Concorso pubblico e in house providing: riflessioni alla luce del nuovo Testo unico sulle società partecipate

Jose Criscuolo 16/03/17
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Prima di entrare “in medias res”, i profili di specialità che caratterizzano la composita galassia delle società partecipate suggeriscono di inquadrare brevemente il fenomeno, soprattutto tenuto conto della recente approvazione del D.lgs n. 175/2016 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica).

Il testo in parola, in attuazione della delega conferita al governo attraverso la L. n. 124/2015, nasce con il dichiarato intento di riordinare la farraginosa disciplina normativa inerente le società pubbliche, al contempo razionalizzando le partecipazioni societarie detenute dalle amministrazioni centrali e locali; il tutto in una complessiva ottica di risparmio della spesa pubblica.

Ponendosi in una linea di continuità con i più recenti interventi normativi,  il legislatore delegato assegna agli enti in parola una connotazione spiccatamente privatistica.

Sul punto basta rilevare che l’articolo 1 comma 3 del D.lgs n. 175/2016 testualmente recita  “Per tutto quanto non derogato dalle  disposizioni  del  presente decreto, si applicano alle  società  a  partecipazione  pubblica  le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme  generali di diritto privato”[1],.

Così stando le cose, dovrebbe ritenersi che l’assunzione del personale alle dipendenze delle società de quibus sia un affare tutto privatistico, come peraltro confermato dall’applicabilità ai  rapporti  di lavoro  dei  dipendenti  delle disposizioni del capo I, titolo  II,  del  libro  V  del codice  civile, nonché delle leggi  sui  rapporti  di  lavoro  subordinato nell’impresa, ex art. 19, comma 1, del nuovo decreto.

Una tale conclusione, tuttavia, merita di essere precisata nella sua portata, alla luce degli innegabili indici di pubblicità reale che caratterizzano talune figure ricomprese nell’ampio ed eterogeneo genus delle società a partecipazione pubblica, prime fra tutte le società in house.

L’interesse per le modalità di reclutamento dei lavoratori alle dipendenze delle società partecipate nasce ben prima dell’approvazione del recente Testo unico, come comprova la casistica giurisprudenziale.

Il dibattito non è sfuggito al legislatore, che ha cercato di disciplinare il fenomeno attraverso l’art. 18 del D.l. n. 112/2008, differenziando le modalità di reclutamento a seconda che si trattasse di società preposte alla cura di servizi pubblici locali ovvero di enti a partecipazione pubblica totale o di controllo.

In tale ultimo caso, in particolare, si demandava alle società la fissazione di criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi, lasciandole libere di determinarsi nel modo più opportuno, salvo stabilire come unico vincolo la conformità ai ben noti principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità.

In relazione ai gestori di servizi locali sotto totale controllo pubblico, invece, si circoscriveva il margine di discrezionalità, imponendo che i criteri e le modalità per il reclutamento del personale rispettassero i principi di cui al comma 3 dell’articolo 35 del D.lgs., 30 marzo 2001, n. 165[2] (di seguito T.u.p.i.).

La norma da ultimo richiamata, come è noto, esprime i principi che informano le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni, i quali risultano essere ben più stringenti dei generali parametri di derivazione comunitaria a presidio della corretta assunzione presso le società partecipate non preposte alla gestione di servizi locali.

Il D. lgs n. 175/2016 supera la distinzione citata e generalizza il più vincolistico regime, assoggettando  la selezione del personale delle società pubbliche al rispetto degli standard di economicità, celerità, decentramento e pari opportunità  già imposti dall’art. 35, comma 3 T.u.p.i..

A compendio di tale disciplina sostanziale, il legislatore della novella dedica una scarna disposizione ai profili di giurisdizione, stabilendo in maniera sibillina che “Resta ferma la giurisdizione ordinaria sulla validità dei provvedimenti  e delle procedure di reclutamento del personale”.

Rebus sic stantibus, dovrebbe concludersi che il decreto di nuovo conio sottoponga il reclutamento del personale delle società partecipate ad un regime normativo ibrido.

