Commento a Cassazione VI sez. penale n. 379 depositata il 19 marzo 09

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 La attuale dizione dell’art. 73 co. 1 bis del dpr 309/90, che rende concreta e, dunque, recepisce <<la modificazione introdotta dall’art. 4-bis, secondo cui la detenzione di sostanze stupefacenti costituisce reato se le sostanze detenute “appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale”, al di là dell’infelice verbo utilizzato, non contiene elementi di sostanziale novità rispetto alla disciplina previgente>>.
E’ questo il testuale passaggio decisivo della sentenza n. 379 del 12 Febbraio 2009, pronunziata dalla Sesta Sezione della Suprema Corte, in riferimento alla sempre più tribolata e tormentata vicenda concernente la annosa ricerca di un corretto inquadramento – nel contesto del sistema sanzionatorio del T.U.stup. – nonché di una coerente interpretazione giuridica della condotta di detenzione di sostanze stupefacenti.
Non è il caso di ripercorrere il travaglio giurisprudenziale e dottrinale che affligge quello che, a parere di chi scrive è uno dei punti nodali (se non – addirittura – quello prodromico e pregiudiziale) del sistema normativo-repressivo, che dovrebbe governare la circolazione delle sostanze psicotrope nell’alveo sociale.
Giovi, però, osservare, proprio per la assoluta decisività che la soluzione del tema, riguardante la punibilità o meno della detenzione, riveste (non tanto e non solo in senso stretto, ma soprattutto in relazione alla complessa e successiva struttura di interventi che la questione-droga impone) che appare necessario ed ineludibile operare con chiarezza ed al riparo da false ipocrisie.
Il legislatore (e comunque chiunque si parroci al problema) deve, infatti, nella specifica ipotesi in esame, avere il coraggio di separare il giudizio etico, da quello giuridico.
Va, quindi, riconosciuta, in modo netto ed onesto, l’esistenza ontologica di questa discrasia, di questo irrimediabile dualismo, che appare – sin dalla notte dei tempi – assolutamente irreversibile -.
La norma giuridica è, infatti, destinata – per definizione – ad operare, sovente, su di un piano del tutto distinto e per nulla necessariamente coincidente con quelle valutazioni culturali, morali o religiose, fatte proprie dalla società destinataria del precetto legislativo al momento della promulgazione di quest’ultimo.
Aderire a questa posizione, riconoscendo, quindi una patente autonomia del “sentire giuridico” e della sua concreta attuazione, rispetto a valori educativi e di puro eticità non significa affatto – come taluno erroneamente afferma – propendere per una legalizzazione dell’uso delle droghe, o, tesi ancora più ignobile, mostrarsi sensibili propugnatori di una indiscriminata diffusione delle stesse.
Non vi è chi non veda l’ovvietà della osservazione (morale) per la quale l’uso di stupefacenti non costituisce, né potrà mai costituire, un modello comportamentale accettabile, sul piano sociale e, in pari tempo, come tale descritta condotta concretizzi un grave pericolo alla salute, valore costituzionale, inteso sia in senso diffuso (quindi pubblico), sia in senso individuale (quindi privato).
Va, però, detto che esiste- naturalisticamente e costituzionalmente – il diritto  del singolo vivente, ove capace di intendere e volere, cioè consapevole, ad autodeterminarsi in maniera libera.
Tale facoltà appare intangibile, sino a che il consequenziale ed eventuale comportamento, pur non assurgendo a livello di reato, non configuri attentato all’ordine pubblico o lesione del buon costume.
Su tale premessa, quindi, si deve concludere che sino a che non dovesse venire promulgata una nuova e diversa legge in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, la quale – giungendo al censurabile estremo dell’ablazione piena e totale del principio di autodeterminazione del singolo e, quindi, del sacrificio della libertà di ciascuno di noi – sancisse la punibilità e la rilevanza penale anche della detenzione di qualsiasi quantitativo di sostanza stupefacente, qualificando tale condotta come configurante un vero e proprio reato, il compito del giudice non potrà che indirizzarsi nel senso di una corretta esegesi della attuale e vigente fonte normativa.
Il giudice, quindi, in ambito di decriptazione della portata della condotta detentiva, dovrà utilizzare necessariamente  per la propria delibazione – secondo l’orientamento che si va ad esplicitare – l’insieme dei parametri oggettivi e soggettivi che l’art. 73 co. 1 bis offre e descrive – seppure in via generale -.
In quest’ottica, quindi, il principio ratificato dalla Corte – nella fattispecie di cui alla sentenza – si pone, dunque, quale indubbio ed autorevole ausilio, nel senso testè prospettato, perché integra un serio tentativo di porre chiarezza sullo specifico argomento.
