Il concetto di casualità in dottrina e in giurisprudenza

Redazione 07/12/00
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Di Beatrice Rossi

Il rapporto di causalità è enunciato dal legislatore all’articolo 40 c.p. come nesso di dipendenza dell’evento di danno o di pericolo dall’azione o dall’omissione del reo. La condotta, il nesso causale e l’evento sono gli elementi fondamentali del reato commissivo di evento e rientrano nella sfera oggettiva, cioè tra gli aspetti esterni del fatto criminoso. Descritto il concetto in esame come relazione tra la condotta e la sua conseguenza, si pone il problema di individuare quali fatti possono intendersi come ‘causa’.

La dottrina ha elaborato diverse teorie in proposito, offrendo differenti soluzioni interpretative. Esaminiamo le più importanti.

– Secondo la tradizionale teoria condizionalistica (o dell’equivalenza) deve intendersi per causa qualsiasi antecedente che ha prodotto un determinato evento. In altri termini, è causa ogni condizione necessaria, ossia ogni fatto la cui presenza è stata indispensabile per il verificarsi dell’evento. Per accertare l’esistenza del nesso condizionalistico si utilizza il procedimento di eliminazione mentale (la cosiddetta formula della condicio sine qua non): è causa ogni fatto che se eliminato, cioè non considerato, fa venire meno l’evento.

Tale teoria presenta diversi limiti: 1) comporta il regresso all’infinito nell’individuazione degli antecedenti causali logicamente inseribili tra le condizioni dell’evento (es. i genitori dell’omicida); 2) non spiega i casi poco lineari, nel cui processo causale intervengono ulteriori fattori, come nelle ipotesi di causalità alternativa ipotetica (es. l’incendio della casa di A non avviene per la dinamite posizionata a questo scopo, ma per le fiamme propagatesi da un podere vicino) e di causalità addizionale (es. l’avvelenamento di A ad opera di B e C), nonché quelle in cui sopravviene un causa che da sola è sufficiente a determinare l’evento (es. A, ricoverato in ospedale per le lesioni provocate dall’automobilista B, muore per lo scoppio di un incendio).

– La teoria della causalità adeguata è stata elaborata alla fine del secolo scorso per attenuare la rigidità dell’applicazione della teoria condizionalistica alle ipotesi contraddistinte da un decorso causale atipico, cioè estraneo all’ordinaria prevedibilità, come i delitti aggravati dall’evento. La tesi in esame opera una selezione tra i molteplici antecedenti della teoria condizionalistica: è causa solo quella condizione adeguata a produrre l’evento secondo il criterio della probabilità, sulla base dell’id quod plerumque accidit. Più precisamente, per accertare l’esistenza del nesso causale, l’interprete deve formulare un giudizio probabilistico ex ante e in concreto: bisogna cioè rapportarsi alle conoscenze presenti al momento dell’azione ed acquisibili ex ante da un osservatore attento, aggiungendovi inoltre quelle più approfondite eventualmente possedute dall’agente in concreto. Dunque, lo spaccio di una dose non mortale di eroina, la lieve ferita, l’induzione a prendere l’aereo o a recarsi nel bosco durante un temporale non costituiscono azioni tipicamente idonee ad uccidere, sulla base di un giudizio di probabilità ordinario. Alla suddetta teoria si muovono le seguenti obiezioni: 1) il riferimento alla probabilità di verificazione dell’evento per spiegare il rapporto di causalità introduce un elemento – la probabilità, appunto – che è estraneo alla causazione dei fenomeni naturali. Inoltre si includono nell’ambito oggettivo della causalità considerazioni che invece appartengono al piano soggettivo dell’imputabilità, in quanto si ritiene antecedente causale qualcosa che è molto probabile che si verifichi. Dunque è prevedibile che tenendo una certa condotta, si verificherà quel determinato evento. In questo modo, si finisce per imputare solo quegli eventi padroneggiabili da un punto di vista soggettivo (realizzando in questo modo una trasposizione dell’elemento psicologico in quello oggettivo) e riducendo il campo della responsabilità.