Da un lato, infatti, si rifugge dalla regola del concorso pubblico (e dalla relativa giurisdizione amministrativa) mentre, dall’altro, si rafforzano i vincoli a presidio del corretto espletamento delle procedure selettive, che tuttavia “restano” devolute alla giurisdizione ordinaria.

Ne deriva che, analogamente a quanto avviene nelle amministrazioni “tradizionali”, l’assunzione del personale di una società a capitale pubblico in spregio ai criteri citati è da ritenersi nulla per violazione di norma imperativa[3]; tale invalidità, come più volte affermato dalla Corte di Cassazione[4], determina l’applicazione dell’art. 2126 c.c., consentendo di far salvi i diritti retributivi e previdenziali acquisiti dal lavoratore assunto irregolarmente.

Sin qui non sembrerebbero sorgere problemi, salvo osservare che la giurisdizione ordinaria sulle procedure di reclutamento de quibus è una acquisizione tutt’altro che pacifica in giurisprudenza, risultando molto controversa soprattutto in relazione al fenomeno in house providing, così come delineato di recente dalle Sezioni Unite.

Nel panorama giurisprudenziale, infatti, si contendono il campo due opposti orientamenti, di guisa che le procedure selettive degli enti in house vengono di volta in volta ricondotte alla giurisdizione ordinaria ovvero a quella amministrativa.

Il primo degli indirizzi citati, condiviso dalla recente sentenza del Tar Puglia del 7 aprile 2016, n. 452, ritiene che la giurisdizione ordinaria sia avallata dalla presenza di molteplici indici normativi, nonché dalla giurisprudenza della Suprema Corte.

Sul versante normativo, l’obbligo di adottare criteri e standard analoghi a quelli previsti per le tradizionali amministrazioni, lungi dall’incidere sul riparto giurisdizionale, avrebbe il solo scopo di aumentare le garanzie che presiedono al corretto reclutamento dei dipendenti delle società in house; trattasi, dunque, di disciplina sostanziale, “che si inserisce pur sempre nell’agire (jure privatorum) della società, senza comportare esercizi di pubbliche potestà e senza incidere sulla giurisdizione”.

Nel medesimo senso deporrebbe la circostanza che l’art. 63 comma 4, D.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, nel prevedere la giurisdizione amministrativa in materia concorsuale, pare riferirsi solo alle procedure indette dagli enti specificamente indicati dall’art. 1 comma 2 del medesimo T.u.p.i., tra i quali non figurano le società in house.

Con riguardo a queste ultime, si sostiene, l’equiparazione alle amministrazioni statali per determinati fini “non importa eo ipso la traslazione della giurisdizione sulle relative controversie al Giudice amministrativo”, atteso che, in occasione di procedure di selezione del personale, le società a partecipazione pubblica non realizzano una spendita del potere pubblico.

Le argomentazioni sin qui esposte sembrano trovare l’avallo anche delle Sezioni Unite, che hanno ritenuto sussistente la giurisdizione ordinaria in relazione alle procedure selettive poste in essere da società (non in house) a totale partecipazione pubblica[5]; a parere della Corte, infatti, la riserva della giurisdizione amministrativa in materia di procedure concorsuali, ex art. 63, comma 4, T.u.p.i. “non può affatto configurarsi in funzione della insorgenza di un rapporto di lavoro privato alle dipendenze di una società per azioni”.

Da quanto sin qui esposto, già emerge che la vexata quaestio sottende un problema di più ampio respiro: interrogarsi sul riparto di giurisdizione, infatti, significa chiedersi se nella specie si è di fronte (o meno) all’esercizio di una potestà pubblicistica.

Ciò detto, si ritiene che le conclusioni cui giunge l’orientamento in parola non siano dirimenti laddove la società a totale partecipazione pubblica sia anche in possesso dei requisiti tali da qualificarla alla stregua di un ente in house.

  Come è noto, l’originaria elaborazione del fenomeno dell’in house providing si deve alla celebre pronuncia “Teckal” della Corte di Giustizia[6], che per prima ha enucleato gli indici che contraddistinguono l’istituto.

