Brevi cenni sull’applicazione della local remedies rule da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’affare Daddi c. Italia

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Con la sentenza resa all’esito della camera di consiglio del 2 giugno 2009 nell’affare Daddi c. Italia la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha fornito interessanti indicazioni sull’applicazione della regola del previo esaurimento dei ricorsi interni di cui all’art. 35, par. 1, della CEDU (c.d. “local remedies rule”).
Nell’occasione, una cittadina italiana lamentava l’eccessiva durata di un processo amministrativo celebrato dinanzi al TAR Toscana al fine di ottenere l’annullamento di alcuni provvedimenti in materia urbanistica emessi dal Comune di Carmignano.
Il giudizio era stato incardinato con ricorso depositato il 14 novembre 1994 ed era stato definito con sentenza depositata il 10 settembre 2007. La decisione, non essendo state interposte impugnazioni, era passata in giudicato il 31 ottobre 2008.
Nelle more del passaggio in giudicato della sentenza si era registrata l’introduzione del d. l. n. 112/2008 (convertito poi con la l. 133 del 6 agosto 2008) il cui art. 54, al comma 2, prevede che La domanda di equa riparazione non e’ proponibile se nel giudizio dinanzi al giudice amministrativo in cui si assume essersi verificata la violazione di cui all’articolo 2, comma 1, non e’ stata presentata un’istanza ai sensi del secondo comma dell’articolo 51 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, nei sei mesi antecedenti alla scadenza dei termini di durata di cui all’articolo 4, comma 1-ter, lettera b)”.
Nel momento in cui la predetta disposizione era entrata in vigore la ricorrente si era trovata nell’impossibilità oggettiva di assolvere alla formalità richiesta, essendo stato già deciso il giudizio che la riguardava. Presumendo quindi che un’eventuale domanda di equa riparazione promossa ai sensi della “legge Pinto” sarebbe stata dichiarata inammissibile per il mancato deposito nei termini dell’istanza di prelievo, aveva deciso di adire direttamente la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo.
 
Nel verificare la ricevibilità del ricorso deferito alla loro cognizione i giudici di Strasburgo si sono soffermati a valutare se l’attivazione della procedura di cui alla l. 89/2001 fosse stata legittimamente pretermessa.
A tal fine hanno indagato se, nel caso di specie, il richiamo all’art. 54, comma 2, del d. l. 112/2008 fosse effettivamente suscettibile di scongiurare l’accoglimento di un’eventuale domanda di equa riparazione promossa dinanzi alle autorità nazionali.
La questione è stata risolta in senso negativo attraverso il richiamo al principio secondo cui la sussistenza di dubbi in ordine alle prospettive di successo di un mezzo di ricorso non costituisce un giusto motivo per derogare alla “local remedies rule” qualora non soccorrano evidenze decisive che la domanda di giustizia sia destinata al rigetto.
A questa conclusione la Corte è giunta rilevando che la ricorrente aveva omesso di fornire “aucun exemple de décision dans le sens invoqué”.
Al fine di sottolineare che un’eventuale azione promossa dalla sig.ra Daddi ai sensi della “legge Pinto” non avrebbe necessariamente incontrato esito sfavorevole i giudici di Strasburgo hanno richiamato l’eminente orientamento della Cassazione alla stregua del quale il deposito di istanza di prelievo risulta assolutamente ininfluente ai fini del computo dell’eccessiva durata di un processo amministrativo[1].
Gli stessi giudici hanno infine ritenuto la sussistenza di margini per un’interpretazione dell’art. 54, comma 2, del d. l. 112/2008 tale da garantirne la conformità ai principi della Convenzione.
 
