Commento a sent. n. 17985 del 23.7.2008 del tribunale di Napoli sez. lavoro: condotta antisindacale del datore di lavoro e legittimazione attiva delle organizzazioni sindacali aziendali

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La sentenza del Tribunale di Napoli sez. lavoro (riportata in calce per esteso) affronta due questioni particolarmente discusse e di forte attualità: la condotta antisindacale del datore di lavoro e la legittimazione attiva delle organizzazioni sindacali aziendali nel procedimento di repressione di tale condotta, previsto e disciplinato dall’art. 28 della Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori).
Il primo aspetto attiene alla antisindacalità della condotta, non risultando ancora sopito il dibattito sull’elemento soggettivo di tale condotta. Dopo alterne pronunce e fortune delle due teorie elaborate in merito – quella soggettiva che richiede la presenza di un elemento intenzionale nella condotta del datore di lavoro e quella oggettiva che ritiene superfluo l’aspetto psicologico per concentrare l’attenzione sull’elemento materiale della condotta, delineando così anche alcuni tipici comportamenti antisindacali – sembrava che la Cassazione con una pronuncia a Sezioni Unite, la 5297/1997, avesse posto fine al dibattito, definitivamente pronunciandosi a favore di una tutela “oggettiva” della libertà sindacale.
In questa sentenza la Cassazione ripercorre gli orientamenti formatisi al riguardo; il primo (cfr. Cass. 23 marzo 1994 n. 2808; Cass. 16 luglio 1992 n. 8610; Cass. 3 Giugno 1987 n. 4871), ritiene configurarsi un comportamento datoriale antisindacale allorquando vi sia una obiettiva idoneità di tale comportamento ad impedire o limitare la libertà sindacale; in tale situazione non si renderebbe necessaria una ulteriore indagine sull’intenzione del datore di intraprendere effettivamente una tale lesione.
Un secondo orientamento (cfr. Cass. 19 luglio 1995 n. 7833, Cass. 12 agosto 1993 n. 8673), del tutto opposto, sostiene invece che il comportamento datoriale sia suscettibile di sanzione solo quando diretto intenzionalmente a determinare la lesione degli interessi tutelati, talchè l’eventuale danno riflesso che il sindacato potrebbe subire come conseguenza della condotta in questione non assumerebbe una propria rilevanza giuridica.
È, infine, registrabile anche un terzo orientamento intermedio, secondo il quale se il comportamento possa essere qualificato come civilmente illecito per contrarietà a norma imperativa, non si rende necessaria un’indagine sull’elemento intenzionale; qualora, invece, il comportamento scrutinato, pur presentandosi come obiettivamente lecito, presenti i caratteri dell’abuso del diritto, l’accertamento dell’elemento psicologico diviene indispensabile (così Cass. 13 gennaio 1996 n.232, Cass. 8 settembre 1995 n. 9501).
In tale quadro di riferimento si inserisce la pronuncia della Cass. Sez. unite che sottopone a revisione critica tutte le prospettate argomentazioni, dichiarando l’assoluta irrilevanza del requisito della “intenzionalità” riferibile al datore di lavoro.
La Corte, in particolare, fa leva su tre argomenti di fondo. Innanzitutto, dal punto di vista dell’interpretazione letterale – secondo la quale l’espressione di cui all’art. 28 “ comportamenti diretti ad impedire o limitare” implicherebbe necessariamente la sussistenza di una finalizzazione cosciente e volontaria della condotta datoriale – si ritiene che tale espressione non voglia attribuire ad ogni costo una qualche rilevanza all’elemento soggettivo, limitandosi a disporre che la condotta debba “obiettivamente” essere diretta agli scopi previsti dal legislatore.
Criticando, poi, l’argomento teleologico ( per il quale la norma tenderebbe ad assicurare il corretto svolgimento delle relazioni industriali aziendali, attraverso la severa penalizzazione dei comportamenti lesivi del datore) la Corte afferma che una tutela di tipo esclusivamente “oggettivo” meglio risponde allo scopo della tutela delle libertà sindacale, poiché essa opera anche a prescindere dalla sussistenza del requisito interno, talvolta difficilmente accertabile, dell’intenzionalità.