Tali indici sono oggi puntualmente compendiati nell’art. 5, comma 1 del D.lgs. n. 50/2016 e possono riassumersi nella necessità che la società de qua  svolga prevalentemente la propria attività in favore dell’ente affidante e che tale ente eserciti sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.

Così ricostruito il fenomeno, è facile riscontrare un’ erosione della soggettività giuridica propria della società in house, sempre più assimilabile ad una mera articolazione interna dell’amministrazione controllante.

In tal senso, peraltro, si orienta la più recente giurisprudenza di legittimità, che si è spinta fino a disconoscere la sussistenza di una vera e propria alterità soggettiva tra amministrazione di riferimento e società in house, con la conseguente devoluzione alla giurisdizione contabile delle controversie inerenti al danno “erariale” arrecato dall’amministratore dell’ente controllato al patrimonio del socio pubblico.

Se le società in house non sono altro che altro che “articolazioni in senso sostanziale della pubblica amministrazione da cui promanano”, come ritenuto dalle ultime quattro pronunce rese al riguardo dalle Sezioni Unite[7], la devoluzione al giudice ordinario del contenzioso relativo alle procedure di reclutamento del personale pare tutt’altro che coerente con i principi generali del sistema.

Partendo da tale assunto, con sentenza n. 5643 resa in data 11 dicembre 2015, la quarta sezione del Consiglio di Stato ha ribaltato la prospettiva sopra delineata, affermando espressamente che “dalla sostanziale identificazione tra la società in house e la pubblica amministrazione di cui essa costituisce articolazione in senso sostanziale, strumento operativo, quasi organo, discende insomma la riconducibilità della fattispecie, sul piano soggettivo, al campo di applicazione di cui al citato art. 63, comma 4, del d. lgs. n. 165 del 2001”.

Ecco, dunque, riemergere il binomio inscindibile tra utilizzo del potere pubblico e giurisdizione amministrativa, nella specie entrambi ritenuti riferibili al fenomeno dell’in house providing.

Tale conclusione, nell’impostazione adottata dal Consiglio di Stato, sembra obbligata laddove si consideri la disciplina derivante dal combinato disposto degli artt. 7, comma 2 D.lgs. n. 104/2010 (c.p.a.) e 1, comma 1-ter, della L. n. 241 del 1990.

L’art. 7 citato, nel perimetrare l’ambito della giurisdizione amministrativa, stabilisce che “per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo” .

Così delineata la nozione, il Supremo Consesso ritiene che nel novero delle amministrazioni rientrino anche le società in house, le quali sono tenute al rispetto del modulo provvedimentale anche se dotate di una natura formalmente privatistica.

Inoltre, anche a voler trascurare l’intrinseca essenza pubblicistica degli enti in parola, l’art. 1, comma 1 ter, della legge n. 241/90 impone ai soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative il rispetto del modello procedimentale; ne deriva che, anche a volerla qualificare come soggetto privato, la società in house è tenuta ad agire al pari delle amministrazioni tradizionali, confermandosi anche per tal verso l’assoggettamento alla giurisdizione amministrativa.

L’indirizzo da ultimo esaminato, se risulta coerente con la cornice normativa richiamata e la ricostruzione del fenomeno in house operata dal Giudice di legittimità, pone non pochi problemi di coordinamento con il nuovo  Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica.

 Il D.lgs n. 175/2016, infatti, liquida l’argomento in maniera piuttosto sbrigativa e pone una disciplina che presenta dei profili di criticità, primo fra tutti quello relativo all’utilizzo dell’ambigua formula “resta ferma la giurisdizione ordinaria”.

Come si è brevemente osservato, in presenza di un panorama giurisprudenziale frastagliato,  in cui all’interno della stessa giurisdizione amministrativa non vi è concordia, risulta inadeguato il ricorso ad una proposizione di matrice ricognitiva, tenuto conto che nella specie occorre più superare precedenti incertezze che porsi in linea di continuità con un consolidato orientamento.

Sotto un diverso ma concorrente profilo, può dubitarsi dell’opportunità di equiparare (peraltro implicitamente) la disciplina del reclutamento del personale degli enti in house a quella relativa alle società a partecipazione pubblica prive dei requisiti primi menzionati, prescindendo per entrambe da un obbligo concorsuale sottoposto al vaglio del giudice amministrativo.

