Causa concreta, impossibilità della prestazione e contratti di viaggio vacanza

Longo Orazio 25/02/10
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Uno dei temi più dibattuti, nell’ambito del diritto contrattuale, è quello della causa, tradizionalmente definita come la ragione pratica del contratto, ovvero l’interesse che l’operazione contrattuale è diretta a soddisfare (Bianca, Diritto civile, Tomo III, Il contratto, 2000).

Già sotto la vigenza del codice civile del 1865 il problema della nozione e della natura della causa aveva sollevato non poche discussioni: nel codice previgente, invero, la causa veniva riferita, nel solco della codificazione napoleonica, all’obbligazione e non al contratto, in quanto quest’ultimo, nell’assetto del code civil, veniva inteso solo come fonte di rapporti obbligatori.

In questa fase storica, la dottrina largamente dominante intendeva la causa in senso soggettivo ovvero come scopo in vista del quale la parte si obbligava. Non mancavano, già all’epoca, alcune voci di dissenso che, rispetto alla dominante ricostruzione teorica, mettevano in luce come la stessa potesse portare alla confusione del requisito oggettivo della convenzione (la causa, appunto) con l’elemento soggettivo (la volontà delle parti del negozio). Pertanto iniziò a farsi strada l’idea della causa come essenza materiale ed oggettiva del contratto: peraltro, anche chi continuava a considerare la causa in chiave soggettiva, come motivo ultimo delle parti in base al quale esse stipulano, affermava che tale motivo ultimo si risolveva nella natura intrinseca e nella finalità economico-giuridica del contratto concluso, avvicinandosi così ad una ricostruzione caratterizzata da maggiore oggettività.

L’abbandono della teoria soggettiva ed il passaggio ad una concezione oggettiva avviene, tuttavia, solo con l’entrata in vigore del codice civile del 1942, il quale, peraltro, non fornisce alcuna definizione di causa e le difficoltà che incontra l’interprete, nel tentativo di elaborarne una, sono accresciute dal fatto che il termine viene adoperato con più significati (Torrente, Manuale di diritto privato, 2009). In primo luogo, si parla di causa dell’obbligazione per individuare la “fonte” da cui deriva il debito (art. 2745 c.c.). Il termine viene, poi, utilizzato anche per indicare fondamento di una attribuzione patrimoniale (art. 2033 c.c.). Infine, l’art. 1325 c.c. la annovera tra i “requisiti” o elementi essenziali del contratto, mentre gli artt. 1343-1345 c.c. si riferiscono rispettivamente alle ipotesi di illiceità della causa, contratto in frode alla legge (che è un particolare tipo di causa illecita che ricorre quando la pattuizione è posta in essere per eludere una disposizione di legge) e motivo illecito comune.

Nella Relazione che accompagna la codificazione, al paragrafo 613, si rileva chiaramente, peraltro, che i tempi sono maturi per un superamento dell’esegesi che vede nella causa lo scopo soggettivo perseguito dai contraenti nel caso concreto e, conseguentemente, per configurare tale elemento come la funzione economico-sociale che il diritto riconosce come rilevante e che giustifica la tutela apportata alla stipulazione intesa come atto esplicativo dell’autonomia privata.

Nell’elaborazione dottrinale la causa verrà vista come risvolto sociale dell’autonomia privata e definita come “funzione sociale dell’intero negozio, dei cui elementi essenziali e costitutivi rappresenta la sintesi” (Betti, Teoria generale del negozio giuridico, 1994): questa nozione sarà fatta propria dalla successiva giurisprudenza di legittimità.

La dottrina, a partire dagli anni ’60, ha sollevato una serie di critiche alla nozione di causa intesa come funzione economico-sociale del contratto.

Si è rilevato, innanzitutto, che la nozione di causa come strumento volto a verificare, nel caso concreto, se i fini perseguiti dai privati siano armonici con quelli dell’ordinamento esprime non il punto di vista delle parti ma quello dello Stato, limitando quella “signoria del volere” che caratterizza la contrattazione (Ferri, La causa nella teoria del contratto, in Studi sull’autonomia dei privati, 1997): in questa prospettiva ci si è spinti sino a rilevare che la nozione di causa intesa in senso oggettivo costituiva un mezzo attraverso il quale lo Stato fascista poteva attuare una sorta di politica dirigistica dell’economia nazionale trasformando l’autonomia privata da strumento di esplicazione della personalità umana a strumento tramite il quale l’ordinamento corporativo poteva soddisfare i propri fini (Cataudella, I contratti, parte generale, 2009).

