sez I – Il bilancio di esercizio: lineamenti civilistici e profili di falsita’

Redazione 21/09/02
Scarica PDF Stampa
di Pierpaolo Schiattone

Sommario:1)Cenni generali sul bilancio d’esercizio – 2)L’invalidità della delibera di approvazione del bilancio – 3)Vizi del bilancio d’esercizio e rilevanza penale del falso – 3.1)Il principio di chiarezza – 3.2)segue: il “nuovo ruolo” del principio di chiarezza – 3.3) I principi di veridicità e correttezza – 3.4)Le valutazioni – 4) Il ruolo della nota integrativa – 5)Riflessioni conclusive

1) Cenni generali sul bilancio d’esercizio
Funzione essenziale del documento contabile costituito dal bilancio d’esercizio è quella di offrire ai soci e ai terzi, alla fine di ciascun esercizio sociale, una informazione chiara, veritiera e corretta sulla situazione patrimoniale, finanziaria e sul risultato economico della società.
Nelle società di capitali, in particolare, il bilancio rappresenta un essenziale strumento di informazione contabile dei soci e dei terzi, costituendo, soprattutto per i soci di minoranza, il solo strumento legale di informazione contabile sull’andamento degli affari sociali e, per i creditori sociali, il mezzo per conoscere la consistenza del patrimonio della società, sola garanzia su cui essi possono fare affidamento. Sempre nelle società di capitali, il bilancio, da un lato, è termine necessario di riferimento legislativo per la corretta applicazione del complesso di norme poste a tutela dell’integrità del capitale sociale; dall’altro costituisce presupposto per l’adozione di una serie di deliberazioni assembleari (obbligatorie o facoltative) che ruotano intorno all’accertamento periodico degli utili o delle perdite: si pensi alla costituzione delle riserve e distribuzione degli utili ai soci; alla riduzione del capitale sociale per perdite; all’acquisto di azioni proprie; all’emissione di obbligazioni.
La disciplina civilistica di carattere generale è stata profondamente e significativamente innovata dal d. lgs. 9 Aprile 1991 n. 127, attuativo in Italia della quarta direttiva Cee del 1978 n. 660, nonché della settima direttiva in tema di bilancio consolidato di gruppo (Dir. n. 83/349). La nuova disciplina del bilancio d’esercizio, modificando gli articoli della sezione dedicata al bilancio nel codice civile (artt. 2423 – 2435-bis c.c.), coinvolge tutti gli aspetti del documento in esame, a cominciare proprio dalla funzione informativa assegnata al bilancio[1].
Il bilancio si compone di tre documenti, tra loro complementari e destinati ad integrarsi reciprocamente: stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa.
Lo stato patrimoniale deve indicare la composizione quantitativa e qualitativa del patrimonio della società (attività e passività), enunciando, in colonne contrapposte, i valori attribuiti ai beni che costituiscono la parte attiva del patrimonio, poi il patrimonio netto e le passività.
Mentre lo stato patrimoniale indica, dunque, la situazione patrimoniale e finanziaria della società al termine dell’esercizio, il conto economico (non più redatto a colonne contrapposte ma secondo il sistema espositivo “a scalare”, che meglio consente un’analisi della gestione, anche attraverso la successione di “totali parziali”, per aree omogenee: gestione caratteristica, extracaratteristica, finanziaria, straordinaria ed imposte sul reddito) espone il risultato economico dell’esercizio, ossia l’utile realizzato o la perdita subita, corrispondente alla differenza tra i ricavi ed i costi dell’attività produttiva e tra i proventi e gli oneri di natura finanziaria.
