Caso Cappato: la decisione della Consulta

Redazione 20/12/18
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La Corte Costituzionale, con ordinanza del 24 ottobre 2018, n. 207, ha auspicato un intervento legislativo che colmi le lacune normative attualmente rinvenibili nel nostro sistema con riferimento al delicato tema del suicidio assistito.

Vediamo quale dovrà essere l’ambito di intervento del legislatore e in che modo questo si differenzia dall’ambito della normativa già introdotta con legge 22 dicembre 2017, n. 219, in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento.

Suicidio assistito: qual è l’ambito di applicazione della legge?

La legge 22 dicembre 2017, n. 209 si rivolge essenzialmente ai casi di c.d. eutanasia passiva. Tali ipotesi comportano l’interruzione del trattamento terapeutico che mantiene in vita il paziente. In questo modo, sul piano eziologico, l’evento morte risulta essere conseguenza della mera ripresa del processo patologico originario.

In relazione alle ipotesi di eutanasia passiva, la legge 22 dicembre 2017, n. 209 ha recepito gli ultimi approdi giurisprudenziali raggiunti sul tema del fine vita. Si ricorda, in proposito, che la giurisprudenza ha più volte confermato che il diritto all’autodeterminazione terapeutica di cui all’art. 32 Cost. (“nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”) non risulta limitato né dal principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., né dal principio dell’indisponibilità del bene della vita. E’ stato quindi affermato che al diritto assoluto di autodeterminazione terapeutica di cui all’art. 32 Cost. corrisponde il dovere del  medico di adeguarsi alla volontà del paziente, il cui adempimento scrimina il sanitario ai sensi dell’art. 51 del codice penale.

Tale impostazione risulta oggi pienamente recepita dall’art. 1 della legge 22 dicembre 2017, n. 209, laddove dispone che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del libero e informato consenso della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge” (comma 1) e che “ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, con le stesse modalità di cui al comma 4, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso”, anche  nel caso di rinuncia o rifiuto di “trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza” (comma 5). A tal fine, una precisazione molto importante è contenuta nello stesso comma 5 dell’art. 1, in base al quale “sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”. Infine, il comma 6 chiarisce che “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”.

L’art. 1 della legge 22 dicembre 2017, n. 209 disciplina dunque i casi in cui il paziente opponga il proprio dissenso all’inizio o alla prosecuzione di cure necessarie per il proprio mantenimento in vita.

L’art. 4 della legge 22 dicembre 2017, n. 209 risolve, inoltre, un altro tema per lungo tempo controverso. Esso attiene al caso del paziente che manifesti il dissenso all’attivazione di un certo trattamento terapeutico in un momento antecedente e diverso rispetto al momento in cui medico si trova a dover intervenire. Questa eventualità risulta problematica allorché, in epoca successiva, il paziente non risulti nelle condizioni di confermare il dissenso precedentemente manifestato.

Prima dell’intervento della legge 22 dicembre 2017, n. 209, l’unico aggancio normativo era costituito  dall’art. 9 Convenzione di Oviedo del 1997, in base al quale “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”.

Oggi l’art. 4 della legge 22 dicembre 2017, n. 209  afferma che ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere può, attraverso le DAT (“disposizioni anticipate di trattamento”), esprimere le proprie volontà  in materia di trattamenti sanitari. Il medico è tenuto al rispetto delle DAT precedentemente fornite, potendo disattenderle solo in limitati previsti dallo stesso art. 4 e, in particolare, “qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”.

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Caso Cappato: la decisione definitiva

La Corte Costituzionale, con ordinanza del 24 ottobre 2018, n. 207 emessa nel noto caso Cappato, ha rinviato la trattazione della questione di costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale per consentire al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina sul tema del fine vita.

L’ambito di applicazione della disciplina invocata dalla Corte Costituzionale, si badi, è complementare ma diverso rispetto a quello appena delineato con riferimento alla legge 22 dicembre 2017, n. 209. Il legislatore, infatti, è chiamato a disciplinare casi di c.d. eutanasia attiva, vale a dire casi in cui  la morte del paziente non è cagionata dall’interruzione dei trattamenti terapeutici che contengono il processo morboso, ma è la conseguenza di un vero e proprio atto del medico o del paziente stesso in ciò coadiuvato da altri.

Allo stato attuale, la condotta di un medico che segnali al paziente la possibilità di ricorrere a forme di suicidio assistito all’estero e che eventualmente agevoli il paziente (che liberamente decide di porre fine alle proprie sofferenze) ad attuare la propria decisione, ben può essere sussunta nella fattispecie di aiuto al suicidio prevista dall’art. 580, comma 2, del codice penale.

La Corte Costituzionale, con l’ordinanza summenzionata, ha però escluso che in casi siffatti vengano in considerazione le esigenze di tutela che giustificano la repressione penale dell’aiuto al suicidio e, al contempo, sembra aver ravvisato una irragionevole disparità di trattamento rispetto alle ipotesi disciplinate dalla legge 22 dicembre 2017, n. 209: “Se, infatti, il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”.

Il divieto assoluto di aiuto al suicidio, quindi, non solo limita la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie finalizzate a liberarlo dalle sofferenze (libertà che trova fondamento negli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.), ma è suscettibile altresì di violare i principi di ragionevolezza e di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., tenuto conto della disciplina già prevista dalla legge 22 dicembre 2017, n. 209.

Il legislatore, dunque, risulta ora chiamato a disciplinare un fenomeno  (l’eutanasia attiva) diverso rispetto a quello disciplinato dalla legge  22 dicembre 2017, n. 209 (che disciplina forme di eutanasia passiva), ma sarà tenuto a farlo in modo ragionevolmente omogeneo, onde evitare censure di costituzionalità rispetto ai principi di ragionevolezza e uguaglianza.

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