Cassazione su Totò Riina: analisi del concetto di Dignità

Redazione 06/06/17
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Dopo giorni di polemiche attorno alla sentenza con cui la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, con la quale i giudici avevano rigettato la richiesta di revisione del regime detentivo ex 41-bis in cui è custodito Totò Riina, c’è bisogno di chiarezza. Le coscienze di ciascun cittadino italiano necessitano di una riflessione accorta e plurale, che tenga conto di tutti i punti di vista con i quali si può affrontare non solo questa, ma tutte le questioni giuridiche.

Quando si parla di diritto, dunque di legge, non si può prescindere da un approccio strettamente legale.

Crimine organizzato, tra deroghe e principio di uguaglianza

Quello afferente alla criminalità organizzata, specie se di stampo mafioso, sia sostanziale che processuale, è un diritto derogatorio: il regime è speciale a partire dalla fattispecie penalistica, passando per le indagini preliminari, il dibattimento, fino ad arrivare all’applicazione ed esecuzione della pena.

Una differenza di trattamento, per poter essere tollerata dall’ordinamento nel suo complesso, alla luce del principio di uguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), deve ricevere una giustificazione: questo non per mera petizione di principio, bensì in ragione del fatto che un diritto non è mai donato sic et simpliciter, ma sempre frutto di un bilanciamento tra due beni.

Nello specifico, il trattamento particolarmente restrittivo della libertà personale dei detenuti per i delitti di cui agli artt. 416 e 416-bis c.p. esige una giustificazione che si rinnova, nel tempo, essendo connessa ad un pericolo concreto e attuale che deve minacciare la collettività.

Cassazione: la scelta della pena deve essere motivata

Il senso della sentenza della Suprema Corte è prettamente questo: la pena non può risultare un accanimento, colorato di vendetta, nei confronti del detenuto, essendo già di per sé afflittiva. Di conseguenza, la massima restrizione della libertà personale deve essere dettagliatamente motivata, ogni qual volta emerga il dubbio in merito alla sua ragionevolezza. Quest’ultima si ricerca direttamente attraverso il principio di proporzionalità, inteso come idoneità del mezzo scelto a raggiungere lo scopo e necessità del sacrificio imposto per il compimento del fine.

Dunque, la Corte di Cassazione ha richiesto al Tribunale di Sorveglianza di motivare il rigetto di revisione della pena detentiva, alla luce del “complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico”, non dovendo la detenzione carceraria comportare “una sofferenza ed un’afflizione di tale intensità” da andare oltre la “legittima esecuzione di una pena”.

Dunque, le condizioni di salute, fisica e mentale, del pluriomicida Riina, non comportano necessariamente il differimento della pena del 41-bis a quella degli arresti domiciliari. Basterà la rilevazione da parte del Tribunale di Bologna dell’ancora attuale e concreto pericolo che il soggetto costituisce per l’ordine pubblico, considerato anche il suo mai sopravvenuto pentimento, per confermare la detenzione più restrittiva.

A chi appartiene la Dignità?

Il motivo per il quale è necessaria una continua rivalutazione dell’opportunità della pena, e che impedisce di dimenticarsi del caso, archiviandolo e “buttando la chiave”, è proprio il concetto di dignità che la Cassazione ha richiamato, anche se in riferimento alla morte.

Nel 41-bis, anche se ridotta allo stremo, continua a permanere comunque la libertà personale inviolabile dell’individuo: se così non fosse, non sarebbero nemmeno concesse le c.d. ore d’aria, trascorse in pochi metri quadrati di cemento. Ciò significa che i diritti fondamentali che lo Stato di diritto decide di riconoscere a tutti i consociati continuano ad esistere, mutando invece solo la loro estensione, a seconda del conflitto socio-giuridico creatosi.

Dunque, se non vi fossero motivi per i quali mantenere ridotta al nocciolo la dignità umana, sarebbe una scelta civile quella di permettere una morte alternativa a quella in carcere.

Lo Stato non assomiglia ad un violento giustiziere, ha scelto di non assomigliarvi: altrimenti perché il rifiuto della pena di morte, anche per la categoria di individui cui appartiene Riina? Perché la volontà di ridimensionare il c.d. “fine pena mai” con modalità premiali del tutto coerenti con la funzione rieducativa che la Carta Costituzionale alla pena stessa attribuisce?

Ad essere discutibili sono certamente le modalità con cui contemperare il concetto di morte dignitosa e l’esigenza di coerenza e rispetto del senso di giustizia che i cittadini italiani, indistintamente lesi dalle mafie, stanno cercando di coltivare. Ad esempio, mancando perfino il letto di degenza all’interno del carcere di Parma, si potrebbe provvedere garantendo gli strumenti essenziali a rendere la morte di un detenuto ancora pericoloso dignitosa, senza così dover ricorrere agli arresti domiciliari.

Giustizia e Moralità

Dopo aver tentato di corredare la scandalosa notizia di una ponderata riflessione, è giusto chiedersi cosa provino le coscienze.

Pur essendo difficile a spiegarsi, e talvolta anche ad accettarsi, ciò che il giurista deve aver ben presente è che il termine giustizia non coincide con quello di morale. Questo è il motivo per il quale molto spesso il popolo avverte come ingiuste le scelte di Legislatore e Magistratura.

Tuttavia, io ritengo che l’opinione dei cittadini, i veri detentori della sovranità, conti e vada non solo considerata, ma anche spronata. Finché la cittadinanza si dichiarerà insoddisfatta, lo Stato dovrà indagare le cause di quel malcontento, o avrà fallito. Perché la giustizia è umana, fatta dall’uomo a tutela dell’uomo. È sprovvista di caratteristiche che le permettano di essere fine a se stessa.

Se davvero ciascuno di noi si sentisse protetto dalle Istituzioni in toto, si fidasse ciecamente di chi lo rappresenta, io credo che non porterebbe un rancore vendicativo, ma avrebbe già trasformato completamente il dolore in memoria, avrebbe quasi ultimato la costruzione del nuovo volto del proprio Paese. Invece si teme che anche le verità e le ingiustizie più palesi possano essere messe in discussione, avvertendo il garantismo come un relativismo pericoloso, sofistico.

Invece anche la rabbia più giustificata, come quella nei confronti di chi ha bestialmente scelto di fare tanto male, è vana se non sorretta da un progetto di pace comune e sincero: e questo non può che realizzarsi attraverso la trasparenza e la prevenzione, su più fronti, di tutte le bieche derive dell’essere umano.

 

Sabina Grossi

Redazione

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