– Per la tesi della causalità umana (formulata da Antolisei), gli eventi che rientrano nella sfera di controllo dell’individuo sono considerati conseguenze della sua condotta. In altri termini, i risultati che l’uomo può dominare sono causati dall’uomo stesso. Pertanto solo i fatti eccezionali, intesi come quelli che hanno una probabilità minima di verificarsi, sfuggono alla signoria dell’uomo. In realtà la tesi, pur tentando di differenziarsi da quella della causalità adeguata insistendo sulla differenza tra fatto atipico e fatto eccezionale, non riesce a proporsi come concezione autonoma poiché anche in questo caso c’è una contaminazione inopportuna tra piani oggettivo e soggettivo che genera confusione tra rapporto di causalità e imputazione psicologica. E inoltre, i casi indicati per esemplificare l’intervento di un fattore eccezionale sono spiegabili anche in base alla tesi della causalità adeguata.

– La dottrina più recente (Stella, Fiandaca-Musco) ha rimodernato la teoria condizionalistica attraverso i seguenti correttivi: 1) la valutazione dei fattori dolo e colpa delimitano l’ambito di rilevanza dei possibili antecedenti del risultato lesivo, sanando in questo modo l’obiezione del regresso all’infinito; 2) la considerazione dell’evento concreto, cioè verificatosi con queste modalità e in questo momento (non dell’evento astratto) smonta l’obiezione relativa alla causalità alternativa ipotetica, mentre la valutazione della lesività del singolo fattore causale considerato vanifica la critica riguardante la causalità alternativa addizionale; 3) il metodo generalizzante di spiegazione causale, caratterizzato da leggi generali che individuano rapporti di successione regolare tra azione criminosa ed evento, considerati come accadimenti ripetibili (cioè non unici) ha risolto il principale problema della teoria condizionalistica, relativo alla conoscenza in anticipo dei rapporti di derivazione tra determinati antecedenti e conseguenti. In altri termini, l’accadimento particolare va spiegato in base ad una legge generale di copertura, ossia ad una legge scientifica, che in alcuni casi è universale (in quanto ad un evento si accompagna sempre un altro evento), in altri (i più frequenti) non può che essere statistica (ad un certo evento si accompagna un altro evento in un’elevata percentuale di casi. L’evento cioè è solo probabile, sia pure in misura notevole). Ciò in quanto è praticamente impossibile rinvenire tante leggi universali quante sono le condizioni implicate nella produzione dell’evento. Dunque, l’accertamento del nesso causale da parte del giudice comporta che egli ricorra (nella maggior parte dei casi) a leggi statistiche e quindi avrà carattere probabilistico. Pertanto, nelle ipotesi in cui non si possiedono conoscenze soddisfacenti sul meccanismo di produzione del fenomeno, come nei casi del talidomide (il preparato farmaceutico ingerito negli anni sessanta da donne durante la gravidanza: quasi tutte partorirono figli con malformazioni congenite) e delle macchie blu (la comparsa di manifestazioni cutanee patologiche negli abitanti di una zona in cui era collocata una fabbrica di alluminio che emetteva fumi all’esterno), la spiegazione statistica può condurre all’individuazione di un nesso causale penalmente rilevante, sulla base degli elementi di prova raccolti.

Concludendo, può dirsi che la teoria condizionalistica tradizionale per essere sostenibile deve essere corretta dal meccanismo della sussunzione del fatto sotto leggi scientifiche.

La giurisprudenza tradizionale si riallaccia alla teoria della causalità umana, mentre gli orientamenti più moderni aderiscono alla teoria condizionalistica rivisitata sotto il modello delle leggi scientifiche.