Rispetto alle argomentazioni di carattere sistematico (secondo le quali le forme di responsabilità oggettiva sarebbero soggette a progressiva erosione in linea con l’espansione del principio secondo cui la responsabilità da fatto illecito si configura sempre come dolosa o colposa)infine, la Corte sostiene che la responsabilità oggettiva costituisce un istituto in espansione, ed anzi proprio un principio cardine dell’attività d’impresa strettamente connesso al cd. rischio d’impresa.
In realtà l’articolato discorso della Corte   opera un distinguo a seconda che il giudizio verta su comportamenti violativi di norme imperative di legge ovvero di norme pattizie. In quest’ultimo caso, la difficoltà di discernere tra situazioni “fisiologiche”di conflitto e situazioni di palese antisindacalità potrebbe indurre a rivalutare l’elemento soggettivo, al fine di evitare uno sbilanciamento (attraverso il rigido controllo giudiziale) nel già delicato equilibrio delle relazioni sindacali.
Da tale punto di vista, in dottrina ed in giurisprudenza si ritiene che l’elemento intenzionale debba essere valutato con estremo rigore quando ci si trovi di fronte a situazioni di palese violazione di norme derivanti dalla parte normativa del contratto collettivo. È pur vero che tali ragioni inducono ad una valorizzazione dell’intenzionalità del comportamento datoriale. Tuttavia, l’interpretazione dell’art. 28 *******. non può essere estrapolata dal contesto dell’intera legge 300/70. Questa legge, innanzitutto, è stata pensata per tutelare interessi di rilevanza costituzionale che non possono essere protetti sub condicione della sussistenza di un palese intento del datore di ledere tali interessi. Cioè appare difficile credere che il legislatore abbia voluto prevedere uno strumento di tutela speciale per tali diritti eppure lo abbia subordinato all’esistenza di una conclamata intenzionalità di lesione, rimettendo ai normali strumenti di tutela giurisdizionale (o allo speciale rimedio dell’art. 700 c.p.c.) le diverse ipotesi – magari anche gravi – di lesione di tali diritti solo perché non accompagnate da uno specifico intento antisindacale – peraltro di difficile valutazione.
Inoltre, appare necessario considerare lo scopo dell’eventuale provvedimento emesso dal giudice a seguito del ricorso proposto dall’organizzazione sindacale: che non è semplicemente e tanto quello di irrogare una sanzione al datore di lavoro, ma principalmente quello di rimuovere un ostacolo all’esercizio libero ed incondizionato dei diritti sindacali e ripristinare la situazione di fatto preesistente al comportamento datoriale. Questa sembrerebbe, a giudizio della Corte, la ragione più valida per negare la necessità di un’indagine del giudice sulla specifica intenzione lesiva dei diritti sindacali protetti dall’art. 28.
In senso conforme, dell’irrilevanza dell’indagine psicologica, si è espressa la dottrina ( Gallo, Condotta antisindacale: intenzionalità, attualità e legittimazione ad agire DPL, 1993, 1181; *******, **************, tosi, ****, Diritto del lavoro . il diritto sindacale, Torino, 1994, 219).
Sebbene questa pronuncia a sezioni unite sembrava aver messo fine ad un annoso dibattito, tuttavia i dubbi al riguardo sono riaffiorati allorquando dal piano teorico si è dovuti passare al piano pratico, e la stessa sentenza della Cassazione, nel caso portato alla sua attenzione, ha fatto un’applicazione del principio di diritto da essa stessa affermato, suscettibile di diversa interpretazione. Ferma restando l’intenzione del legislatore di anticipare la soglia di tutela dei diritti sindacali dalla lesione effettiva al mero pericolo di lesione, di talchè è sufficiente la mera direzione lesiva della condotta a giustificare l’intervento repressivo della autorità giudiziaria, tuttavia è risultato chiaro che l’intenzionalità della condotta, pur non necessaria bastando l’obiettiva portata lesiva del comportamento, parimenti è non sufficiente poichè il mero intento antisindacale non è di per sé idoneo a rendere sanzionabili condotte che, oggettivamente, non determinano alcuna lesione dei beni sindacali.