Per meglio apprezzare le modalità in cui la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni ha trovato applicazione nella sentenza in commento appare opportuna qualche breve precisazione.
La “local remedies rule” è una norma di diritto internazionale consuetudinario confluita nel campo della tutela dei diritti umani dopo essersi imposta nella prassi in tema di protezione diplomatica[2].
Il richiamo operatone dall’art. 35, comma 1, della CEDU ha lo scopo di garantire agli Stati la possibilità di porre rimedio alle violazioni della Convenzione attraverso gli strumenti messi a disposizione dal proprio ordinamento, prima che venga in discussione la loro responsabilità sul piano internazionale. Contemporaneamente, esso favorisce la protezione dell’individuo, sul presupposto che la tutela delle situazioni soggettive predisposta a livello locale, per la maggiore accessibilità, debba preferirsi a quella offerta in seno alla comunità internazionale[3].
Quando l’una o l’altra delle summenzionate finalità non può trovare realizzazione, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in linea con altre giurisdizioni internazionali, accorda la possibilità di deroghe alla norma.
L’obbligo di azionare i mezzi di ricorso offerti dall’ordinamento statale viene quindi ritenuto operante esclusivamente allorquando questi siano disponibili, effettivi ed adeguati.
Trascurando tutto quanto non strettamente connesso agli scopi che ci riguardano, basterà osservare che un rimedio giurisdizionale è considerato effettivo quando, date le circostanze del caso, ad esso si ricolleghino ragionevoli prospettive di successo[4].
L’effettività degli strumenti di ricorso offerti all’individuo dall’ordinamento statale è generalmente presunta, potendosi fornire prova contraria solo dimostrando l’esistenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale contrario all’accoglimento della pretesa che il singolo intende far valere.
Una siffatta presunzione non opera però con riferimento a contesti in cui si registrano violazioni sistematiche dei diritti umani[5].
Tanto premesso, ci sembra che la Corte si sia attenuta alla prassi consolidata laddove, nella sentenza in esame, ha dato prova di ritenere possibile in linea di principio che un individuo faccia ricorso diretto ad una giurisdizione internazionale in assenza di strumenti di tutela effettivi sul piano dell’ordinamento interno.
Parimenti conforme alle soluzioni generalmente praticate risulta l’attribuzione alla ricorrente dell’onere di provare il carattere non effettivo del mezzo di ricorso interno non azionato.
Sul punto i giudici di Strasburgo hanno sentenziato il mancato assolvimento del predetto onere pur prendendo atto che “aucune jurisprudence n’aurait pu s’être consolidée au sein de jurisdictions superieures dans le bref délai qui s’est écoulé entre la date d’entrée en vigueur du décret-loi et celle de l’introduction de la présente requête”.
Così argomentando, la Corte ha inteso chiarire che la effectiveness dei mezzi di ricorso contemplati dall’ordinamento nazionale può essere contestata solo mediante l’allegazione di precedenti giurisprudenziali, a nulla rilevando qualunque altra argomentazione giuridica. Ciò vale anche quando in ordine ad una determinata materia non si sia ancora formata giurisprudenza, benché la circostanza costituisca fatto non imputabile al soggetto che asserisca di essere vittima di una violazione della CEDU.
La determinazione assunta dai giudici di Strasburgo sul punto non resterà priva di conseguenze in un ordinamento quale quello italiano in cui l’estenuante durata dei processi comporta che sia richiesto uno spatium temporis non trascurabile per giungere ad una decisione delle giurisdizioni superiori.
Resta da comprendere se ulteriori conseguenze in tema di local remedies rule possano derivarsi dall’importanza che la Corte attribuisce alla possibilità di interpretare l’art. 54 del d. l. 112/2008 in maniera da assicurarne la conformità ai principi della Convenzione.
L’onere posto a carico dell’individuo che intenda dimostrare il carattere non effettivo degli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento nazionale sarebbe significativamente aggravato se a quest’ultimo, fermo ogni altro onere, si chiedesse pure di argomentare in quali termini il ricorso all’interpretazione conforme da parte degli organi giurisdizionali statali non potrebbe comunque condurre al soddisfacimento della propria pretesa.
 
Giovanbattista Greco
 
 


[1] Cass. Civ., sez. un., 15.12.2005 n. 28507.
[2] Per un’introduzione all’argomento, v. A. A. Cançado Trindade, The Application of the Rule of Exhaustion of Local Remedies in International Law: Its rationale in the international protection of individual rights, Cambridge University Press, 1983; D. R. Mummery, ‘The content of the duty to Exhaust Local Judicial Remedies’, in the American Journal of International Law, vol. 58, no. 2, pagg. 389 e ss.;   S. D’Ascoli e K. M. Scherr, ‘The Rule of Prior Exhaustion of Local Remedies in the International Law Doctrine and its Application in the Specific Context of Human Rights Protection’, EUI Working Papers, Law, 2007/02, consultabile all’indirizzo web http://ssrn.com/abstract=964195
[3] “[…] [T]he rule of exhaustion of local remedies […] obliges those seeking to bring their case against the State before an international judicial or arbitral organ to use first the remedies provided by the national legal system. …The rule is based on the assumption, reflected in Article 13 of the Convention, that there is an effective remedy available in respect of the alleged breach in the domestic system whether or not the provisions of the Convention are incorporated in national law. In this way, it is an important aspect of the principle that the machinery of protection established by the Convention is subsidiary to the national systems safeguarding human rights.” (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 16 settembre 1996, Akdivar e altri c. Turchia, in Reports of Judgments and Decision of the ECHR, 1996-IV, par. 65).
[4] Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 27 marzo 2003, Scordino e altri c. Italia, in Reports of Judgments and Decision of the ECHR, 2003-IV
[5] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 16 settembre 1996, Akdivar e altri c. Turchia, cit. v. nota n. 3.

Greco Giovanbattista

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