LE CONCAUSE

La produzione dell’evento, come si è visto attraverso le teorie esaminate, non sempre è connessa in modo lineare alla condotta dell’ agente. Può accadere cioè che insieme al fatto dell’individuo intervengano nel meccanismo di causazione dell’evento altri fattori causali preesistenti, concomitanti o successivi. Sono le concause, previste dall’articolo 41 c.p. e legate indissolubilmente alla tematica del rapporto di causalità. Esaminare infatti l’art. 40 c.p. prescindendo dal concorso di cause equivale ad un’analisi incompleta del nesso condizionalistico, avulsa dalle modalità di svolgimento delle vicende concrete. Anche l’art.41 c.p. però (alla stregua dell’art. 40 c.p.) non è oggetto di una facile interpretazione, in particolare rispetto al 2° comma, in quanto gli altri due commi non sono problematici.

Il 1° comma afferma l’inidoneità delle concause preesistenti, simultanee o sopravvenute – differenza questa, relativa al momento di incidenza sull’iter criminis – a interrompere il nesso di causalità tra la condotta e l’evento. I sostenitori della tesi condizionalistica hanno letto in questa norma il riconoscimento legislativo della propria teoria: ogni causa è posta su un livello di equivalenza ai fini della produzione dell’evento.

Il 3° comma ha una mera funzione chiarificatrice: estendere le disposizioni dei due commi precedenti alle ipotesi in cui la concausa è umana, e in particolare consiste nel comportamento illecito di un terzo. Quindi è semplicemente una concausa tipizzata dal legislatore.

Dunque, dalla lettura dell’articolo 41 c.p. si evince che i fattori causali concorrenti, siano essi preesistenti, simultanei o sopravvenuti, non escludono il rapporto di causalità tra condotta ed evento, anche se sono indipendenti dalla condotta (1 comma). Invece i fattori causali sopravvenuti escludono il rapporto di causalità se da soli sono stati sufficienti a determinare l’evento (2 comma).

L’interpretazione dell’espressione ‘fattori causali sopravvenuti da soli sufficienti a determinare l’evento’ è da sempre dibattuta in dottrina. I fautori della causalità adeguata hanno ritenuto di ravvisare in questo comma la legittimazione normativa della propria tesi: le cause sopravvenute sarebbero quelle configurabili come un’evoluzione atipica degli avvenimenti. In realtà sembra che l’interpretazione dell’articolo 41 nell’ottica delle due tesi suddette sembra mossa principalmente dalla preoccupazione di un riscontro normativo per le posizioni dottrinali, forse colpevoli di un’eccessiva astrazione, lontane come sono dalla possibilità di spiegare in maniera esauriente i fenomeni concreti della realtà.

La teoria condizionalistica e la tesi della causalità, infatti, non sono in grado di risolvere i casi in cui l’azione criminosa è idonea ex ante a produrre l’evento, ma questo si verifica per il sopraggiungere di circostanze imprevedibili: Si consideri il caso di A che con dolo ferisce gravemente B, il quale è ricoverato in ospedale: qui, quasi completamente ristabilitosi, B muore a causa di un incendio scoppiato nel reparto in cui è ricoverato. Se la grave ferita, considerata ex ante appare idonea a provocare l’evento morte, è però indubbio che sarebbe sproporzionato accollare al feritore la morte dovuta all’incendio. La tesi condizionalistica, infatti, fallisce nei casi in cui sopravviene una causa successiva idonea da sola a produrre l’evento: qui attivando il procedimento di eliminazione mentale e dunque supponendo che non sia intervenuta la causa successiva, l’evento resterebbe collegato alla prima causa, con la conseguenza paradossale di considerare proprio la causa reale dell’evento come priva di efficacia. Ugualmente non è risolutiva la tesi della causalità adeguata, perché la teoria non chiarisce quale sia l’evento da considerare: evento morte in astratto oppure in concreto,quale conseguenza dell’incendio in ospedale.