Il discrimen della condotta antisindacale, allora, va colto attraverso il riconoscimento dell’operatività, nei casi portati all’attenzione della Corte, dell’esimente dell’esercizio del diritto: la condotta del datore, ancorché obiettivamente antisindacale, non si presta ad essere sanzionata ogniqualvolta sia espressione dell’esercizio di diritti o facoltà legalmente o contrattualmente previste, e ciò perché un evidente principio di coerenza e di non contraddizione dell’ordinamento, esclude che il medesimo comportamento sia da un lato autorizzato e dall’altro sanzionato. In questo senso, il licenziamento di lavoratori sindacalmente attivi è pienamente legittimo laddove sorretto ex art. 2103 c.c. da valide ragioni tecnico – produttive o laddove ci sia giustificato motivo di recesso.
Tuttavia, l’inutilizzabilità dell’esimente del diritto nelle ipotesi in cui la condotta del datore non sia espressione di poteri legalmente o contrattualmente previsti e la connessa avvertita esigenza di evitare che ogni inadempimento del datore possa qualificarsi come antisindacale ove limiti l’attività del sindacato, ha favorito il riemergere di tendenze soggettivistiche in giurisprudenza volte a riaffermare la necessità dell’intenzionalità della condotta del datore. È evidente, tuttavia, come la preoccupazione della giurisprudenza di temperare i rigori della teoria oggettiva – attraverso la reintroduzione della valutazione dell’intenzionalità quantomeno per le condotte lesive indirettamente dei beni sindacali  – appare forse eccessiva , in quanto un’attenta lettura della sentenza emessa dalla Corte di Cassazione a Sez. Unite 5295/1997 consente di individuare, all’interno del medesimo orientamento oggettivistico, i criteri per un’ulteriore selezione dei comportamenti sanzionabili, da individuarsi non già in ogni inadempimento del datore ma esclusivamente nelle condotte che in relazione alle “circostanze concrete” siano “obiettivamente dirette a creare una disparità di trattamento” tra aderenti al sindacato ed altri lavoratori, e dunque, indirettamente, volte a colpire il sindacato.
Dunque, la distanza tra le contrapposte opzioni interpretative finisce, a ben vedere, con l’essere meno ampia di quanto appaia: la prova che la condotta sia intenzionalmente antisindacale, volta a limitare la libertà e l’attività sindacale, altro non è che la prova che la condotta, oggettivamente considerata e valutata in relazione alle circostanze concrete, si configura come tale per la mancanza di ragioni idonee a giustificare in via autonoma il comportamento discriminatorio tenuto dal datore nei confronti dell’organizzazione sindacale.
L’altro aspetto rilevante che emerge dalla sentenza in rassegna, è quello relativo alla legittimazione attiva delle parti sindacali nel ricorso all’art. 28 *******. che involge la più ampia tematica della rappresentatività sindacale.
La sentenza affronta la questione concludendo che, secondo giurisprudenza univoca, le associazioni locali di un’organizzazione sindacale[1] avente carattere nazionale, non sono organi di quest’ultima bensì sue articolazioni periferiche dotate di autonoma legittimazione negoziale e processuale. In effetti è questa la conclusione raggiunta anche dalla dottrina[2] la quale, tuttavia, nel ripercorrere la storia della formazione e del riconoscimento delle Rsu, ricorda che l’art. 28 dello Statuto dei lavoratori attribuisce la legittimazione allo speciale ricorso disciplinato dalla norma, agli “organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse” e nel novero di tali organismi non possono farsi rientrare le Rsu.
Non si può negare che la RSU sia un organismo locale visto che esiste ed opera in una singola unità produttiva ed è legittimato a decidere e contrattare come un soggetto giuridico. Gli manca, però, quel collegamento con un’associazione sindacale nazionale che consenta di considerarlo come ad essa appartenente; non basta, cioè, la duplice circostanza che le Rsu siano costituite ad iniziativa delle organizzazioni sindacali e che tali organizzazioni concorrano a comporre le Rsu per un terzo dei posti assegnati. Assorbente, infatti, risulta la considerazione per la quale dai protocolli da cui originano le Rsu non si può ricavare la ricorrenza di un legame tale da concludere che tali rappresentanze costituiscono un’articolazione periferica del sindacato. Dagli accordi già menzionati, infatti, non emerge alcun obbligo ( ovviamente di tipo politico) per il membro della Rsu di comportarsi in maniera coerente con i principi del sindacato nazionale, né esiste alcuna forma di controllo e di coazione nei confronti del rappresentante dissenziente[3]. Inoltre, la natura unitaria della Rsu e quindi il fatto che concorre a formarla come soggetto unico una pluralità di organizzazioni sindacali, rende impossibile il suo riferimento ad una data organizzazione, ad una data centrale sindacale, visto che in essa confluiscono sia sindacati confederali che sindacati autonomi; dunque, è impossibile considerarla espressione periferica di una determinata associazione sindacale nazionale.
