Brevi note sul difficile coordinamento degli artt. 32 e 7 del D.lgs. 546/92

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Il presente lavoro trae linfa dal desiderio di indagare la ratio sottesa alla norma di cui all’art. 32 D.lgs. 546/92, nonché di verificarne le possibilità di coordinamento con l’art. 7 del medesimo atto legislativo. Si tratta infatti di norme che, almeno prima facie, sembrerebbero disegnare traiettorie ermeneutiche diverse.

È noto che lo spirito dell’art. 32, statuendo al primo comma la possibilità delle parti di arricchire l’impianto probatorio già allegato in sede di presentazione del ricorso, affonda le sue radici in una duplice esigenza: di garantire la libertà di difesa, da un lato; di rendere effettivo il contraddittorio fra le parti, dall’altro. Talsì che il fulcro contenutistico della disposizione normativa in esame andrebbe individuato in un coacervo di interessi di matrice pubblicistica.

Al principio del contraddittorio, sul quale si innesta tutto il processo tributario, sono storicamente legate istanze di giustizia sostanziale: nessuno può subire gli effetti di una sentenza, senza avere avuto la possibilità di prendere parte al processo dal quale essa scaturisce; nessuno, in altre parole, può essere additato quale punto di riferimento soggettivo di un provvedimento giurisdizionale senza aver avuto la possibilità partecipare attivamente alla sua formazione. Specularmente, esso, sostanziandosi nella garanzia, riconosciuta alle parti, di esporre le proprie ragioni al giudice, sì da poter, in certa misura, contribuire sulla formazione del suo convincimento, si piega al soddisfacimento di esigenze di giustizia ed eguaglianza e, al contempo, si pone come valido strumento processuale volto a promuovere, mediante un’effettiva attività cooperatoria tra le parti e il giudice, l’accertamento giurisdizionale della verità.

L’attuazione del principio del contraddittorio, stigmatizzato all’art. 111 Cost., passa attraverso l’operatività dell’espediente tecnico dell’onere della prova: questo fa perno sul potere riconosciuto dal sistema alle parti di produrre in giudizio prove documentali certificanti fatti rilevanti ai fini della decisione del giudice. In tal senso milita l’art. 2697 c.c., a mente del quale «Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che costituiscono il fondamento».

L’onere di allegazione è regola processuale che, nel rispetto del principio di eguaglianza, vale per tutte le parti1 e, nel contempo, circoscrive i limiti delle iniziative istruttorie del giudice tributario.

È su questo terreno concettuale che germoglia l’art. 32 D.lgs. 546/92: ed infatti la norma sembra delineare il perimetro temporale (20 giorni, 10 giorni, 5 giorni) e spaziale (documenti, memorie, brevi repliche) entro il quale può svolgersi la libera attività delle parti. Essa, in buona sostanza, delimitando l’area del petitum, stigmatizza il contraddittorio fra le stesse e definisce le difese prima della trattazione. Da questo momento il collegio è messo nelle condizioni di conoscere tutti i dettagli della controversia, quindi di costruire su di essi la sua decisione.

Segnatamente, stando al tenore letterale dell’art 32, l’ulteriore attività difensiva espletabile dalle parti nella fase processuale che va dalla data  di  comunicazione  dell’avviso  di  trattazione  alla data di fissazione dell’udienza pubblica o della deliberazione in camera  di consiglio, può sostanziarsi:

a) nel deposito di documenti fino a 20 giorni liberi prima della data di trattazione, elencati in apposita nota sottoscritta da depositare in originale ed in numero di copie in carta semplice pari a quello delle altre parti (artt. 32, comma 1 e 24, comma 1 D.lgs. 546/92);

b) nel deposito di memorie illustrative con le copie per le altre parti fino a 10 giorni liberi prima della data di trattazione (art. 32, comma 2);

c)  in  brevi repliche scritte fino a 5 giorni liberi prima della data della camera di consiglio, solo nel caso di trattazione della controversia in camera di consiglio (art. 32, comma 3).