Intendere la causa come strumento di controllo sociale potrebbe portare, peraltro, alla repressione non solo di contratti dannosi ma anche di convenzioni socialmente indifferenti, con causa futile o volte alla soddisfazione di interessi meramente individuali, in contrasto con la concezione democratica della libertà personale intesa come potere di fare tutto ciò che la legge non vieta o comanda (Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, 2001).

Infine, si è messo in luce che la teoria oggettiva, considerando la causa come funzione economico-sociale del negozio, conduce l’interprete ad effettuare una previa valutazione degli scopi pratici della convenzione: in questa prospettiva nessun contratto potrà essere dichiarato nullo per mancanza o illiceità della causa in quanto, di fronte ad un contratto tipico, la valutazione della funzione è già stata previamente effettuata dal legislatore (Bianca, Diritto civile, Tomo III, Il contratto, 2000; Cataudella, I contratti, parte generale, 2009).

Con riguardo ai contratti atipici o innominati si è rilevato che la causa, considerata quale strumento di valutazione, verrebbe assorbita dal giudizio di meritevolezza dell’art. 1322 c.c. che si esaurirebbe, peraltro, nella mera non contrarietà del contratto alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume.

Alla luce di tali critiche parte della dottrina ha segnalato la necessità di intendere la causa in concreto, come funzione economico-individuale del negozio: in questa prospettiva la causa diviene la sintesi ultima non dei soli elementi essenziali del contratto ma di tutti gli indici costitutivi del negozio, sia prima che secondari, assumendo così il ruolo di giustificazione razionale della convenzione (Ferri, Causa e tipo nel negozio giuridico, 1966).

Nonostante le suddette note critiche la giurisprudenza di legittimità, per lungo tempo, ha continuato ad intendere la causa in senso oggettivo e soltanto occasionalmente ha utilizzato degli schemi che, più o meno direttamente, rievocavano la tesi della causa concreta.

Di recente, tuttavia, l’orientamento della Cassazione sembra aver mutato rotta in favore della teoria della causa concreta: lo spartiacque viene, generalmente, individuato in Cass. 8 maggio 2006 n. 10490. Qui i giudici di legittimità, chiamati a decidere in merito all’esistenza di un contratto di consulenza tra una società ed un professionista, successivamente nominato in seno al Consiglio di amministrazione di una società collegata, hanno statuito che “la causa quale elemento essenziale del contratto non deve essere intesa come mera ed astratta funzione economico sociale del negozio bensì come sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare, e cioè come funzione individuale del singolo, specifico contratto, a prescindere dal singolo stereotipo contrattuale astratto, fermo restando che detta sintesi deve riguardare la dinamica contrattuale e non la mera volontà delle parti”. Nel formulare il suindicato principio la Suprema Corte ha considerato privo di causa, e conseguentemente viziato di nullità, il contratto concernente un’attività di consulenza avente ad oggetto la valutazione di progetti industriali e di acquisizione di azienda intercorso tra una società di consulenza, che ne aveva contrattualmente assunto l’incarico, e un soggetto che la stessa attività «già simmetricamente e specularmente» svolgeva in adempimento delle proprie incombenze di amministratore della medesima società conferente.

