Cenni sull’applicabilità alle pubbliche amministrazioni del principio di solidarietà previsto dall’art. 29, c. 2, della riforma Biagi

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Come noto, l’art. 29 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, fornisce la definizione del contratto d’appalto, stabilendo che tale negozio si distingue dalla somministrazione di lavoro per l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, requisito che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei dipendenti utilizzati nell’appalto, nonché dall’assunzione, da parte del predetto soggetto, del rischio di impresa.
Tale disposizione, che è stata oggetto di diversi interventi giurisprudenziali e dottrinali, ha introdotto nell’ordinamento l’appalto di lavoro[1], determinando una netta inversione di rotta rispetto al previgente sistema che ruotava intorno alla previsione contenuta nell’art. 1 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369.
In particolare, si rammenta che la citata norma vietava all’imprenditore, alle aziende di Stato ed agli enti pubblici, anche se gestiti in forma autonoma, di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante l’impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque fosse stata la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni facevano riferimento; inoltre, era prevista una presunzione assoluta, in base alla quale veniva a configurarsi l’ipotesi dell’appalto di lavoro[2] ogniqualvolta l’appaltatore avesse impiegato, per l’esecuzione delle opere o dei servizi, capitali, macchinari ed attrezzature fornite dal committente, anche nel caso in cui per la loro utilizzazione fosse stato a questi corrisposto un compenso.
Per quanto è stato osservato, al fine di garantire una maggior tutela nei confronti dei lavoratori che, sulla scorta delle ultime disposizioni, potrebbero essere utilizzati in contratti di appalto che hanno per oggetto la mera prestazione lavorativa da svolgere a favore di un soggetto terzo rispetto a quello che li ha alle proprie dipendenze, il legislatore ha introdotto al c. 2° dell’art. 29, il principio di solidarietà tra il committente imprenditore o datore di lavoro, l’appaltatore e gli eventuali subappaltatori, nella corresponsione dei trattamenti retributivi e dei contributi previdenziali dovuti, entro il limite massimo di due anni dalla cessazione dell’appalto.
Tuttavia, l’operatività soggettiva della norma su illustrata, secondo la dottrina prevalente, troverebbe un limite nella previsione contenuta nell’art. 1, c. 2, del medesimo decreto, il quale stabilisce che le norme riguardanti la riforma del mercato del lavoro non trovano applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale.
A parere di chi scrive, quest’ultima previsione dovrebbe essere interpretata alla luce dell’art. 6 della legge 14 febbraio 2003, n. 30, il quale esclude l’applicazione delle disposizioni contenute nella delega al governo in materia di occupazione e mercato del lavoro al personale delle pubbliche amministrazioni.
Ciò vuol dire che la formulazione poco felice utilizzata dal legislatore nella stesura dell’art. 1, c. 2, della riforma “Biagi” dovrebbe essere letta nel senso che le pubbliche amministrazioni non possano accedere alle forme contrattuali atipiche approntate dal decreto citato e, pertanto, che le relative regole non possano trovare applicazione ai rapporti tra queste e i loro dipendenti.
Tale interpretazione risulterebbe, peraltro, conforme ad alcune decisioni della recente giurisprudenza di merito, tra le quali occorre ricordare quella pronunciata dal Tribunale di Pavia il 29 aprile 2006, secondo cui “è applicabile anche agli appalti conferiti dalle pubbliche amministrazioni la norma di cui all’art. 29, c. 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, secondo la quale, salvo diverse previsioni dei C.C.N.L. stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, in caso di appalto di opere o di servizi, il committente è obbligato in solido con l’appaltatore, […], a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti.”[3]
Diversamente, si dovrebbe ritenere costituzionalmente illegittima l’esclusione delle pubbliche amministrazioni dal novero dei soggetti destinatari della norma in argomento, allorchè, come ricordato, non disposta dalla legge delega.
 
Ragioniere commercialista
Revisore Contabile


[1] Si veda T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 4 marzo 2008, n. 212, in Diritto dei Servizi Pubblici.it, 2008, secondo cui “gli elementi necessari perché vi sia appalto di lavoro ai sensi dell’art. 29, c. 1 del D.lgs. n. 276/2003 sono l’organizzazione dei mezzi e l’assunzione del rischio di impresa. L’organizzazione dei mezzi non coincide con il conferimento delle attrezzature destinate al servizio ma principalmente con l’assunzione e la direzione del personale impiegato […].”
[2] Si ricorda che la norma contenuta nell’art. 1 della legge n. 1369 del 1960 non era applicabile allo Stato e alle pubbliche amministrazioni. Al riguardo si vedano: Cons. Stato Sez. VI, 30 gennaio 2007, n. 354, in Pluris Utet-Cedam, 2007, secondo il quale “il disposto di cui all’art. 1 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369 pur applicandosi nei confronti della generalità degli Enti pubblici, si deve intendere riferito solamente alle attività che presentano i tipici contenuti sostanziali dell’esercizio d’impresa; ne consegue che esso non è invocabile nell’ipotesi in cui venga in considerazione l’esercizio di funzioni istituzionali, non potendo operare per le amministrazioni pubbliche non costituite in forma di azienda non esercitanti attività d’impresa e in, ogni caso, quando il soggetto interessato assuma di avere svolto l’attività lavorativa in favore di una amministrazione pubblica in correlazione ai propri fini istituzionali pubblicistici.”; Cons. Stato Sez. VI, 07 maggio 2003, n. 2389, in Foro Amm. CDS, 2003, 1663.
[3] In Riv. critica dir. lav., 2006, 539, con nota di Capurro.

Dott. Sperduti Massimo

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