Sulla scia tracciata dalla giurisprudenza (Corte Cost. n. 502/02), il deposito degli atti può essere effettuato anche a mezzo del servizio postale, in tal caso si ritiene che momento rilevante ai fini della determinazione della tempestività della trasmissione è non già quello della spedizione, ma quello del deposito delle copie destinate alle altre parti che devono avere, assieme al giudice, la garanzia di giorni liberi fissati dalla normativa. Si reputa altresì ammissibile l’invio tramite fax, sempre che la trasmissione sia seguita dalla presentazione della copia cartacea nei termini di legge.

Poiché la  norma  in  commento  non prevede alcuna comunicazione alla parte interessata,  a cura della segreteria,  della avvenuta presentazione di documenti e di memorie illustrative, è opinione diffusa che l’Ente impositore dovrà tenere un comportamento processualmente attivo e diligente, seguendo l’attività della  controparte  attraverso  la consultazione del fascicolo processuale.

Il primo comma dell’art. 32 D.lgs. 546/92, limitatamente alle modalità di presentazione dei documenti integranti il ricorso, è in stretta relazione dialogica con l’art. 24 D.lgs. 546/92. Ai sensi della norma, da ultimo citata, i supporti documentali possono essere presentati:

a) in allegato al ricorso oppure ad altro atto del giudizio, appositamente elencati;

b) se prodotti separatamente, in nota sottoscritta da depositare presso la segreteria della Commissione tributaria in originale (in bollo da € 14,62) ed in numero di copie in carta semplice pari a quello delle altre parti2.

Quanto alle memorie illustrative e alle repliche, si tiene a precisare che non possono essere strumentali all’ampliamento dei confini tracciati dal petitum – evenienza questa che, ove si verificasse, verrebbe a snaturare l’essenza stessa della controversia già incanalata nella fase finale dell’istruzione probatoria –: esse, pertanto, possono soltanto precisare, sviluppare e arricchire le conclusioni già formulate. In coerenza a ciò, non è ammessa la proposizione di domande nuove e nuove eccezioni (non rilevabili d’ufficio)3.

Uno dei principali nodi da sciogliere, con riferimento all’art. 32 D.lgs. 546/92, concerne la natura dei termini in esso indicati. Ci si chiede, cioè, se si tratta di termini ordinatori o perentori.

Due dati balzano preliminarmente agli occhi: da un lato, il silenzio della norma in questione sul punto; dall’altro, il disposto letterale dell’ 152 c.p.c., alla stregua del quale i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, salvo che questa li dichiari espressamente perentori.

Purtuttavia, si è avuto modo di rilevare come da qui non possa farsi necessariamente discendere la natura ordinatoria dei termini di cui all’art. 32, – come pure la locuzione «possono» ad alcuni è parso suggerire – posto che nulla vieta di accertare se, di là dal dettato della norma, un termine, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie, debba essere rigorosamente osservato.

Seguendo questa traiettoria ermeneutica, ha trovato avallo, tra le fila della giurisprudenza, l’opinione che muove nel segno della natura perentoria dei termini prescritti dal legislatore per l’espletamento delle attività processuali delle parti; e ciò in guisa del fatto che il fine avuto di mira è quello di instaurare il necessario contraddittorio tra le parti e tra queste ed il giudice,  nonchè tutelare il diritto di difesa della controparte4 attraverso lo svolgimento orale di eventuali repliche in udienza (se questa è pubblica) oppure il deposito di memorie di replica (se l’udienza avviene in camera di consiglio), almeno 5 giorni prima. Se ne trae quale corollario la circostanza che l’inosservanza di detto termine determina la preclusione di ogni ulteriore produzione difensiva, senza che assuma rilievo alcuno, in contrario, la circostanza che la controparte si sia costituita in giudizio senza nulla eccepire al riguardo5. La possibilità di sanatoria, come  previsto dall’art. 153 c.p.c., a séguito di acquiescenza è ammessa, difatti, soltanto con riferimento alla forma degli atti processuali, e non anche relativamente all’inosservanza dei termini perentori6.

Benchè sia generalmente riconosciuta la natura perentoria del termine in questione, anche in ossequio al principio di speditezza e celerità del processo tributario, nella vigenza dell’ormai abrogato comma 3 art. 7 D.Lgs. 546/1992 si riteneva che lo stesso fosse suscettibile di limitare il potere delle Commissioni tributarie, esercitabile – in carenza di delimitazioni temporali – fino all’udienza di discussione, di ordinare il deposito dei documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia.