In merito alla suddetta pronuncia, tuttavia, si è evidenziata, in generale, la sostanziale irrilevanza della nozione soggettiva e concreta di causa al fine di risolvere il problema sottoposto all’attenzione della giurisprudenza di legittimità: infatti il contratto d’opera ha come funzione (oggettiva-astratta) la creazione di un obbligo dietro pagamento di un corrispettivo. Nella fattispecie in questione il soggetto è obbligato ad effettuare la prestazione a prescindere dal contratto (in quanto membro del Consiglio di Amministrazione) e, pertanto, il negozio non potrà conseguire l’effetto suo proprio (far sorgere in capo al soggetto, appunto, l’obbligazione di effettuare la prestazione). Occorrerà, peraltro, verificare l’integrale sovrapponibilità delle prestazioni di consulenza alle funzioni di amministratore e solo in caso di esito positivo della verifica potrà sorgere il problema della legittimità della pretesa che potrà essere risolto o assumendo che la nomina nel Consiglio di Amministrazione e la relativa accettazione costituiscono un negozio che comporta novazione oggettiva dell’obbligazione scaturente dal contratto di consulenza (obbligazione che non avrà più la sua fonte nel contratto ma nell’atto di nomina) oppure assumendo che le parti abbiano voluto attribuire al soggetto un maggior compenso rispetto all’attività posta in essere dagli altri membri del Consiglio di Amministrazione e, pertanto, il contratto di consulenza sarà nullo non per mancanza di causa ma per violazione dell’art. 2389 c.c. laddove prevede che la rimunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche in conformità dello statuto è stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale.

In realtà con riferimento alla fattispecie in discorso, posto che la nomina in seno al Consiglio di Amministrazione è successiva alla stipula del contratto di consulenza, si potrebbe, altresì, sostenere che ci troviamo di fronte ad una sopravvenuta impossibilità della prestazione (totale o parziale a seconda che vi sia o meno una piena sovrapponibilità tra la prestazione scaturente dal contratto di consulenza e le funzioni amministrative). Tale impossibilità è da intendersi non in senso materiale ma in senso giuridico: cioè l’avvenuta nomina del soggetto in seno al Consiglio di Amministrazione rende giuridicamente impossibile che sia espletata la medesima attività in qualità di consulente esterno. Accogliendo questa interpretazione il contratto di consulenza non sarà nullo (in quanto esso non è affetto da alcun vizio genetico) ma potrà esserne richiesta la risoluzione (ma si porrà il problema di stabilire a chi sia imputabile la sopravvenuta impossibilità).

Come abbiamo rilevato, la cit. sent. 10490/2006  ha inaugurato, nella giurisprudenza di legittimità, l’orientamento volto ad accogliere la concezione della causa “in concreto”, che ha trovato un fiorente campo di applicazione nell’ambito dei cc.dd. contratti di viaggio-vacanza.

In particolare Cass. civ., Sez. III, 24/07/2007, n.16315 ha confermato la legittimità di una pronuncia di scioglimento del c.d. “pacchetto turistico” di due settimane per due persone all’estero, dopo che i turisti, vista l’epidemia in atto nel luogo di destinazione, in accordo con l’agenzia di viaggi, avevano optato per diversa destinazione. Si è rilevato, in particolare, che “Nel contratto di viaggio vacanza “tutto compreso”, caratterizzato dalla combinazione di trasporto, alloggio ed altri servizi turistici non accessori (itinerario, visite, escursioni con accompagnatori e guide turistiche, ecc.), la “finalità turistica” (o “scopo di piacere”) è l’interesse che il contratto stesso è volto a soddisfare, dunque la sua causa concreta. Ne consegue che la irrealizzabilità di tale finalità per sopravvenuto evento non imputabile alle parti determina, visto il venir meno dell’elemento funzionale dell’obbligazione costituito dall’interesse creditorio, l’estinzione del contratto per sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione, con esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni. Rispetto al contratto di organizzazione o di intermediazione, inoltre, nel contratto di viaggio c.d. “pacchetto turistico”, la causa concreta assume rilievo, oltre che come elemento di qualificazione, anche relativamente alla sorte del contratto, quale criterio di relativo adeguamento. L’impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, quindi, pur se normativamente non prevista, è causa di estinzione dell’obbligazione, autonoma e distinta dalle cause di impossibilità ex art. 1463 c.c. ed art. 1464 c.c..