Beninteso, si è consapevoli che differenziare già ex ante le due fattispecie è compito arduo, che potrebbe rendere ancora più incerto il riparto di giurisdizione; è noto, del resto, che la natura in house di un ente spesso emerge solo a seguito di valutazioni relative alle peculiarità del caso concreto, sicchè è ben possibile che si incardini una controversia ancor prima di aver raggiunto la certezza circa l’esatta qualificazione della società convenuta.

Invero, proprio al fine di attenuare tale anomalia, il legislatore ha previsto l’istituzione presso l’Anac di un elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house (art. 192, comma1, d.lgs. n. 50/2016).

La previsione da ultimo citata si propone l’ambizioso obiettivo di voler censire gli enti abilitati a operare mediante affidamenti diretti, così perseguendo esigenze di certezza dei rapporti giuridici e implementando i livelli di pubblicità e trasparenza nei contratti pubblici.

Se questa è la chiara ratio sottesa alla disposizione in esame, non si comprende il motivo per il quale il legislatore non abbia percorso “l’ultimo miglio”, prevedendo che tutte le società che ricevono affidamenti diretti da parte degli enti iscritti nell’elenco de quo siano obbligate a reclutare il proprio personale attraverso un concorso pubblico.

L’art. 192, tuttavia, ha alimentato più dubbi di quanti ne sia riusciti a risolvere, atteso che non è  ad oggi chiaro se l’iscrizione nell’elenco citato assuma natura costitutiva tout court, ovvero abbia solo finalità ricognitiva degli operatori dotati dei requisiti sostanziali che legittimano il ricorso agli affidamenti diretti.

Peraltro, la stessa scelta di voler formare un elenco chiuso delle società abilitate a fruire del modello in house si scontra con la difficoltà pratica di dare corpo a elementi costitutivi di per sé generici, quali ad esempio il requisito della necessaria presenza del controllo analogo esercitato sulla società da parte dell’ente controllante.  

Proprio il persistere dei rilevati dubbi interpretativi, allora, avrebbe potuto indurre il legislatore ad orientarsi in senso diametralmente opposto a quello delineato dall’art. 19 del  D.lgs n. 175/2016, assoggettando tutte le procedure di reclutamento indette dalle società a partecipazione totalmente pubblica alla regola del concorso pubblico, e alla consequenziale giurisdizione amministrativa.

L’opzione ermeneutica suggerita, oltre ad essere coerente con la volontà del legislatore delegato di rafforzare i vincoli che circondano l’assunzione dei dipendenti delle società in parola, avrebbe anche posto fine alle illustrate oscillazioni giurisprudenziali, peraltro potendo fare affidamento su un triplice ordine di ragioni.

In primis, essa sarebbe stata coerente con il principio costituzionale consacrato nell’art. 97, comma 3 della Carta, secondo il quale “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.

Con il trascorrere degli anni la regola concorsuale ha visto ampliare notevolmente la propria latitudine applicativa, e ciò è da imputare in primo luogo alla Corte Costituzionale, che ha inaugurato un orientamento giurisprudenziale che interpreta le deroghe alla necessità della selezione pubblica alla stregua di eventualità eccezionali; queste ultime, oggigiorno, si ritengono ammissibili “solo ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico”[8] .

All’indirizzo ermeneutico in esame si è allineata anche la Corte di Cassazione, che ha contribuito ad estendere l’area di obbligatorietà del concorso pubblico attraverso l’abbandono di una nozione riduttiva del termine “assunzione”.

Specularmente all’affermarsi di tali coordinate ermeneutiche, si è assistito ad un ampliamento della sfera cognitiva del giudice amministrativo, da sempre ritenuto il soggetto preposto a sindacare la legittimità delle procedure competitive pubblicistiche[9]..

La crescente vis espansiva della regola concorsuale, peraltro, è emersa anche in relazione a vicende che hanno interessato le società in house.