È in queste pieghe concettuali che si sviluppa il problema del difficile coordinamento degli artt. art. 7 e 32 del D.Lgs. 546/1992, là dove il primo disciplina il potere delle Commissioni Tributarie; il secondo il potere delle parti. Tale problema, a guardar meglio, si mostra strettamente legato al nodo gordiano della definizione dell’ampiezza del giudice dell’istruzione probatoria. Occorre, in altri termini, verificare entro quali confini può spingersi il potere dell’autorità giudiziaria, a fronte dei limiti scaturenti dall’attività processuale delle parti.

Se da un lato – come rimarcato dalla giurisprudenza – è indubbio che l’art. 7 «ha voluto riconoscere al giudice tributario, evidentemente per la natura pubblicistica degli interessi in gioco, un maggiore potere istruttorio rispetto a quello del giudice civile»7, dall’altro non si può fare a meno di rilevare come l’esercizio degli ampi poteri istruttori attribuiti dalla legge al primo può essere espletato soltanto nel rispetto dei limiti dei fatti dedotti dalle parti. La ricerca della verità processuale non può quindi spingersi al punto di investire l’esistenza di fatti non dedotti.

Eppure non sono mancate letture estensive dell’art. 7, come quella che attribuisce, pur in presenza di un indizio di prova, un vero e proprio potere suppletivo alle Commissioni tributarie o di riparazione della negligenza della parte: queste, sostituendosi al soggetto onerato, possono acquisire d’ufficio le prove ritenute indispensabili per addivenire alla decisione della controversia.

Trattasi di un’insindacabile decisione del giudice, perfettamente in linea con i principi inquisitori che informano il processo tributario. Né nelle intelaiature concettuali di questa ricostruzione sarebbe possibile intravedere i germi della violazione del diritto di difesa perché – si spiega – tutte le parti possono difendersi ed eventualmente contestare la rilevanza o la validità delle prove acquisite per ordine del giudice.

Invero, il rischio, di fatto, c’è; come pure c’è il rischio che si attualizzi la lesione della funzione di terzietà del giudice, essendo attratta nella sfera dei poteri di questi la possibilità di ricercare elementi più utili alla tesi propugnata.

Altro filone giurisprudenziale, muovendo, per converso, da un’interpretazione restrittiva dell’art. 7, ha affermato che l’esercizio di tali poteri costituisce una facoltà discrezionale della quale va fatto un uso prudente, in quanto non persegue la finalità di sopperire alle deficienze probatorie delle parti8. Ciò posto, la Suprema Corte ha individuato nell’ipotesi di impossibilità o obiettiva difficoltà di assolvimento dell’onere probatorio, l’unico caso in cui le parti «potrebbero dolersi» del mancato uso di questi poteri9, non potendo essere pronunciata una sentenza ragionevolmente motivata10.

Secondo l’orientamento da ultimo richiamato, quindi, il giudice non può sostituirsi, attraverso l’acquisizione di documenti e prove, al soggetto su cui grava l’onere probatorio (in ipotesi negligente) e porre rimedio alle carenze probatorie di questo, dovendo semplicemente limitarsi a svolgere una mera attività integrativa dei soli elementi forniti dalle parti in causa, qualora tali elementi non siano sufficientemente prodotti: soltanto la lacuna probatoria non determinata da colpevole negligenza di parte può attivare i poteri istruttori del giudice di cui all’art. 7 del D.Lgs. 546/199211.

D’altro canto, il fatto che i poteri istruttori delle Commissioni tributarie non possano avere ad oggetto il riscontro di fatti ulteriori rispetto allegati dalle parti riceverebbe conforto dallo stesso tenore letterale della norma ove è previsto che le stesse, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge di imposta. A tal fine, ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, qualora occorra acquistare elementi conoscitivi di particolare complessità, le Commissioni tributarie possono richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di finanza ovvero disporre consulenza tecnica.