Un’autorevole dottrina, sostenuta da numerosi autori (tra i quali Antolisei, Petrocelli, Pagliaro) ha tentato di spiegare il fenomeno delle concause in modo diverso. Ha pertanto utilizzato i concetti di serie causali autonome e serie causali apparentemente indipendenti per spiegare l’esistenza di fattori causali che hanno un’incidenza diversa sullo sviluppo del fatto criminoso.

Le serie causali autonome sono fattori causali sopravvenuti rispetto all’iter criminis, che però si compiono prima del verificarsi dell’evento e sono estranee alla condotta criminosa, che è declassata a semplice occasione dell’evento stesso (es. A spara a B che muore perché colpito improvvisamente da un fulmine, mentre la pallottola di A lo colpisce quando è già morto). Tali serie causali escluderebbero il rapporto di causalità ex art. 40 1 comma c.p., in quanto deriverebbe dalla semplice applicazione del principio condizionalistico (di cui il 1 comma dell’art: 41 c.p. è una ripetizione, forse ritenuta opportuna dal legislatore, considerata la complessità dell’argomento). Dunque le cause suddette non rientrerebbero nell’art. 41 2° comma, in quanto l’evento a cui fare riferimento (su quest’aspetto la dottrina è concorde) è quello che si è verificato in concreto, hinc et nunc. Allora nel suo campo di applicazione rientrano le serie causali apparentemente indipendenti, ossia quei fattori causali sopravvenuti che producono l’evento per forza propria, anche se presuppongono un iter criminos precedentemente posto in essere, ossia una serie causale antecedente (es. A muore colpito da un fulmine dopo che B, avendolo ferito, lo ha lasciato in un bosco ed è sopraggiunto un temporale). A tal proposito si ritiene che il fattore sopravvenuto, la serie causale apparentememte autonoma debba essere imprevedibile per interrompere il nesso di causalità: è il caso del fulmine che ha provocato la morte di B. Invece, nel caso in cui A ferisce B che muore perché lasciato su una strada trafficata, dove sopraggiunge un’auto che lo investe, non si verifica una vera e propria interruzione del nesso di causalità, anche se l’evento morte è direttamente collegato ad una causa sopravvenuta (l’auto che sopraggiunge). In effetti qui la concausa opera non indipendentemente, ma congiuntamente alla precedente azione di A. Un ulteriore problema posto dal’art. 41 2° comma è l’opportunità o meno di applicarlo anche alle concause preesistenti o simultanee. In dottrina (Antolisei) si è sostenuta la tesi affermativa con motivazioni di giustizia sostanziale. Altra teoria (Mantovani) invece afferma che il concetto di causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento corrisponde a quello di caso fortuito o forza maggiore di cui all’art. 45 c.p., ritenuti cause di esclusione del rapporto di causalità.

IPOTESI SPECIFICHE DI CONCAUSE

Esaminiamo ora alcune ipotesi particolari di concause, costituite dai fatti illeciti colposi di un terzo, con riferimento alle complicazioni medico chirurgiche e agli incidenti stradali.

Il fatto illecito del terzo (art.41 3° comma) rappresenta una delle concause che rilevano ex art. 41, 1° e 2° comma. Se è sopravvenuto, può interrompere il rapporto di causalità tra la condotta precedente e l’evento a seconda che sia inquadrabile o meno tra le serie causali apparentemente indipendenti e, in quest’ultimo caso, se sia imprevedibile o no.

Occorre innanzitutto chiarire che se il terzo agisce con dolo, il rapporto di causalità si interrompe sicuramente; se invece agisce con colpa, si pone il problema se l’interruzione del nesso causale si verifica o meno. In concreto:

1) ad un fatto penalmente rilevante (di solito le lesioni) segue la morte, per complicazioni medico chirurgiche o per diagnosi sbagliata. Chi è responsabile della morte, il soggetto che ha causato le lesioni, oppure il medico che ha sbagliato l’intervento chirurgico o la diagnosi?