La Corte Costituzionale, infatti, non si è limitata ad evidenziare la legittimità di una normativa regionale che imponga forme di selezione pubbliche per il personale degli enti in parola[10], ma si è anche spinta ad affermare che l’adozione di tale modalità di reclutamento costituisce attuazione del principio di cui all’art. 97 Cost.

In secondo luogo, la ricostruzione qui patrocinata risulta conforme con la natura giuridica attribuita alle società in house dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, prevalentemente orientata a declinare il fenomeno in parola in termini pubblicistici[11].

Il citato processo di allargamento dei confini del danno “erariale”, peraltro codificato dall’art. 12, comma 1, D.lgs n. 175/16, ha evidenziato che la società in house può al più costituire un patrimonio separato dell’ente proprietario, ma tale circostanza non è idonea a giustificare l’attribuzione ad essa di una autonoma soggettività giuridica.

L’assenza di un diaframma tra società e ente controllante, del resto, è sempre più valorizzata dall’elaborazione giurisprudenziale in tema di “controllo analogo”, che deve esternarsi sia in relazione all’organizzazione strutturale dell’ente che con riguardo all’attività svolta da quest’ultimo.

Tale forma di “eterodirezione”, infatti, viene  ritenuta sussistente solo laddove l’amministrazione di riferimento eserciti un’ingerenza talmente pregnante da far ritenere che la società formalmente costituita sia sostanzialmente priva di ogni autonomia decisionale, qualificandosi alla stregua di un mero braccio operativo del soggetto proprietario.

Sulla stessa lunghezza d’onda si è sintonizzato anche il legislatore, laddove, in occasione del riordino della materia dei contratti pubblici, ha definito  il controllo analogo “un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata” [12].

L’adozione di procedure selettive “classiche”, da ultimo, troverebbe giustificazione anche  in un argomento che travalica il profilo schiettamente giuridico, fondandosi su valutazioni di opportunità ed efficienza istituzionale

Lo strumento del pubblico concorso, infatti, rappresenta una diretta applicazione del principio costituzionale di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, e nasce con la precipua finalità di  selezionare le migliori professionalità disponibili sul mercato del lavoro. 

Se questo è l’obiettivo pratico, non può negarsi che il principio concorsuale costituisca anche un argine nei confronti delle indebite ingerenze politiche che possono alterare il corretto svolgimento di una competizione selettiva, così perseguendo il più nobile intento di rendere effettivo il principio costituzionale di uguaglianza scolpito nell’articolo 3 della Carta.

Ne deriva che l’art 97 Cost., oltre a salvaguardare l’interesse generale, delinea una procedura che consente ai cittadini di verificare che la pubblica amministrazione abbia implementato il proprio organico in maniera corretta e imparziale, in modo tale da costruire un “consenso sociale” intorno alle scelte effettuate.

Se è vero che la regola concorsuale si regge su tali finalità, non si rinvengono ragioni per sottrarre alla sua applicazione il fenomeno dell’in house providing, tenuto conto del fatto che le società in parola ormai operano numerose in settori cruciali della vita pubblica, rappresentando un interlocutore quotidiano per gli amministrati con i quali entrano in contatto.

In un contesto socio-culturale come quello odierno, nel quale è sempre crescente la sfiducia nei confronti dell’apparato pubblico e della classe politica, la logica consiglierebbe una maggiore apertura dell’amministrazione (intesa in senso funzionale) nei confronti dei consociati.

Tale opera di trasparenza, peraltro già intrapresa dalle recenti riforme che hanno notevolmente potenziato istituiti quali il diritto di accesso[13] e la partecipazione popolare, sembra subire una battuta d’arresto con la disciplina che il D.lgs. n. 175/16 riserva alle modalità di assunzione del personale delle società a partecipazione pubblica.

L’art. 19 del Testo unico fissa un regime normativo apparentemente contraddittorio, che racchiude in sé elementi di indubbia positività ma anche alcuni profili critici.

Tra i primi si annovera, come anticipato, la necessità che tutte le società a partecipazione pubblica conformino le proprie modalità di reclutamento del personale ai principi imposti dall’art. 35, comma 3, T.u.p.i., ossia ai canoni che regolano l’arruolamento dei dipendenti delle amministrazioni tradizionali.