L’abrogazione del comma 3 della disposizione normativa in esame12, a mente del quale era sempre data alle Commissioni tributarie «facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione», secondo una parte della dottrina, avrebbe contribuito a scolorire il contenuto inquisitorio del processo tributario. Attraverso di essa, quindi, sarebbe stato compiuto un ulteriore passo in avanti verso la natura dispositiva del processo tributario. Se il principio inquisitorio vuole che il giudice pervenga in modo officioso alla conoscenza dei fatti, prescindendo dall’iniziativa di parte; il principio dispositivo vuole, per contro, che le prove siano raccolte dalle parti e poste a fondamento delle rispettive pretese; solo eccezionalmente integrate dal giudice. La ratio della modifica, inizialmente poco chiara, seppur tendenzialmente ispirata all’intento di prevenire un uso distorto del potere delle Commissioni tributarie, è stata successivamente additata nell’esigenza di evitare l’elusione del rispetto dei termini imposti alle parti per la produzione dei documenti di cui esse abbiano la piena disponibilità.

È proprio in questo solco che, ad avviso di chi scrive, andrebbe individuato il punto di contatto, di equilibrio tra l’art. 7 e l’art 32 del D.lgs. 546/92, tra il principio inquisitorio e il principio dispositivo, tra il potere dell’autorità giudiziaria e quello riconosciuto alle parti: nell’esigenza, cioè, di garantire il diritto di difesa e l’effettività del contraddittorio.

Da qui, in una prospettiva che guarda de iure condendo, l’auspicabilità di un intervento legislativo che, mettendo fine all’annosa querelle giurisprudenziale, venga a porre un argine legislativo all’intervento officioso del giudice, senza che ciò, peraltro, costituisca un intralcio alla ricerca della verità dei fatti dedotti in giudizio; cosa che solamente a lui compete.

 

Lecce, 07 febbraio 2011

 

PRIMO CORSO PRATICO SUL PROCESSO TRIBUTARIO

CORSO IPSOA SVOLTO A LECCE

DIREZIONE SCIENTIFICA E DOCENZA

AVV. MAURIZIO VILLANI

1 La giurisprudenza non è mancata di rilevare come la distribuzione dell’onere della prova sia modulata in relazione alla posizione processuale rivestita dalle parti, ovvero al diritto del quale si intende chiedere tutela in connessione all’atto impugnato; talsì che, volgendo lo sguardo al processo tributario, là dove la posizione processuale dell’attore combacia con quella sostanziale, l’onere della prova grava su quest’ultimo che deve dare prova dell’indebito (Cass. 8349/04). Più in generale, si rileva come tutte le parti di fatto siano investite dall’onere probatorio, giacchè «se è vero che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta all’amministrazione finanziaria – nel quadro dei generali principi che governano l’onere della prova – dimostrare l’esistenza dei fatti costituitivi della maggiore pretesa tributaria azionata, fornendo, quindi, la prova di elementi e circostanze a suo avviso rilevatori dell’esistenza di un maggiore imponibile, è altrettanto vero però, che il contribuente, il quale intenda contestare la capacità dimostrativa di quei fatti, oppure sostenere l’esistenza di circostanze modificative o estintive dei medesimi, deve a sua volta dimostrare gli elementi sui quali le sue eccezioni si fondano». In questa direzione mena Cass., 23 settembre 2005, n. 18710).

2 Non è invece ritenuto necessario che i documenti vengano depositati in un numero di copie corrispondente a quello delle parti.

3 Non sono tuttavia considerate domande nuove: 1) l’eventuale diversa qualificazione giuridica invocata dalla parte dei medesimi fatti già acquisiti in giudizio; 2) l’invocazione di una diversa disciplina giuridica sopravvenuta nel corso del giudizio per abrogazione della precedente applicata; 3) la richiesta di applicazione di quanto enunciato in una sentenza della Corte Costituzionale che abbia dichiarato costituzionalmente illegittima una norma decisiva o fondamentale nel giudizio o abbia imposto una interpretazione adeguatrice; 4) il rinvio ad una sentenza della Corte Europea intervenuta dopo la presentazione del ricorso che abbia dichiarato incompatibile la legge applicata con la normativa comunitaria; 5) l’eccezione di giudicato esterno, se formato in un momento successivo all’ultima udienza di trattazione e se non emerga dalle carte processuali. È, per contro, ritenuta nuova, e non rilevabile d’ufficio l’eccezione di prescrizione, che pertanto deve essere avanzata con il primo atto difensivo. Non è rilevabile d’ufficio l’eccezione di compensazione.