Deve, allora, concludersi che le Rsu non sono legittimate a proporre l’azione ex art. 28 *******.
Come detto, la giurisprudenza si è orientata a ritenere fondata la legittimazione attiva delle organizzazioni sindacali locali, tuttavia si è molto discusso sui requisiti che fondano tale legittimazione e che vanno ritrovati nei soggetti attivi perché possano fare ricorso all’art. 28.
Con una pronuncia del marzo 2006 n. 6429, la Cassazione afferma a chiare lettere un principio che già nella precedente sentenza del gennaio 2006 n. 1307 aveva espresso: il sindacato nazionale il cui organismo locale è legittimato a proporre ricorso ai sensi dell’art. 28 l. 300/1970 è quello che non solo ha effettiva diffusione su tutto il territorio nazionale ma, altresì, in concreto svolge un’attività sindacale (pure per quanto concerne il momento contrattuale) a livello nazionale; e conclude con l’escludere da tale legittimazione, le rappresentanza aziendali costituite ai sensi dell’art. 19 della L. 300/70.
La Cassazione chiarisce che la “diffusione nazionale” è cosa ben diversa dall’effettiva azione sindacale su base nazionale. Infatti, il carattere nazionale dell’associazione è un dato attinente non solo alla mera dimensione territoriale, ma anche all’attività in concreto svolta dalla stessa che deve aver un orizzonte nazionale e non già locale. Gli interessi che la procedura dell’art. 28 intende proteggere trascendono sia quelli soggettivi dei singoli lavoratori, sia quelli localistici, ma sono quelli di un’associazione sindacale che si propone di operare ed opera a livello nazionale per tutelare gli interessi di una o più categorie di lavoratori a quel livello.
Quindi, un mero collegamento federativo pur a livello di plurimi sindacati locali, in ipotesi anche di categorie diverse, se vale a conferire al sindacato così federato dimensione territoriale nazionale, non implica di per sé anche un’azione sindacale connotata dal carattere nazionale. Ove l’attività sindacale sia in concreto solo quella delle associazioni sindacali locali, scollegata da qualsivoglia politica sindacale nazionale perché inesistente, viene meno il carattere nazionale di siffatto sindacato federato ancorché le locali associazioni sindacali, legate dal vincolo federativo, siano plurime e diffuse su tutto il territorio nazionale.
Se così fosse, è evidente, la mera creazione di un coordinamento nazionale costituirebbe un passe – partout per l’accesso alla legittimazione al ricorso all’art. 28 a qualsivoglia associazione sindacale meramente locale e verrebbe frustrata l’esigenza di fondo che giustifica, anche a livello costituzionale, la limitazione della legittimazione. Sicuramente il legislatore dello statuto dei lavoratori non pensava ad una costellazione di plurime associazioni sindacali locali raccolte sotto un’etichetta unitaria, bensì ad un sindacato autenticamente nazionale che, avendo una visione ampia degli interessi dei lavoratori associati, ne perseguisse la tutela non già in un’area limitata, ma in tutto il paese e quindi, co9n un’attività sindacale estrinsecatesi anche su tutto il territorio nazionale e non già solo localmente.
A questo riguardo, la giurisprudenza sottolinea che il metro utile a misurare la rappresentatività sindacale in azienda, è dato dall’acquisto dei diritti sindacali, che sono condizionati unicamente da un dato empirico: quello dell’ “effettività dell’azione sindacale” che si concretizza nella stipula di contratti collettivi di lavoro[4]. Si chiarifica, allora, che l’espressione “nazionale” caratterizzante l’azione sindacale deve identificarsi nella stipula di un contratto collettivo di quel livello, non quindi come contratto aziendale.
Tale carattere è quello che rileva ai fini della legittimazione per il ricorso all’art. 28, non già il mero dato formale delle risultanze dello statuto dell’associazione, che di per sé è rappresentativo solo di un prefigurato obiettivo o di un’autoqualificazione del sindacato: lo statuto, infatti, diviene utile per individuare gli organismi locali del sindacato una volta che il suo carattere nazionale sia stato coonestato da effettivi riscontri in concreto[5].