La nota integrativa, il cui contenuto è fissato dall’art. 2427 c.c. e da numerose altre disposizioni, illustra e specifica le voci dello stato patrimoniale e del conto economico, fornendo, pertanto, una serie di informazioni “integrative” (criteri di valutazione, variazioni intervenute negli stessi, composizione delle principali voci, etc.) sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sul risultato economico d’esercizio, sul numero dei dipendenti, sui compensi di amministratori e sindaci e sui titoli emessi dalla società[2]. Oggi è espressamente previsto che la nota integrativa costituisce parte integrante del bilancio: ciò significa, in particolare, che le informazioni contabili dalla stessa risultanti possono sopperire ad eventuali “deficienze” dello stato patrimoniale e del conto economico, precludendo, in alcuni casi, la dichiarazione di invalidità (nullità) della delibera di approvazione del bilancio. Più compiutamente, non potendo qui affrontare in maniera più esauriente queste riflessioni, nel processo di lettura del bilancio d’esercizio la nota integrativa appare specificamente utilizzabile nei momenti della conoscenza delle modalità di formazione dei valori di bilancio e della conoscenza delle operazioni che le singole poste di bilancio esprimono; nel primo giudizio, invece, sull’esistenza di complessive situazioni di equilibrio (patrimoniale, finanziario e reddituale) e nella c.d. “analisi reddituale” (più approfondita indagine sulla struttura patrimoniale, sul reddito e sulla redditività, sui flussi finanziari, condotta con appropriati strumenti di bilancio, orientata secondo le finalità che di volta in volta muovono l’analista), è l’intero strumento informativo del bilancio ad essere coinvolto.
La disciplina del bilancio si articola, ancora, su tre livelli:
Il primo livello è costituito dalla c.d. “clausole generali”: l’art. 2423 c.c. dispone, al 2° comma, che il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società ed il risultato economico dell’esercizio.[3] Il tutto nell’ottica e nella funzione del bilancio d’esercizio come strumento di comunicazione e conoscenza, come sopra si rimarcava, e che riflette non solo l’andamento periodico della società ma che offre anche, all’esterno, l’immagine, la serietà e la reputazione della società stessa. Il principio di chiarezza, in particolare, trova sviluppo nelle norme che regolano la struttura ed il contenuto del bilancio; quello di verità e correttezza nelle norme che fissano i criteri legali di valutazione dei diversi cespiti patrimoniali.[4]
Il secondo livello è enunciato dall’art. 2423-bis c.c., il quale introduce i “principi” che devono presiedere alla redazione del bilancio: la prudenza,, la continuità operativa, la competenza economica, la comparabilità. In breve:
Il principio della prudenza si sostanzia in una imposizione di comportamento da parte del legislatore affinché gli amministratori determinino con cautela il risultato economico dell’esercizio: esso si estrinseca principalmente nella regola secondo la quale non si può procedere alla contabilizzazione di profitti non realizzati alla data di chiusura dell’esercizio (quelli presunti devono essere rinviati fino all’esercizio in cui si avrà il loro effettivo conseguimento), ed al tempo stesso le perdite, anche se non definitivamente realizzate presunte (rischi), devono risultare riflesse in bilancio[5]. Finalità primaria è, evidentemente, quella di tutelare l’integrità del capitale netto, di cui il risultato economico dell’esercizio costituisce l’ordinaria variazione.
Il principio della continuazione dell’attività esprime l’insieme delle circostanze della gestione d’azienda che costituiscono condizioni di esistenza dell’azienda tradizionalmente definita come istituto economico destinato a perdurare. La continuità operativa, in stretta connessione col principio della prudenza, definisce, in sostanza, l’unitarietà della gestione aziendale nel tempo: gli elementi attivi e passivi del capitale vanno valutati secondo l’ipotesi dell’impresa in funzionamento, analizzata in un determinato istante. In particolare, ciò comporta che i criteri di valutazione non possono essere modificati da un esercizio all’altro, se non in casi eccezionali, e con l’obbligo degli amministratori di motivare la deroga nella nota integrativa e di illustrarne l’influenza (e ciò, si noti, proprio per un’evidente esigenza di chiarezza del bilancio).