Essa, infatti,, al contempo, aiuta a desumere – senza falsi moralismi – che l’odierno sistema normativo sancisce alcuni precisi principi.
– Riconosce al singolo soggetto la facoltà di detenere sostanza stupefacente.
Va detto, onde evitare equivoci e malevoli interpretazioni, che non si tratta, nel specifico, di un vero e proprio diritto soggettivo (né una ipotizzazione del genere sarebbe ammissibile o tollerabile), quanto piuttosto della individuazione di una situazione di fatto, in presenza della quale il soggetto risulta insuscettibile di sottoposizione a sanzione.
Affrontando questioni analoghe, la giurisprudenza di legittimità si è interrogata sulla circostanza che, in siffatta ipotesi, si sia in presenza di vera e propria causa di giustificazione, assimilabile a quelle previste dall’art. 50 e segg. c.p. .
Una lontana pronunzia (Cass. Sez. VI, 28-01-1994, Zaccardo, Mass. Pen. Cass., 1994, fasc.6, 92) ebbe ad affermare che “per effetto del d.P.R. 5 giugno 1993 n. 171, emanato in dipendenza del referendum abrogativo in materia di stupefacenti, l’acquisto, l’importazione e la detenzione di sostanze stupefacenti per esclusivo uso personale non costituiscono più attività illecite, ma si configurano, piuttosto che come cause di giustificazione, come condotte alternative e distinte dalle corrispondenze azioni illecite poste in essere per uso diverso da quello personale”, facendo, in tal modo, rientrare l’uso personale nel più ampio istituto di diritto sostanziale. 
Pare di potere ragionevolmente sostenere che risulta di tutta evidenza e non pare, certo, revocabile in dubbio la circostanza che il meccanismo scriminante – nel caso di specie – operi in modo e su presupposti assai simili a quello ravvisabile nei casi delle cause di giustificazione, proprio perché, a seguito di un giudizio di fatto, può essere escluso che nello specifico, sia ravvisabile in relazione all’elemento materiale (la condotta), un profilo di antigiuridicità.
Va, infatti, osservato che la condotta materiale (detenzione) in sé, infatti, ove valutata in astratto, appare- in origine – illecita, ma che siffatta situazione, penalmente rilevante, viene rimossa (e modificata) dalla verificazione di una condizione espressamente sancita ex lege.
– Pur escludendo, in nuce, la sussistenza di una presunzione pro reo – iuris tantum – di non illiceità della condotta detentiva, non si può, peraltro, affermare che sussista un’inversione del relativo onus probandi, nel senso che permane a carico dell’accusa il dovere di dimostrare il profilo di illegalità della condotta valutata in concreto, operando – se del caso – a contrario rispetto la tesi difensiva.
Questo assunto è stato confermato proprio dalla Sez. VI, che, con la sentenza del 2-04-2008, n. 27330 (rv. 240526) , ha stabilito che “…in materia di stupefacenti, il superamento dei limiti quantitativi massimi previsti dall’art. 73, comma primo – bis, lett. a), del d.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, non vale ad invertire l’onere della prova a carico dell’imputato, o ad introdurre una sorta di presunzione, sia pure non assoluta, in ordine alla destinazione della droga detenuta ad un uso non personale, imponendo al giudice soltanto un dovere accentuato di motivazione nella valutazione del parametro della "quantità", nel caso in cui essa risulti normalmente non confacente ad un uso esclusivamente personale sulla base di nozioni tossicologiche ed empiriche di cui sono espressione le tabelle ministeriali”.
– Non modifica sostanzialmente il regime che si è venuto a creare sotto la spinta dell’esito del referendum del 1993, il quale abrogò l’allora esistente parametro normativo esimente di natura quantitativa, costituito dalla dose media giornaliera (d.m.g.).
Si ebbe, così, la patente conseguenza di lasciare alla discrezionalità del giudice la valutazione dell’offensività penale della condotta singolarmente esaminata.
– Determina la equiparazione sostanziale, ai fini valutativi in questione, fra tutti i canoni indicati nel novellato art. 73 co. 1 bis dpr 309/90, i quali dispiegano, quindi, concreta precisa valenza probatoria e, dunque, bene possono elidere mere presunzioni di responsabilità.
Va detto, pertanto, in proposito, che il profilo meramente ponderale viene, così, a perdere definitivamente quel carattere di assoluta prevalenza – quasi un prius intangibile – che svuotava di pregnanza, finendo per annullarle sul piano del significato concreto, quelle altre e diverse previsioni che, invece, il legislatore aveva – seppure incidentalmente – previsto, all’ipotetico fine di temperare sul piano soggettivo l’asprezza di fondo della legge.
 