Ancora più chiaramente si esprime, nella stessa direzione Cassazione 11 gennaio 2008 n. 520, che lega la rappresentatività sindacale al criterio dell’effettività dell’azione sindacale intesa come riconoscimento della capacità del sindacato di imporsi come controparte contrattuale nella regolamentazione dei rapporti lavorativi. Ne consegue che il riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale deriva più che dalla diffusione delle articolazioni territoriali, dalla capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi, anche gestionali, che trovino applicazione in tutto il territorio nazionale e attestino un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio- economico dell’intero paese. Questo, secondo la Cassazione, è il vero ed unico elemento condizionante per il ricorso alla procedura dell’art. 28 S.L.  L’espresso riconoscimento del criterio dell’effettività dell’azione sindacale attesta una sottolineatura del valore, da parte del legislatore, della capacità negoziale del sindacato e della sua rilevanza in termini di regolamentazione dei rapporti lavorativi. Ne discende, allora, che al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale richiesto per legittimare, a fronte di condotte lesive dei diritti sindacali, l’azione per repressione della condotta antisindacale ex art. 28 Stat. Lav., assume rilievo più che la diffusione della articolazione territoriale delle strutture dell’associazione, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale e che non possono che essere espressione di una forza e capacità negoziale comprovanti un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio-economico dell’intero paese.
Dunque, si evince come  la Cassazione nelle diverse pronunce, abbia inteso agganciare la rappresentatività del sindacato ad un dato reale ed effettivo quale la forza contrattuale dello stesso, per riconoscere a tali associazioni la prerogativa di fare ricorso ad una strumento, quale quello contemplato nell’art. 28 ******, particolarmente incisivo ed efficace nel garantire la tutela dei diritti sindacali.
Una pronuncia, quella del tribunale di Napoli, che ha affrontato argomenti di stringente attualità, in un momento storico in cui la questione dei soggetti legittimati ad agire ex art. 28 è diventata oggetto di controversie a seguito dell’acuirsi della crisi di rappresentatività dei sindacati tradizionali e della frantumazione della rappresentatività sindacale.
 
 
            TRIBUNALE di NAPOLI
Sez. lavoro
Sent. n. 17985 del 23.7.2008
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
Il Giudice dr. ******************, presso il Tribunale di Napoli, in funzione di Giudice del Lavoro, ha pronunciato la seguente sentenza nell’udienza di discussione del_  nella causa iscritta nel ruolo generale degli affari contenziosi della sezione lavoro, al n._
TRA
Federazione Italiana Lavoratori Trasporti – FILT CGIL, elettivamente domiciliata in Napoli, alla Piazza E. De Filippo n. 8, presso lo studio dell’avv. **************, dalla quale è rappresentata e difesa giusta procura a margine del ricorso ex art. 28 L. 300/1970        
                                                                                                          RICORRENTE OPPONENTE
contro
ANAS S.p.A., elettivamente domiciliata in Napoli, al Centro Direzionale Isola E/4, presso lo studio degli avv.ti ******************* e *******************, dai quali è, anche disgiuntamente, rappresentata e difesa giusta procura in calce al ricorso introduttivo della fase interdittale ex art. 28 L. 300/1970 
                                                                                                          CONVENUTO OPPOSTO
OGGETTO: art. 28 L. 300/1970 fase di opposizione
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato in data 21 gennaio 2008, la Federazione Italiana Lavoratori Trasporti – FILT CGIL, affermava:
che era presente nel compartimento campano della società ANAS S.p.A. con oltre cinquanta iscritti e che la titolarità a trattare era stata rimessa per scelta sindacale direttamente alla Segreteria Regionale della categoria; che ANAS S.p.A., dopo la pubblicazione di un avviso di selezione datato 31.10.2007, aveva proceduto ad assumere 50 lavoratori per il servizio sgombraneve con contratto a termine, senza adempiere all’obbligo di informazione sancito dal contratto collettivo applicabile;
che, di conseguenza, non era stata messa in grado di contrattare con ANAS S.p.A. la percentuale di assunzioni a termine, in violazione dell’art. 13 del CCNL di settore;
che tale condotta era stata reiterata dalla società convenuta, che aveva avviato una nuova selezione di personale con qualifica di cantonieri;
che tale comportamento aveva leso la propria libertà sindacale, configurandosi quindi come condotta antisindacale.