Espresso incidentalmente e implicitamente in passato nell’art. 2425-bis c.c., ma tuttavia presente nei principi contabili internazionali, internazionali e condiviso dalla dottrina ragionieristica, il principio della competenza economica (tradizionalmente contrapposto a quello di cassa) richiede che nella redazione del bilancio si debba tener conto delle entrate e delle uscite di competenza dell’esercizio indipendentemente dalla data dell’incasso o del pagamento, nonché dei rischi e delle perdite di competenza dell’esercizio, anche se conosciuti dopo la chiusura dello stesso ma prima della redazione del bilancio.
Infine, il principio della comparabilità dei criteri di valutazione realizza l’esigenza dell’unitarietà della gestione, di cui si diceva a proposito della continuità operativa. Esso presuppone la costanza di applicazione nel tempo dei criteri di esposizione dei valori in bilancio e dei criteri di valutazione delle attività e delle passività, allo scopo evidente di evitare che, attraverso il loro mutamento, si possano generare fenomeni di occultamento degli effettivi risultati conseguiti. Questo principio, tuttavia, non è inderogabile in assoluto, essendo prevista (art. 2423-bis, 2° co) la possibilità, in casi eccezionali la cui natura deve essere necessariamente individuata, la possibilità di modificare in un esercizio i criteri valutativi seguiti nel precedente esercizio individuando, pertanto, la differenza di criterio e la conseguente influenza sulla rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria e del risultato economico.
L’ultimo livello, assai particolareggiato, è costituito dalle norme che disciplinano la struttura dei prospetti contabili (stato patrimoniale, artt. 2424 e 2424-bis c.c.; conto economico, artt. 2425 e 2425-bis c.c.;), i criteri di valutazione (art. 2426 c.c.), il contenuto della nota integrativa (art. 2427 c.c.) e della relazione sulla gestione (art. 2428 c.c.).

2) L’invalidità della delibera di approvazione del bilancio
Una volta approvato il bilancio, la sua invalidità può essere causata da irregolarità nei documenti che lo compongono, da irregolarità relative al procedimento di formazione o alla delibera assembleare di approvazione. Per fare valere tali irregolarità lo strumento è quello dell’impugnativa della delibera di approvazione del bilancio per chiederne la nullità o l’annullamento, secondo le regole ed il procedimento previsto per le impugnative delle delibere assembleari. Le cause più frequenti di invalidità del bilancio d’esercizio riguardano il suo contenuto, anche se è possibile che ve ne siano alcune concernenti il procedimento di formazione dello stesso (es. omesso deposito nella sede sociale), che in linea di massima ne comportano l’annullabilità e troverà quindi applicazione la disciplina dettata dagli artt. 2377 e 2378 c.c.; così come è possibile che causa d’invalidità del bilancio possa essere relativa alla delibera di approvazione del bilancio stesso in quanto atto dell’assemblea.
Se, dunque, nel sistema delineato dagli artt. 2377-2379 c.c. i vizi di procedimento – riguardino la delibera nel suo complesso o il singolo voto – danno vita sempre e soltanto all’annullabilità della delibera e non alla più grave sanzione della nullità[6], diverso discorso va fatto per i vizi relativi al contenuto della delibera. In relazione al contenuto, che più interessa in questa sede, il bilancio è irregolare se redatto in violazione dei principi di chiarezza, verità e correttezza in modo tale da non rappresentare la reale situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società (si parla, infatti, di bilancio “falso”). La dottrina prevalente è tradizionalmente a favore, in tal caso, della più rigorosa tesi della nullità della delibera di approvazione del bilancio[7], ritenendo che la delibera di approvazione di un bilancio non chiaro, veritiero e corretto abbia oggetto illecito, in quanto adottata in contrasto con norme imperative inderogabili dettate a tutela di un interesse generale. Si ricade, perciò, nell’ambito di applicazione dell’art. 2379 c.c.: la delibera è nulla[8] e la relativa azione potrà essere esercitata da chiunque vi abbia interesse e senza limiti di tempo[9].