A distanza di pochi mesi, Cass. civ., Sez. III, 20/12/2007, n.26958, riguardo ad una  fattispecie, relativa ad un contratto di soggiorno alberghiero prenotato da due coniugi uno dei quali era deceduto improvvisamente il giorno precedente l’inizio del soggiorno, ha confermato la sentenza di merito con cui era stato dichiarato risolto il contratto per impossibilità sopravvenuta invocata dal cliente ed ha condannato l’albergatore a restituire quanto già ricevuto a titolo di pagamento della prestazione alberghiera. Ancora una volta la Suprema Corte utilizza la nozione di causa concreta al fine di constatare la sopravvenuta impossibilità della prestazione affermando che “La risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, con la conseguente possibilità di attivare i rimedi restitutori, ai sensi dell’art. 1463 cod. civ., può essere invocata da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico, e cioè sia dalla parte la cui prestazione sia divenuta impossibile sia da quella la cui prestazione sia rimasta possibile. In particolare, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione”.

Nonostante la recente giurisprudenza abbia accolto espressamente la nozione concreta di causa, anche al dì là dei contratti di viaggio turistico (ad es. Cass. 24769/2008 afferma la nullità di un contratto di locazione di un fondo sottoposto a vincolo di destinazione ad uso boschivo in quanto ne prevedeva l’utilizzazione in spregio al vincolo stesso, ravvisando, pertanto, un contrasto diretto della sua causa concreta con le norme di legge; Cass. SS. UU. 26972/2008, circa il problema della definizione dell’ampiezza normativa della categoria del danno esistenziale, afferma che il danno non patrimoniale è risarcibile quando il contratto inadempiuto sia rivolto alla tutela di interessi di natura non patrimoniale ex art. 1174 c.c. la cui individuazione deve essere condotta accertando la causa concreta del negozio nel senso chiarito da Cass. 10490/2006) in dottrina non sono mancate, accanto ad autorevoli adesioni al recente indirizzo giurisprudenziale (Galgano, Il contratto, 2007; Sacco, Il contratto, 2004; Gazzoni, Manuale di diritto privato, 2009; Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, 2001), delle voci critiche sul concetto di causa concreta (Galati, La causa del contratto tra “funzione economico-sociale” e “sintesi degli interessi individuali delle parti”, in Encicl. giuridica Treccani, Agg. 2009). In particolare si è rilevato che il ripudio della nozione oggettiva di causa si basa su una premessa ideologica eccessiva: infatti l’idea della causa quale funzione economico-sociale del contratto è stata vista come propria dell’ideologia illiberale ed autoritaria tipica del regime fascista. Non può non rilevarsi, secondo questo orientamento, che pur nel mutato quadro costituzionale la libertà d’iniziativa economica, come espressamente sancito dall’art. 41 c. 3 Cost, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale: ciò è imposto anche dal rispetto del principio solidaristico riconosciuto all’art. 2 Cost. L’accoglimento della nozione di causa concreta si regge, in realtà, su un equivoco di fondo che, confondendo l’elemento soggettivo del negozio con quello oggettivo finisce per attribuire rilevanza a delle pulsioni soggettive che, in quanto mere rappresentazioni interne ed interiori dei contraenti, dovrebbero essere irrilevanti (in quanto qualificabili come motivi), salvo il disposto dell’art. 1345 c.c.. Diversamente opinando si giungerebbe ad una sostanziale abrogazione degli artt. 1344 e 1345 c.c. in quanto, se ogni motivo illecito e ogni aggiramento di una disposizione imperativa, si riverbera sull’elemento casuale le suddette norme perderebbero ogni potenzialità applicativa.

Alla luce di questo orientamento, pertanto, nei contratti di viaggio vacanza tutto compreso la “finalità turistica”, ovvero lo scopo pratico di godere di un viaggio e di un periodo di relax o di riposo, non costituisce  causa (concreta) del contratto ma motivo soggettivo irrilevante: la “vera” causa del contratto sarebbe, piuttosto, costituita dallo scambio tra le prestazioni.

Occorre, da ultimo, sottolineare come non è mancato in dottrina chi ha affermato che il distacco della teoria soggettiva della causa rispetto a quella oggettiva è più apparente che reale: la differenza tra le due teorie, come da tempo rilevato (Bianca, Diritto civile, Tomo III, Il contratto, 2000) sembra ridursi a due diverse visuali del medesimo elemento. Da queste considerazioni emerge che quello della causa è in realtà un falso problema, com’è, peraltro, dimostrato dalla circostanza che nel c.d. Codice Europeo dei Contratti la causa non è neppure menzionata.

 

Longo Orazio

Longo Orazio

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