Ciò premesso, aveva chiesto al Tribunale:
di accertare e dichiarare la condotta antisindacale di ANAS S.p.A. ai sensi dell’art. 28 L. 300/70;
per l’effetto, di ordinare ad ANAS S.p.A. di desistere immediatamente e per il futuro da simili condotte, consentendo così la verifica sulla regolarità delle procedure di selezione del personale da assumere a tempo determinato in riferimento alle percentuali di utilizzazione per unità produttiva previste dalla contrattazione collettiva al citato art. 13; il tutto con vittoria di spese, diritti ed onorari.
Si era costituita ANAS S.p.A., rilevando l’inammissibilità, improponibilità e improcedibilità del ricorso, nonché, in via gradata, l’infondatezza nel merito.
Il Tribunale respingeva il ricorso, rilevando che il citato art. 13 non stabilisse il dovere del datore di lavoro di procedere a contrattazione con le OO.SS. precedentemente all’assunzione a termine, prescrivendo semplicemente che, ove fossero intervenute assunzioni a termine, si contrattasse la percentuale di utilizzo dei lavoratori a termine.
Con ricorso depositato in data 10.04.2008, la Federazione Italiana Lavoratori Trasporti – FILT CGIL ha chiesto al Tribunale, in riforma del decreto opposto, di accertare e dichiarare l’antisindacalità della condotta posta in essere da ANAS S.p.A., e per l’effetto condannare quest’ultima a porre fine ai comportamenti lesivi della libertà sindacale e, in particolare, nel rispetto del citato art. 13 del CCNL, contrattare le percentuali di utilizzo del personale da assumere con contratto a termine; il tutto con vittoria di spese, diritti ed onorari di entrambe le fasi di giudizio.
Si è costituita ANAS S.p.A., rilevando l’inammissibilità, improponibilità e improcedibilità del ricorso, nonché, in via gradata, l’infondatezza nel merito.
All’odierna udienza la causa è stata decisa come da separato dispositivo, di cui è stata data pubblica lettura.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, senza pregio è il rilievo dell’ANAS S.p.A. secondo cui è carente la legittimazione attiva di parte ricorrente difettando di un’autonoma soggettività giuridica.
Gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali, cui l’art. 28 l. 20 maggio 1970 n. 300 attribuisce la legittimazione attiva per il procedimento di repressione della condotta antisindacale, sono costituiti dalle articolazioni più periferiche delle strutture sindacali nazionali e cioè, di norma, dai sindacati provinciali di categoria dotati di una soggettività distinta, in quanto autonomi titolari di interessi collettivi quanto meno ai fini del perseguimento degli stessi, mentre devono ritenersi privi di legittimazione gli organismi locali o nazionali delle confederazioni sindacali che non sono incardinati in un sindacato di categoria nazionale (…) (Cassazione civile , sez. lav., 17 giugno 1998, n. 6058).                                                
Orbene, come giustamente affermato nel decreto opposto, che FILT – CGIL – Area Metropolitana di Napoli sia l’organismo locale del sindacato nazionale lo si deduce dagli artt. 10-11 dello statuto della FILT – CGIL, che prevede l’area Metropolitana come livello locale dell’associazione FILT – CGIL, associazione il cui rilievo nazionale non è contestato dalle parti.
Ne consegue che infondato è anche l’argomento addotto dall’ANAS S.p.A., secondo cui la FILT – CGIL – Area Metropolitana di Napoli – non avrebbe legittimazione processuale in difetto di esplicita delega da parte dell’associazione nazionale di cui è articolazione, cioè la FILT – CGIL.
Sul quest’ultimo punto, la giurisprudenza è univoca. Le associazioni locali di un’associazione avente carattere nazionale non sono organi di quest’ultima bensì sue articolazioni periferiche dotate di autonoma legittimazione negoziale e processuale (…) (Cass. 14.03.2000, n. 2952).
Analogo indirizzo è stato espresso in giurisprudenza con specifico riguardo alla legittimazione processuale dei sindacati periferici. Negli organismi sindacali, che nell’attuale sistema legislativo sono associazioni non riconosciute, la qualifica di segretario o direttore si identifica con quella di preposto ad organi centrali o a sezioni periferiche; pertanto, ai sensi dell’art. 36 comma 2 c.c., al segretario dell’organismo periferico di un’associazione a carattere nazionale spettano la rappresentanza processuale e la legittimazione ad agire in giudizio (T.A.R. Lombardia Milano, 08 maggio 1986, n. 194).