Il rispetto dei parametri citati, ove riferito alle società non in house, pare costituire una garanzia sufficiente del buon andamento e dell’imparzialità della procedura selettiva; tale regime normativo, inoltre, non risulta troppo  distonico rispetto alla volontà di attribuire ex lege alle società in parola una natura giuridica privatistica, e trova un coerente precipitato logico nella devoluzione del relativo contenzioso alla giurisdizione ordinaria.

Analoghe considerazioni non possono svolgersi in relazione alle società in house, atteso che per queste ultime sembra necessario trasporre la disciplina plasmata dall’art. 63 T.u.p.i, da ritenersi applicabile a tutte le pubbliche amministrazioni a prescindere dall’inserimento nel catalogo esemplificativo di cui al citato art. 1, comma 2 del medesimo D.lgs. n. 165/01[14]

Tale decreto, in prima battuta, delinea un sistema generale in cui sono devolute alla giurisdizione ordinaria le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Il prosieguo della norma, tuttavia, individua una significativa eccezione in relazione alle procedure concorsuali[15] finalizzate all’assunzione dei dipendenti, che restano devolute alla giurisdizione amministrativa.

Ciò posto, nel corso del presente contributo si è tentato di dar conto delle molteplici ragioni che inducono ad assimilare gli enti in house alle pubbliche amministrazioni, così differenziandole dal prototipo della società per azioni a partecipazione pubblica totalitaria, le quali perseguono in relativa autonomia l’indirizzo sociale ritenuto più opportuno.  

Se la società in house rappresenta realmente una mera longa manus dell’amministrazione controllante, non sono immaginabili valide alternative alla piena sottoposizione al principio del concorso pubblico, nonché alla conseguente devoluzione alla giurisdizione amministrativa delle controversie relative alle procedure di reclutamento de quibus.

In conclusione, qualora il legislatore ritenga davvero impossibile distinguere già a monte gli enti in house dalle altre società partecipate a capitale pubblico, l’unica soluzione perseguibile pare quella di rimeditare la scelta operata in sede di redazione dell’art. 19, comma 4 del nuovo Testo unico, così da superare la giurisdizione ordinaria in relazione alle procedure di reclutamento indette da tutte le società a totale partecipazione pubblica.

 A suggerirlo è la logica, ma ad imporlo è la Costituzione.

 


[1]     Per inciso, si può osservare come la norma in parola ricalchi nella sostanza l’opzione già proposta nella relazione di accompagnamento al codice civile, laddove in riferimento alla scelta di dar vita a società a partecipazione pubblica si legge che  “in questi casi è lo Stato che si assoggetta alla legge della società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici. La disciplina comune della società per azioni deve pertanto applicarsi anche alle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici senza eccezioni, salvo che norme speciali non dispongano diversamente”. Peraltro, in tempi più recenti, una disposizione di analogo tenore era contenuta anche nell’art. 4, comma 13, D.l. n. 95/2012.

[2]     “Le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni si conformano ai seguenti principi:

a)       adeguata pubblicità della selezione e modalità di svolgimento che garantiscano l’imparzialità e assicurino economicità e celerità di espletamento, ricorrendo, ove è opportuno, all’ausilio di sistemi automatizzati, diretti anche a realizzare forme dì preselezione;

b)       adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire;

c)       rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori;

d)       decentramento delle procedure di reclutamento;

e)       composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali”.

[3]     In tal senso si è espresso il Tribunale di Monza, sez. lav., 4 agosto 2015, n. 420.

[4]     Ex multis, Cass. Civ., sez. lav., 26 settembre 2012, n. 16392.

[5]     Il riferimento è a Cass, Civ., sez. un., 23 dicembre 2011, n. 28329, intervenuta in occasione di una controversia relativa all’indizione di una procedura selettiva posta in essere dalla Rai s.p.a.

[6]                  Cfr. Corte di giustizia 18 novembre 1999 -C 107-98 

[7]     L’orientamento inaugurato da Cass. Civ., sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283 ha trovato conferme nelle pronunce nn. 5491, 7177 e 16622 del 2014.

