze della prole quella indiretta, lasciando anche su tale fronte pressocchè inalterata la disciplina giuridica preesistente.
 
La disamina sopra effettuata, pertanto, – senza alcuna pretesa di esaustività – si ritiene confermi le riflessioni tutt’ora aperte e ferventi, riproponendo i dubbi espressi in premessa circa l’effettiva carica innovativa di una riforma che, a distanza di quasi due anni dalla sua applicazione, accanto all’apertura al varco di numerose incertezze interpretative, anche e – oserei affermare – pericolosamente sul fronte tecnico giuridico, fa più che mai reiterare l’interrogativo “letterario” che suona un po’ come un’anatema o forse l’amara consapevolezza della realtà di tutti i tempi: è proprio vero che “Tutto cambia per restare come prima”?!
 
                                                                                                          Marina Florio
                                                                                              Avvocato del Foro di Catania
                                                                                   marina.florio@fastwebnet.it
 
 


[1] Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, ratificata con L.176/91, che all’art.12 stabilisce il diritto del fanciullo capace di discernimento di esprimere la sua opinione su ogni questione che lo interessa in considerazione dell’età e del suo grado di maturità; Carta Europea dei diritti del fanciullo del 1992; Convenzione di Strasburgo del 1996, ratificata con L.77/06 che all’art.6 prevede la necessità, per l’autorità giudiziaria, prima di adottare qualsiasi decisione nelle procedure che interessano un fanciullo, di consultarlo personalmente, quando abbia una sufficiente capacità di discernimento, consentendogli di esprimere la sua opinione e tenendone in debito conto.
[2] Regolamento CEE n.2201/03 in vigore dal 01.03.2005 in tema di responsabilità genitoriale.
[3]  Cfr “l’art.155 c.c.” Gaetana Bernabò Distefano – Magistrato, I sezione Civile, Tribunale di Catania, Novembre 2006, relazione per il C.S.M. – formazione decentrata – convegno Aprile 2007;
[4] La “sindrome di alienazione parentale (SAP)” è definita come una forma di disagio psicologico che affligge il genitore monoaffidatario che ritiene controproducente, se non pericoloso, il rapporto dei figli con l’altro genitore, e che pertanto pone in essere una serie di strategie allo scopo di escluderlo dalla vita dei figli. Secondo il suo autore Gardner, tale disturbo si manifesta con precisi sintomi ( 8 in particolare ) e si realizza con un vero e proprio programma di denigrazione – non sostenuto da concreti elementi giustificativi – posto in essere dal genitore affidatario (alienante) contro l’altro (alienato)  fino ad allontanarlo, alienandolo, per l’appunto, dalla vita del figlio. Approfondimenti in “La sindrome di alienazione parentale” a cura di Avv.Maria Luisa Missiaggia, in www.studiodonne.it  Wallerstein e Kelly nel 1980 definivano “allineamento del minore con un genitore” il disturbo rilevato in conseguenza dei comportamenti induttivi e manipolativi del genitore alienante ai quali il minore si “allinea”, recependoli ed elaborandoli come certezza proprie. Diversa qualificazione del fenomeno è il c.d. “complesso di Medea” che, per il suo autore Jacobs, è ravvisabile nel comportamento materno finalizzato alla distruzione del rapporto padre e figli quale conseguenza delle separazioni conflittuali. Cfr “l’art.155 c.c.” Gaetana Bernabò Distefano ult.cit.
[5] Relazione Paniz ai lavori parlamentari.
[6] Crf Tribunale di Catania; Sezione Prima Civile, ordinanza collegiale 29/09/06; Pres.Maiorana; rel.Pappalardo, proc.9429/2006 R.G.
[7] cfr. Dott.ssa Domenica Motta, magistrato I Sez.Civ. Tribunale Civile di Catania, in relazione per il C.S.M. – formazione decentrata – convegno 20/04/07;
[8] Su tale linea, da Luisa Giappichelli, vedasi in dottrina De Filippis, Affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio. Padova 2006, 106; Sesta in Fam,.Dir.2006, 4, 385 e Servetti in Affido condiviso, prime osservazioni e nodi problematici 4, in www.Unicostmilano.it )
[9] In “L’affidamento condiviso”, par.4) relazione della Dott.ssa Concetta Pappalardo Reale, giudice della Prima Sezione Civile del Tribunale di Catania, convegno per il C.S.M. – formazione decentrata – 20/04/07;
[10] Dal quotidiano on line Diritto & Giustizi@ del 21/10/06, nota di Maria Grazia Scacchetti.
[11] Tratto da relazione su “L’affidamento condiviso (Legge 8/02/06, n.54)” Dott.Francesco Distefano, Magistrato Tribunale Civile di Catania, Prima sezione Civile, Maggio 06;
[12] In “D & G” n.25/06, con commento di Andrea Bulgarelli p.22.

Florio Marina

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