Cessione di quote sociali: l’onere della prova dell’intento elusivo incombe sull’Ufficio

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La facoltà, attribuita all’Amministrazione Finanziaria, di riqualificare gli atti ai fini dell’imposta di registro non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile.

 

Decisione: Sentenza n. 2054/2017 Cassazione Civile – Sezione V

Classificazione: Commerciale, Societario, Tributario

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Il caso.

Alcune società che avevano posto in essere operazioni di conferimento di rami d’azienda aventi ad oggetto attività in energia eolica, e successive cessioni di partecipazioni sociali, impugnavano gli avvisi di liquidazione con i quali l’Agenzia delle Entrate riqualificava gli atti di conferimento in natura quali cessioni di rami d’azienda, da assoggettare a imposta di registro.

In particolare, l’amministrazione finanziaria aveva notificato gli avvisi oltre il termine triennale di decadenza di cui all’art. 76 del D.P.R. 131/1986, sostenendo che, stante la riconduzione a unità delle operazioni poste in essere in modo frazionato dalle società, il termine di decadenza decorresse dalla data di cessione delle quote e non da quella dei conferimenti.

La Commissione Tributaria di Primo grado accoglieva i ricorsi (per intervenuta decadenza dal termine per emettere gli avvisi di liquidazione), e annullava gli avvisi di liquidazione; l’Ufficio si appellava, ma anche il giudice di appello confermava la decisione di primo grado.

L’Agenzia delle Entrate ricorre in cassazione con un unico motivo relativo alla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 76 del D.P.R. citato, ma la Corte rigetta il ricorso.

 

La decisione.

Il Collegio dapprima riassume quanto esposto dall’Ufficio ricorrente; in estrema sintesi: «Si sostiene che, nel caso sottoposto all’esame del Collegio, le società costituite, all’interno del patrimonio delle quali sono transitati i rami d’azienda mediante il conferimento degli stessi, hanno costituito un soggetto interposto, eliminato il quale, si sono prodotti gli effetti giuridici effettivamente voluti dalle parti, ed identificati proprio nell’effetto giuridico finale costituito dall’acquisizione dei rami d’azienda nel patrimonio delle società che, da ultimo, ne sono venute in proprietà».

Le società controricorrenti, nell’esporre le loro tesi, ricordano che «I due fenomeni, cessione del ramo d’azienda e cessione delle quote di partecipazione, hanno regimi tributari profondamente diversi: le cessioni di partecipazione non sono soggette ad imposta di registro, quelle di azienda sì; ai fini delle imposte sul reddito, le cessioni di partecipazioni godono, a certe condizioni, del regime “participation exception”, le cessioni di azienda no».

La Suprema Corte precisa subito che il ricorso va rigettato, e ricorda che «In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva (Cass. S.U. 2008/30005; Cass. 2011/11236;2011/21782)».

Ma precisa: «Tuttavia il divieto di comportamenti abusivi non vale ove quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta. La prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (Cass. 2010/20029),In particolare il carattere abusivo di un’operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali (Cass.2011/1372)».

Passando a esaminare il caso concreto, osserva che «ritornando alle considerazioni in diritto svolte in premessa, a riqualificazione della “cessione di quote”, negozio posto in essere dalle parti, in “cessione di ramo di azienda” troverebbe il suo fondamento, per l’Amministrazione finanziaria ricorrente, nell’art. 20 del T.U.R. (rubricato “interpretazione degli atti”) ai sensi del quale, l’imposta ,prescindendo dal titolo o dalla forma apparente i deve essere applicata tenendo conto dell’intrinseca natura e degli effetti giuridici degli atti».

E ricorda che «Questa ricostruzione è respinta dalla dottrina sulla scorta dell’osservazione che nell’imposta di registro esistono diverse disposizioni in virtù delle quali l’atto è tassato senza tener conto della sua qualificazione ed efficacia giuridica cosicché solo per queste ipotesi sussiste il diritto di disconoscere il comportamento delle parti diretto a conseguire, oltre che gli effetti tipici dell’atto, anche effetti diversi e indiretti».

Ma il Collegio ritiene che la portata, quale norma antielusiva, dell’art. 20 del D.P.R. 131/1986 sia ininfluente nel caso concreto: «Nessuna elusione sembra infatti caratterizzare quest’ultimo che appare piuttosto come la un’ipotesi di legittima scelta di un tipo negoziale invece di un altro».

E precisa i limiti della facoltà di riqualificazione degli atti da parte dell’Ufficio: «se è indubitabile che l’Amministrazione in forza di tale disposizione non è tenuta ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella “forma apparente” al quale lo stesso art. 20 fa riferimento, è indubbio che in tale attività riqualificatoria essa non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici. In altre parole non deve ricercare un presunto effetto economico dell’atto tanto più se e quando – come nel caso di specie – lo stesso è il medesimo per due negozi tipici diversi per gli effetti giuridici che si vogliono realizzare. Infatti, ancorché da un punto di vista economico si possa ipotizzare che la situazione di chi ceda l’azienda sia la medesima di chi cede l’intera partecipazione, posto che in entrambi i casi si “monetizza” il complesso di beni aziendali, si deve riconoscere che dal punto di vista giuridico le situazioni sono assolutamente diverse».

Infine, si pronuncia sulla questione richiamandosi al correttooperato della Commissione Tributaria Regionale, la quale ha «con motivazione non censurabile sia sul piano logico che giuridico, dato ampia contezza di come non si ravvisi il collegamento negoziale preordinato ad eludere la tassazione dell’imposta di registro, è precluso al Collegio ogni valutazione in merito».

Ne consegue, appunto, il rigetto del ricorso.

 

Osservazioni.

Nel caso deciso, la Cassazione ha confermato la decisione delle corti di merito fondata sulla eccezione di decadenza.

Ma ha chiarito che il potere di riqualificazione degli atti ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro “non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici”.

Come ha chiaramente affermato la Suprema Corte, l’Ufficio “non deve ricercare un presunto effetto economico dell’atto tanto più se e quando – come nel caso dispecie – lo stesso è il medesimo per due negozi tipici diversi per gli effetti giuridici che si vogliono realizzare”.

 

Giurisprudenza rilevante.

Cass. 30005/2008

Cass. 11236/2011

Cass. 20029/2010

Cass. 21782/2011

Cass. 23584/2012

Cass. 6835/2013

Cass. 17965/2013

Cass. 3481/2014

 

Disposizioni rilevanti.

DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 26 aprile 1986, n. 131

Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro.

Vigente al: 18-03-2017

Art. 20 – Interpretazione degli atti

1. L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici, degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente.

Sentenza collegata

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Graziotto Fulvio

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