[8]     Corte Costituzionale, 18 febbraio 2011, n. 52.

[9]     In tal senso si sono espresse anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, laddove hanno affermato che è ormai consolidato l’orientamento secondo cui la giurisdizione del giudice amministrativo non solo sussiste per le controversie relative a concorsi aperti a candidati, ma si estende ai concorsi per soli candidati interni indetti per il passaggio da un’area funzionale ad un’altra”  Cfr. Cass. Civ. sez. un., 9 febbraio 2009, n. 3055.

[10]              Corte costituzionale, 1 febbraio 2006, n. 29

[11]    La tendenza di cui si dà atto, invero, pare trovare una battuta d’arresto nella recente ordinanza n. 24591, resa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in data 1 dicembre 2016. In tale occasione la Corte, devolvendo alla giurisdizione ordinaria la competenza a decidere le controversie concernenti la nomina o la revoca degli amministratori e dei sindaci delle c.d. società in house, valorizza espressamente i profili privatistici del paradigma organizzativo in parola, escludendo che “le regole proprie del diritto societario siano fuori gioco”. La conclusione cui perviene l’autorevole Collegio, se da un lato esalta le affinità sussistenti tra ente in house e società di diritto comune, non pare tuttavia idonea a scolorire i profili pubblicistici che connotano l’istituto de quo.

       La Suprema Corte, infatti, non rinnega la ricostruzione che qualifica le società in house  alla stregua di  articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano, ma specifica che tale inquadramento non può assumere portata generale. I profili pubblicistici del fenomeno, pertanto, sono destinati a prevalere solo in determinati ambiti in cui il regime dell’in house providing si fonde con il tradizionale paradigma amministrativo, sicchè differenziarne la disciplina di riferimento sarebbe privo di giustificazione. Ciò posto, la pronuncia in commento riconosce la perdurante validità dell’orientamento che  devolve  alla giurisdizione contabile le controversie inerenti al danno “erariale” arrecato dall’amministratore dell’ente controllato al patrimonio del socio pubblico, affermando che “il rapporto che lega gli organi di una società in house all’ente pubblico da cui la società promana è, infatti, fin troppo simile a quello che intercorre tra la medesima amministrazione ed i propri dipendenti”.

      Dal tenore di tale argomentazione, dunque, si evince che il massimo profilo pubblicistico del paradigma in house è proprio quello che attiene all’inquadramento del personale operante all’interno della società.  La pronuncia in esame pertanto, lungi dallo sbarrare la strada alla applicazione della regola posta dall’art. 97 Cost., sembra implicitamente suggerire l’estensione dell’obbligatorietà del concorso pubblico anche in relazione alle procedure di reclutamento indette dalle società in house. 

[12]    La definizione si rinviene nell’art. 5, comma 2, D.lgs n. 50/16. Il decreto legislativo, attuativo delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE, ha per la prima codificato in modo esplicito gli elementi costitutivi dell‘in house providing, sottraendo la fattispecie al monopolio dell’elaborazione pretoria. 

[13]    Si fa riferimento, in particolare, all’istituto dell’accesso civico, introdotto dall’art. 5, D.lgs., n. 33/2013 e implementato dal recentissimo D.lgs., 97/2016. L’accesso di nuovo conio si propone di essere uno strumento privilegiato per implementare il livello di trasparenza dell’operato della pubblica amministrazione, inserito nell’ordinamento allo “scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”

[14]    Ai sensi della citata norma: “Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti i del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CONI”.

[15]    Sulla nozione di concorso e le relative conseguenze sul riparto di giurisdizione, Cfr. Tar Lazio, Roma, n. 10976/08: “La nozione di ‘concorso’ viene intesa, in altri    termini, come procedura caratterizzata dalla valutazione dei candidati e dalla compilazione di una graduatoria finale, e, pertanto, non rientrano tra le procedure concorsuali, ovviamente le assunzioni che non si basino su una selezione, ma piuttosto su prove di idoneità”.

Jose Criscuolo

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