Come per tutte le deliberazioni dell’assemblea, i soggetti che possono impugnare la delibera di approvazione del bilancio sono diversi a seconda che sia nulla o annullabile.
La nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata d’ufficio.
L’annullabilità può essere richiesta solo dai soggetti che abbiano un interesse concreto ad agire (ad es. soci assenti o dissenzienti, sindaci) e sempre che non abbiano contribuito alla formazione della delibera, entro tre mesi dalla stessa.
Va osservato che la previsione di un interesse concreto ed attuale ad agire (e non di un mero e generico interesse al rispetto della legalità), avvertita in particolar modo dalla giurisprudenza, gioca un ruolo importante anche nei casi di nullità della delibera che approvi un bilancio affetto da vizi di contenuto: da un lato per evitare sistematicamente che un bilancio, anche a distanza di anni, venga dichiarato nullo (travolgendo anche quelli successivamente approvati); dall’altro per porre un freno al proliferare di azioni pretestuose e di disturbo.
Secondo l’interpretazione attualmente maggioritaria, il socio ha interesse ad agire se l’invalidità del bilancio gli impedisce di conoscere chiaramente la reale situazione della società (Cass. 8/09/1999 n. 9524; Cass. 3/09/1996 n. 8048) o il valore della sua partecipazione (Cass. 30/03/1995 n. 3774), ovvero se il bilancio non è conforme ai principi di chiarezza e verità e correttezza, compromettendo effettivamente, così, la funzione informativa del bilancio, anche se non è detto che esista un pregiudizio per il patrimonio del ricorrente. L’interesse del socio (ma anche del terzo) è infatti quello di una corretta informazione sulla gestione sociale, che non coincide unicamente con la corretta evidenziazione del risultato di esercizio, ma anche con l’effettiva rappresentazione della situazione patrimoniale della società.
Si osservi, a completamento della disciplina esposta, che significative limitazioni all’impugnativa dei bilanci sono state introdotte dal legislatore per i soli bilanci delle società sottoposte a revisione contabile obbligatoria, per la cui disciplina si rimanda in primis all’art. 157 TUF. In particolare, quando la società di revisione ha espresso un giudizio sul bilancio di esercizio “senza rilievi” o anche “con rilievi” (ma non quando il giudizio è stato negativo o è stata rilasciata dichiarazione di impossibilità di rendere il giudizio), data la maggiore attendibilità del bilancio, la legittimazione all’impugnativa è circoscritta agli azionisti che rappresentano una determinata percentuale del capitale sociale. La relativa deliberazione può essere, infatti, impugnata “per mancata conformità del bilancio alle norme che ne disciplinano i criteri di redazione, da tanti soci che rappresentano almeno il 5% del capitale sociale” (art. 157, 1° co, TUF). La norma comprime vistosamente, proprio in relazione ai vizi di contenuto del bilancio (e non anche per quanto riguarda i vizi relativi al procedimento di formazione), il potere individuale di impugnazione degli azionisti, ponendo al riparo la società, il cui bilancio abbia superato positivamente (anche se con rilievi) il giudizio della società di revisione, da azioni (di nullità o annullabilità) promosse da sparute minoranze. Tuttavia non si trascuri che la stessa impugnativa può essere promossa dalla Consob (e dall’Isvap per le società assicurative), nel termine di sei mesi dal deposito del bilancio presso l’ufficio del registro delle imprese (art. 157, 2° co, TUF).

3) Vizi del bilancio d’esercizio e rilevanza penale del falso
Nella prospettiva di ricerca in cui si muove il presente lavoro, occorre accertare, a questo punto, se sussista o meno coincidenza tra l’area del falso civile – rilevante quale motivo di nullità della deliberazione assembleare di approvazione del bilancio – e le condotte di falsificazione che integrano l’elemento materiale del reato di false comunicazioni sociali (di cui all’art. 2621 n. 1 c.c. v.f.), pur con la modifica intervenuta nell’Aprile 2002 all’intero Titolo XI del Libro V del codice civile, concernente principalmente il reato c.d. di “falso in bilancio” (atteso che il bilancio d’esercizio, nell’ambito delle comunicazioni sociali, è certamente la più rilevante) .