4 Così Cass., trib., 10 novembre 2000, n. 14624; Cass., trib., 30 gennaio 2004, n. 1771, ove si legge testualmente che «La norma scandisce temporalmente l’attività difensiva delle parti sia per quanto riguarda la difesa probatoria che per quella propriamente tecnica. La scansione (…), all’evidenza, non riguarda solo l’attività processuale di una parte ma assume preciso significato di tutela (sia per rispetto del diritto di difesa che del principio del contraddittorio) della controparte stabilendo dei termini precisi di scadenza entro i quali l’attività difensiva avversa può essere espletata e, di conseguenza, controllata. L’osservanza dei limiti in questione, pertanto, deve ritenersi obbligatoria in quanto diretta a tutelare il suddetto diritto di difesa di controparte ed a realizzare il necessario contraddittorio tra le parti e tra queste e il giudice per cui correttamente i termini in questione sono stati ritenuti perentori da questa Corte, anche in difetto di una espressa previsione legislativa». Analogamente, più di recente, anche Cass., trib., 8 febbraio 2006, n. 2787. Il principio della inderogabilità e perentorietà dei termini sopra citati è stato ribadito anche dalla giurisprudenza di merito (v., per tutte, Comm. Trib. Prov. Lecce, 13 maggio 2005, n. 85/1/05)

5 Cass., trib., 9 maggio 2005, n. 85, ove ribadita la natura perentoria dei termini si sottolinea che «conseguentemente non possono essere utilizzati i documenti depositati dopo la scadenza del termine massimo di venti giorni liberi prima della trattazione, anche nel caso in cui l’altra parte non si opponga al deposito tradivo». Cass., trib., 8 febbraio 2006, cit.

6 In questi termini Cass., trib., 30 gennaio 2004, n. 1771.

7 Così Cass., 28 gennaio 2005, n. 1792. La ragione della diversa gradazione dei poteri istruttori attribuiti ai due giudici viene rintracciata nella circostanza che il pagamento dell’esatto tributo fuoriesce dalla sfera privata, per investire un interesse che riguarda l’intera collettività.

8 Cass., 7 febbraio 2001, n. 7129; Cass., 9 maggio 2003, n. 16161; Cass., 28 ottobre, 2003 n. 13504; Cass., 15 settembre 2003, n. 8439.

9 Cass., 9 maggio 2003, cit. Analogamente Cass., 17 novembre 2006, n. 24464, ove si legge che «Nel quadro di un processo concentrato, spedito e improntato al principio dispositivo, oltre che alla valorizzazione della buona fede e diligenza delle parti, il giudice non può esercitare i suoi poteri se non quando, per la parte l’acquisizione del dato istruttorio sia, senza l’intervento dell’Autorità, impossibile o, il che assume valore equivalente, irragionevolmente difficile».

10 È chiaro, infatti, il contenuto degli artt. 115 e 116 c,p.c.: se il giudice fonda la propria pronuncia sul mancato assolvimento dell’onere della prova deve motivarne le ragioni e dimostrato di aver esaminato e valutato le prove.

11 Cfr. Cass., 16 maggio 2005, n. 10267, ove si puntualizza che «a fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del soggetto onerato il Giudice tributario non è tenuto ad acquisire d’ufficio le prove in forza dei poteri istruttori attribuitigli dall’art. 7 del D.L.vo n. 546 del 1992, perché tali poteri sono meramente integrativi (e non esonerativi) dell’onere probatorio principale e vanno esercitati, al fine di dare attuazione al principio costituzionale della parità delle parti nel processo (art. 111, secondo comma, Cost.), soltanto per sopperire all’impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell’altra parte». Sulla medesima scia v. Cass., 7 ottobre 2005, n. 19607.

12 L’abrogazione è avvenuta per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 3 bis, comma 5, l. n. 248 del 2005.

Avv. Villani Maurizio

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