Identica soluzione è accolta in giurisprudenza con riguardo alla legittimazione processuale del sindacato periferico nel procedimento di cui all’art. 28 della L. 300/1970: (…) è ammissibile il ricorso giurisdizionale proposto nella particolare materia dai segretari provinciali dei sindacati di categoria, anziché dai segretari nazionali (T.A.R. Lombardia Milano, 04 novembre 1981, n. 1209).
Né fondatamente l’ANAS S.p.A. deduce che il ricorso è inammissibile, perchè non sarebbe possibile accertare i poteri rappresentativi di ****************, non essendo stato prodotto lo Statuto della FILT – CGIL – Area Metropolitana di Napoli – che lo individui come legale rappresentante. Gli accordi con i quali, ai sensi dell’art. 36 comma 2 c.c. le associazioni conferiscono a determinate persone fisiche i poteri rappresentativi, non devono risultare da atto scritto ben potendo essere desunti da altri elementi che abbiano caratteristiche di univocità (Pretura Roma, 03 aprile 1985). Analogo orientamento è espresso in giurisprudenza con riferimento alle associazioni sindacali. Le organizzazioni sindacali costituiscono, nell’attuale struttura dell’ordinamento, delle associazioni non riconosciute, con la conseguenza che l’accertamento della loro esistenza comporta non già l’indagine su documenti che abbiano efficacia costitutiva della personalità, bensì la rilevazione in fatto della concreta attività che viene svolta nel campo di interessi che è proprio di questo tipo di associazioni. Parimenti, l’accertamento dei poteri rappresentativi delle persone fisiche che agiscono per le stesse organizzazioni sono da collegarsi agli accordi degli associati, che non debbono necessariamente risultare da atto scritto (forma non prevista dalla legge), e possono quindi essere desunti, in via presuntiva, da elementi che abbiano i dovuti caratteri di univocità (Cass. 3-11-76, n. 3993).
Senza fondamento è il rilievo dell’ANAS S.p.A., secondo cui difetta il requisito dell’attualità della condotta antisindacale dato che le lamentate procedure di assunzione a termine si sono ormai concluse, ed i contratti così stipulati sono cessati per scadenza del termine prima della proposizione della domanda da parte dell’O.S. Requisito essenziale dell’azione di repressione della condotta antisindacale, di cui all’art. 28 della legge n. 300 del 1970, è l’attualità di tale condotta o il perdurare dei suoi effetti. Tale requisito – sulla base dell’interpretazione letterale e sistematica della suddetta norma, anche alla luce di quanto previsto in ordine alla legittimazione attiva in capo agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali, riconosciuta nell’interesse al ripristino nell’azienda dei diritti sindacali, nella completa autonomia rispetto alle azioni proponibili dai singoli lavoratori, e restando invece irrilevante la tendenza del procedimento all’emanazione di pronunce costitutive o di mero accertamento – deve intendersi nel senso che, da un lato, il mero ritardo della proposizione del ricorso non ne determina di per sè l’inammissibilità in presenza della permanenza degli effetti lesivi, e, dall’altro, il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può precludere l’ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente ed idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell’attività sindacale (Cassazione civile , sez. lav., 06 giugno 2005, n. 11741).
Quindi, non è di ostacolo alla configurazione del requisito dell’attualità il fatto che il singolo episodio sia esaurito, se esso è sintomo di una prassi datoriale, tale da ingenerare nelle relazioni sindacali una situazione di incertezza o un effetto intimidatorio, in grado comunque di ledere la libertà sindacale. È comunque possibile l’azione giudiziaria avverso una condotta già conclusa, qualora le circostanze inducano a ritenere che la medesima condotta verrà probabilmente reiterata (Tribunale Sassari, 15 febbraio 2002): il dato che il medesimo episodio si sia ripetuto in occasione di una successiva selezione di personale conclusasi con otto nuove assunzioni in data 12.1.2008, lascia ragionevolmente presumere che il datore di lavoro possa ripetere in futuro il comportamento de quo.