3.1) Il principio di chiarezza
La portata della clausola generale di chiarezza può esprimersi con riferimento al dovere dei redattori del bilancio di fornire un’informazione il più possibile comprensibile dal lettore, e quindi ordinata, completa e non equivoca. La violazione del principio afferisce anzitutto alla distinzione funzionale dei documenti che compongono i conti annuali e, all’interno di ciascun documento contabile, abbraccia i profili di oscurità ed equivocità dei dati numerici in sé, le mere alterazioni dei gruppi di voci e di quello delle voci, come pure il mancato rispetto delle regole in materia di denominazione e giustificazione delle voci e dei conti in tutti i casi in cui gli schemi non siano predeterminati dal legislatore e sia consentito l’adattamento, la suddivisione e l’introduzione di voci nuove (cfr. art. 2423-ter, 2°, 3°, 4° e 5° comma c.c.).
In sostanza, chiarezza significa evidenza, trasparenza, intelligibilità delle strutture, analiticità delle voci, in misura adeguata alle esigenze di comprensione della composizione del patrimonio, dell’origine del risultato e delle ragioni per le quali una certa posta di bilancio ha acquistato la consistenza e la qualificazione che le sono state attribuite nel documento. Un bilancio poco chiaro eluderebbe la sua essenziale funzione informativa pregiudicando gli interessi tutelati dalla normativa in materia[10].
E’ soprattutto, poi, nelle modalità di redazione della nota integrativa che il principio di chiarezza trova la sua massima espressione: questa parte del bilancio, infatti, non è retta da “schemi rigidi”, e per essa si impone in modo particolare l’esigenza di una formulazione ordinata, facilmente comprensibile, inequivoca ed esauriente.
D’altro canto, la funzione esplicativa degli elementi in cifre contenuti nei prospetti contabili, che è propria della nota integrativa, consentiva in passato di sopperire ad eventuali difficoltà di comprensione delle indicazioni contenute nelle tavole dei conti. Qualora, infatti, nonostante l’alterazione delle regole di c.d. topica legale dell’informazione ovvero l’inadeguata od equivoca comunicazione dei valori nei prospetti contabili, l’accertamento in concreto in ordine alla veridicità e correttezza della rappresentazione non fosse stato precluso – giacché appunto le informazioni della nota integrativa comunque a disposizione consentivano di acquisire una sufficiente conoscenza della situazione reale della società e di controllare il rispetto sostanziale degli indicati principi – il difetto di chiarezza, ancorché eventualmente produttivo di conseguenze sul piano civilistico dell’invalidità della deliberazione assembleare, non era considerato rilevante secondo gli schemi propri del delitto di false comunicazioni sociali. La lesione del principio di chiarezza, quindi, tradizionalmente non rilevava, di per sé, agli effetti penali se non quale indice di una (probabile) connessa compromissione delle esigenze di veridicità e (soprattutto) di correttezza della rappresentazione contabile.
3.2) segue: il “nuovo ruolo” del principio di chiarezza
Sulla violazione del principio di chiarezza enunciato dall’art. 2423, comma secondo, c.c., si sono manifestati, in particolare, due contrapposti orientamenti.