 
In concreto, dunque, la Corte – una volta investita delle questione in forza del ricorso proposto dall’accusa pubblica – attribuisce carattere di decisività ad un paradigma (quello concernente le circostanze di rinvenimento dello stupefacente e di confezionamento dello stesso) che viene ritenuto, quindi, come di pari dignità rispetto a quello meramente ponderale.
Tale archetipo viene, così, ad assumere una rilevanza talmente notevole, da potere, di per sé, superare quella concezione che – strictu sensu – vedeva nella “non esiguità della quantità di droga detenuta dalla persona”, il criterio di giudizio tranquillizzante per addivenire all’affermazione od all’esclusione della responsabilità del singolo.
Così opinando, si addiviene, pertanto,  ad una effettiva valorizzazione di fattori (intimamente connessi alla condotta), i quali presentano un carattere spiccatamente soggettivo e che, parimenti, permettono di fotografare l’azione – oggetto di indagine – nel suo complesso, quanto meno con un’ottica di sufficiente attendibilità.
Altro profilo della pronunzia, che appare meritevole di considerazione riguarda la ritenuta plausibilità della tesi della “precostituzione di una scorta per uso personale da parte dell’imputato, assuntore di droghe leggere”.
 La costituzione di un quantitativo destinato a soddisfare nel tempo i bisogni del soggetto – la cd. scorta – è sempre stata, infatti, sino ad oggi, considerata azione affatto sussumibile nel novero dell’impunità.
Sia sufficiente rammentare la notissima pronunzia delle Sez. Unite, 21-06-2000, n. 17 Primavera, in Cass. Pen., 2001, 69, la quale fra i tanti aspetti affrontati, giungeva a sancire che “ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità costituita dall’uso personale di stupefacenti, non si può prescindere da una valutazione della quantità di sostanza detenuta, in considerazione del rischio di cessione a terzi correlato all’accumulo di essa
Con tale affermazione, quindi, il Supremo Collegio conferiva indubbia e decisiva prevalenza al pericolo (anche solo) teorico di degradazione della condotta detentiva in cessione pur se episodica, ed anche in assenza di elementi che – in concreto – potessero dimostrare, giustificare o riscontrare tale timore.
Ora, invece, la Corte formula un giudizio certamente più adeguato alle realtà che di volta in volta si formano oggetto di valutazione.
 
 
Carlo Alberto Zaina
 
 
Qui il testo della sentenza Cassazione VI sez. penale n. 379 depositata il 19 marzo 09

Zaina Carlo Alberto

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