Sempre tra le questioni preliminari, va disattesa l’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dall’ANAS S.p.A., per il fatto che l’art. 3 punto 5) del CCNL di settore preveda procedure di conciliazione prima di poter adire l’autorità giudiziaria. E’ utile richiamare tale disposizione:
“Art. 3 punto 5) Procedure e sedi di composizione delle controversie
Le parti, riaffermando il comune convincimento che un positivo andamento delle relazioni sindacali vada correlato anche alla predisposizione di idonei strumenti, che privilegino ed antepongano i momenti di esame e verifica delle varie problematiche alle fasi di conflittualità e che, comunque, l’interpretazione delle norme del presente contratto devono essere rimesse, per la loro definizione, alle parti stipulanti, convengono di attenersi alle procedure di seguito indicate per la composizione delle controversie sull’applicazione del Contratto.
(omissis)
Fino al completo esaurimento, in tutte le loro fasi, delle procedure sopra individuate, i lavoratori interessati non potranno  adire l’Autorità Giudiziaria sulle materie oggetto della controversia, né si potrà fare ricorso ad agitazioni del personale di qualsiasi tipo né, da parte aziendale, verrà data attuazione a provvedimenti concernenti le questioni oggetto della controversia”. Come correttamente affermato nel decreto impugnato, tali procedure concernono il singolo lavoratore, e non le OO.SS., le quali quindi possono adire l’autorità giudiziaria senza tali preventive procedure conciliative.
Nel merito, l’opponente ha censurato il decreto impugnato nel punto in cui questo statuisce che le percentuali di contratti di lavoro a termine, oggetto di contrattazione collettiva a livello di unità produttiva, ai sensi dell’art. 13 del CCNL di settore, concernono non le assunzioni, ma l’utilizzo dei lavoratori a termine già assunti.
E’ utile richiamare il menzionato art. 13:
“Art. 13 – Assunzione a termine
1.   (omissis)
2. La quota di personale da assumere con contratto a tempo determinato non potrà superare mediamente nell’anno:
a) il 25% del personale di esercizio
b) il 25% del restante personale impiegatizio.
A livello di unità produttiva verranno contrattate le percentuali di utilizzo del personale riferite all’unità stessa.
3. (omissis)”.
Orbene, dall’interpretazione letterale della norma contrattuale si ricava chiaramente che oggetto della contrattazione collettiva a livello di unità produttiva può concernere esclusivamente la percentuale di utilizzo dei lavoratori a termine già assunti e non, al contrario, le percentuali di personale da assumere con contratto a tempo determinato.
Tale interpretazione, data dal giudice di prime cure, è coerente con la disciplina delle relazioni sindacali che, alla lettera B) n. 3 dell’art.3, non include tra le materie che tassativamente devono costituire oggetto di contrattazione tra unità produttiva e RSU/RSA e le OO.SS. territoriali quella relativa all’assunzione di personale a tempo determinato, bensì solo quella relativa alla mobilità del personale in servizio.
Né pregio ha il rilievo dell’opponente, secondo cui il decreto impugnato è incoerente nel punto in cui afferma che sussiste l’attualità della condotta, e poi nega che costituisca condotta antisindacale quella posta in essere da Anas S.p.A. Infatti, non vi è incoerenza logica nello statuire che la condotta datoriale consistente nel non contrattare le percentuali di utilizzo dei lavoratori a termine persiste ancora al momento della domanda, e poi negare che tale condotta sia qualificabile come antisindacale.
L’impugnazione va quindi respinta, ed il decreto impugnato va in tutto confermato.
Data la complessità della controversia, sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite.
P.Q.M.
Ogni diversa istanza e deduzione disattese:
rigetta l’opposizione;
compensa le spese.
 
 
 
La presente sentenza è stata redatta con la collaborazione del Magistrato Ordinario in Tirocinio dott. Fabio Di Lorenzo.
 


[1] Discorso in parte diverso per le Rsu che, in sostituzione delle RSA, costituiscono le aggregazioni locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, secondo l’accordo interconfederale 20 dicembre 1993 per l’industria e l’accordo 20 aprile 1994 per il pubblico impiego.
[2] Con attenta trattazione, su Giur. Merito 2000, 6, 1166
[3]********o, Rsu e legittimazione attiva ex art. 28 s.l., Riv. Crit. ********., 1997,763.
[4] Cassazione n. 2855/2005.
[5] Cassazione n. 10616/2004.

De Piano Emanuela

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