a) una prima tesi, che per un certo periodo può considerarsi essere stata prevalente, propugnava, per giungere alla declaratoria di invalidità di una delibera di approvazione del bilancio, una sorta di supremazia del principio di verità del bilancio medesimo, o comunque, pur attribuendo rilevanza ai difetti di chiarezza, riteneva necessario ravvisare nella violazione di quest’ultimo principio una qualche compromissione del principio di verità, al quale la chiarezza era considerata funzionale[11]. Questo indirizzo muoveva dal rilievo che, alla luce della correlazione tra il principio di chiarezza e precisione dettato dall’art. 2423, 2° comma, c.c., e quello fondamentale di verità, preordinato alla tutela della pubblica fede, la violazione delle disposizioni relative alle modalità di redazione del bilancio (art. 2424 c.c.) rendesse nulla la delibera di approvazione soltanto quando risultassero in concreto pregiudicati gli interessi generali tutelati dalla norma, e non anche quando l’incidenza su di essi fosse stata insignificante o trascurabile. Si è poi puntualizzato che il principio di verità del bilancio, fondamentale al punto di veder sanzionata penalmente la sua violazione, sarebbe posto a tutela non solo dell’interesse dei soci ad essere correttamente informati della situazione economico-patrimoniale della società al termine dei ciascun esercizio, ma anche dell’interesse generale dello Stato alla realizzazione di un più compiuto controllo sull’attività delle società per azioni ed alla regolarità della loro gestione in vista del conseguimento dello scopo economico-pratico del contratto sociale. Sicché doveva escludersi che l’inosservanza della regola-principio di chiarezza valesse a produrre la nullità della delibera di approvazione del bilancio anche nei casi in cui risultasse soddisfatta l’esigenza di verità, o quando si trattasse di violazione meramente formale ed apparente delle disposizioni che disciplinano il contenuto del bilancio, pur riconoscendosi la natura imperativa delle norme a tal fine dettate dal codice civile. In definitiva, secondo questo orientamento un tempo prevalente, solo un bilancio non veritiero (per tale intendendosi quello in cui venga alterata sostanzialmente, mediante valutazioni artificiose e false, la reale situazione patrimoniale della società, con conseguente lesioni degli interessi generali tutelati dalla legge) può determinare la nullità della delibera di approvazione, non anche “un semplice vizio di calcolo e di valutazione in cui si sia incorsi nella valutazione di bilancio”[12].
b) una seconda tesi, che ha ormai preso il sopravvento su quella precedentemente esposta, a seguito soprattutto della pronuncia n. 27 del 21/02/2000 delle SS UU della Cassazione Civile, nega che la rilevanza del precetto di chiarezza debba restare subordinata al rispetto di un sovraordinato principio di verità del bilancio, prendendo posizione a favore dell’autonomia del precetto di chiarezza[13]. Secondo tale indirizzo, il bilancio d’esercizio di una società di capitali è illecito non soltanto quando la violazione della normativa al riguardo determini una divaricazione tra il risultato effettivo dell’esercizio ( o il dato destinato alla rappresentazione complessiva del valore patrimoniale della società) e quello del quale il bilancio dà contezza, ma anche in tutti i casi in cui “dal bilancio stesso e dai relativi allegati non sia possibile desumere l’intera gamma delle informazioni che la legge vuole invece siano fornite con riguardo alle singole poste di cui è richiesta l’iscrizione”. L’orientamento in esame ha il merito, a parere di chi scrive, di aver posto l’accento sull’essenzialità della funzione informativa del bilancio, da cui si è non a caso partiti in questa trattazione, ravvisandone l’illiceità dello stesso ogni qual volta la violazione dei precetti inderogabili di legge, che presiedono alla sua formazione, non permetta di percepire con chiarezza sufficiente le specifiche informazioni, che la lettura del documento e dei suoi allegati deve invece offrire con riguardo a ciascuna delle poste da cui il bilancio è formato.