Chiariamo che il medico risponde sicuramente di omicidio colposo se la sua condotta è inficiata da colpa grave (ipotesi di colpa professionale). Però l’errore terapeutico inserito su una precedente serie causale non costituisce un fattore determinante ed esclusivo dell’evento, in quanto si tratta di un avvenimento non eccezionale né autonomo rispetto alla situazione già esistente e dunque non interrompe il nesso tra condotta ed evento. Perché si verifichi l’interruzione del rapporto di causalità occorre una condotta medica deviata da dolo o da colpa grave: in questi casi il comportamento del sanitario irrompe in maniera decisiva nell’iter criminis, per cui assume una funzione determinante dell’evento.

2) la vittima di un incidente stradale è condotta in ospedale per essere adeguatamente curata, ma muore in seguito allo scoppio di un incendio nel reparto in cui è ricoverato. Tale evento spezza il nesso di causalità in quanto non può considerarsi parte di una successione ordinaria di accadimenti.

Passiamo ora alla rilevanza delle concause nel campo degli infortuni stradali.

Le norme sulla circolazione sono cautelari: mirano ad evitare il rischio del verificarsi di eventi lesivi. Pertanto gli eventuali altrui comportamenti di violazione colposa non rilevano a beneficio dell’autore della condotta iniziale. In altri termini, in presenza di una condotta criminosa colposa, il fattore sopravvenuto consistente nell’illecito colposo del terzo non interrompe il rapporto di causalità. Quest’ultimo viene meno solo in presenza di serie causali autonome, dunque in base all’art. 40 c. p. secondo l’orientamento generale della giurisprudenza (qualche posizione giurisprudenziale invece spiega l’interruzione del nesso in base all’intervento del caso fortuito, ex art.45). Consideriamo i casi:

3)una persona è ferita a causa della scorretta condotta automobilistica dell’agente e giace a terra. Sulla strada priva di illuminazione, di notevole traffico e a scorrimento veloce sopraggiunge un’altra auto che investe e uccide la persona che giace sulla strada.

La seconda auto non può considerarsi fattore sopravvenuto che interrompe il nesso di causalità perché era prevedibile che scaturisse quell’evento dalla serie causale determinata dall’agente. Si configura un concorso di colpa tra i due investitori.

4)l’incidente stradale si verifica con il concorso causale del comportamento della vittima, un bambino, quindi una persona incapace per minore età (il bambino che improvvisamente attraversa di corsa la strada). Qui si configura un concorso di colpa da parte di chi è tenuto ad esercitare la sorveglianza sul minore con l’investitore, ma non si verifica un interruzione del nesso condizionalistico.

Esaminiamo infine due ipotesi in cui la concausa è costituita da un fatto non dipendente da un altro soggetto:

5) l’incidente avviene per un improvviso malore del conducente. Il malore non interrompe il nesso di causalità se è in collegamento con una particolare malattia di cui soffre il soggetto, oppure con una particolare condizione in cui egli si è posto prima di guidare (es. abuso di alcolici). Se invece l’autore dell’incidente era in buona salute quando si è messo alla guida e non soffriva di alcuna patologia, l’improvviso malore, del tutto imprevedibile, si configura come un causa interruttiva del nesso di causalità tra la condotta e l’evento.

6)L’incidente è causato dalla strada ghiacciata. Se il soggetto si mette alla guida dell’automobile dopo che ha nevicato per l’intera giornata, con una temperatura molto rigida, di notte, senza montare le catene alle ruote, l’incidente sarà riconducibile alla sua condotta non diligente. Al contrario, l’improvviso peggioramento delle condizioni meteorologiche interrompe il nesso condizionalistico tra la condotta del guidatore e il sinistro, se nulla poteva far prevedere l’evoluzione negativa della situazione climatica (es. la neve d’estate in un luogo non montuoso).

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