Il principio di chiarezza non resta subordinato, dunque, al principio di verità, in quanto un bilancio non idoneo a fornire informazioni sufficientemente leggibili non può essere considerato valido sol perché, in ultima analisi, i dati in esso riportati non risultino, nella loro espressione contabile, contrari al vero! Una tale opinione sarebbe, invero, manifestamente insostenibile dopo la formale recezione, nell’ordinamento italiano, con l’emanazione del d. lgs. n. 127/1991, dei dettami della IV Direttiva Cee in materia di società, palesemente ispirati alla massima valorizzazione del cosiddetto principio di trasparenza del bilancio; tanto meno, si osservi, appare condivisibile alla stregua della normativa pregressa, alla cui interpretazione non possono restare estranei i principi da tempo enunciati dalla stessa IV Direttiva (emanata nel Luglio 1978). Infatti, se è vero che le direttive comunitarie, prima del loro formale recepimento, non sono suscettibili di diretta applicazione nei rapporti tra privati, è altresì vero che il giudice “quando applica disposizioni di diritto nazionale, tanto precedenti quanto successive alla direttiva, ha l’obbligo di interpretarle quanto più è possibile alla luce dello scopo e della lettera della direttiva”[14]. Del resto, il vecchio testo dell’art. 2423 c.c., poneva il principio di chiarezza sullo stesso piano di quello di precisione, senza suggerire alcuna graduatoria di importanza e senza subordinare il rispetto del primo a quello del secondo o a qualsiasi altro precetto[15].
La recente sentenza n. 27/2000 delle SS UU della Cassazione ha sostenuto ed avvalorato l’orientamento appena esposto, respingendo fermamente l’indirizzo che, movendo da un preteso rapporto di strumentalità tra il principio di chiarezza e quello di verità, subordina il primo al secondo. Al contrario, la violazione delle disposizioni relative alle modalità di redazione del bilancio rende nulla la delibera di approvazione quando risultino in concreto pregiudicati gli interessi generali tutelati dalla norma: il ché può avvenire sia per violazione del principio di chiarezza che di quello di verità! Da nessuna norma è possibile desumere una sorta di supremazia del principio di verità su quello di chiarezza, supremazia esclusa proprio dall’analisi del sistema normativo. In definitiva, il bilancio di esercizio di una società di capitali, che violi i precetti di chiarezza, verità e correttezza dettati dal codice civile è illecito, ed è quindi nulla la deliberazione assembleare con cui esso sia stato approvato: non soltanto quando la violazione della normativa in materia determini una divaricazione tra il risultato effettivo dell’esercizio e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati non sia possibile desumere l’intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte.
3.3) I principi di veridicità e correttezza
La clausola generale della veridicità impone ai redattori del bilancio di rappresentare al lettore la reale situazione patrimoniale e finanziaria nonché l’efficienza economica della società, ricercando anzitutto l’intrinseco ed oggettivo valore attribuibile ai componenti patrimoniali con riferimento a criteri tecnicamente corretti. L’ulteriore principio della correttezza, oltre e integrare il primo, attiene alle modalità di espressione dei valori stessi, i quali devono essere esposti nelle tavole di bilancio fedelmente e senza fuorvianza.
I due termini veritiero e corretto esprimono, in verità, una formula unitaria non agevolmente scindibile, anche agli effetti della nostra indagine. La locuzione “fatti non rispondenti al vero” che ritroviamo nella struttura del reato di false comunicazioni sociali (oggi come ieri) non può essere colta, quanto al bilancio di esercizio, in tutte le sue implicazioni ove la si riconnetta al solo principio di veridicità della rappresentazione contabile. Invero, l’espressione “fatti non rispondenti al vero” del reato in questione va riferita in primo luogo agli accadimenti certi della realtà obiettiva, in ordine ai quali è possibile formulare un sicuro giudizio di non rispondenza al vero, sia che si tratti di beni individuati nella loro materialità sia che si tratti di valori determinati (es. gli utili conseguiti, le perdite sofferte): in simili casi l’inesatta riproduzione nei documenti contabili del dato storico, oggettivamente rilevabile, come pure l’esposizione di un componente patrimoniale inesistente o il mascheramento della reale consistenza dell’operazione, integra inevitabilmente la falsità, rilevante secondo gli schemi penalistici e come motivo di impugnativa in sede civile della deliberazione assembleare, così che il richiamo al (violato) dovere di veridicità – in assenza di giudizi valutativi – è sufficiente ad esaurire il disvalore del fatto.
Qualora, invece, si tratti di valori stimati o congetturati è il rispetto del principio di correttezza, che nella specie integra quello di veridicità nel senso indicato, ad assumere rilievo decisivo ai fini del giudizio ai fini del giudizio in ordine alla “rispondenza al vero” o meno del fatto-valutazione.
3.4)Le valutazioni
Giova evidenziare, ai fini della ricerca proposta sulla corrispondenza tra l’area del falso civile e quello penale, che dal punto di vista civilistico deve considerarsi falso non solo il bilancio “non vero” nei dati storici, ma anche quello contenente valutazioni non corrette, o non correttamente esposte, giacché in tal caso ne risulta alterato il quadro di “verità legale” che la normativa sul bilancio ha inteso tracciare, con grave nocumento per il lettore che può rimanere fuorviato o ingannato dalla (falsa) rappresentazione. La giurisprudenza non ha mai cessato di sottolineare la rilevanza delle valutazioni ai fini della configurazione del reato in esame, temperando semmai la rigidità del principio col ricorso al canone della “ragionevolezza”. Costituisce, invero, affermazione ricorrente in giurisprudenza che le eccessive, abnormi valutazioni e sottovalutazioni si risolvono, rispettivamente, nell’enunciazione di attività inesistenti ovvero in un occultamento di quelle effettivamente esistenti, integrando in entrambi i casi l’elemento materiale del reato de quo.
Nell’attuale disciplina, e con riferimento ai valori stimati e/o congetturati, la clausola generale della correttezza specifica la sua portata soprattutto nel richiamo ai “criteri di valutazione” di cui all’art. 2426 c.c.: in sostanza, è la tendenziale conformità dei valori stimati e/o congetturati ai “criteri di valutazione” normativamente stabiliti – filtrata attraverso i principi di redazione e in particolare quello di prudenza (art. 2423-bis n. 1 c.c.) – a costituire il banco di prova della correttezza e quindi della verità delle valutazioni di bilancio. E’ fatta salva, per altro, la deroga (obbligatoria, cfr. artt. 2423, u.c., c.c.) ai criteri di valutazione fissati nell’art. 2426 c.c. qualora, in casi eccezionali, sia imposta dalla necessità di fornire una rappresentazione veritiera e corretta.

4) Il ruolo della nota integrativa
La definizione della nota integrativa come parte integrante del bilancio contribuisce anzitutto al rafforzamento del principio di chiarezza, che proprio nel documento esplica la sua massima portata. Inoltre, l’incremento del numero delle informazioni richieste attraverso la nota integrativa – rispetto al precedente sistema – ha ampliato il numero delle ipotesi di falsità astrattamente configurabile. In particolare, l’accento va posto sul tema della rilevanza penalistica dei rapporti tra i criteri annunciati nella nota integrativa e le risultanze dei prospetti contabili. Queste premesse devono portare in particolare a verificare:
se qualunque difformità tra i criteri di valutazione enunciati nella nota integrativa ed i corrispondenti elementi espressi in cifre nei prospetti contabili determini falsità penalmente rilevanti;
se tale corrispondenza via sia, accertare se possa ravvisarsi comunque una falsità relativa ad esposizione di fatti non rispondenti al vero oppure nascondimento di fatti veri qualora si configurino elementi evidenti di difformità dalla realtà obiettiva e quindi scelte inadeguate o addirittura abnormi.
Riguardo al primo profilo, deve rammentarsi che in passato, qualora le divergenze non fossero tali da compromettere effettivamente la comprensibilità della situazione reale così che risultasse in concreto salvaguardato l’obiettivo della rappresentazione veritiera (a scapito eventualmente dell’esigenza di chiarezza), il fatto era considerato irrilevante agli effetti penali, per esclusione dell’idoneità decettiva della condotta, prima ancora dell’indagine sull’elemento psicologico dell’illecito. La stessa giurisprudenza prevalente (almeno fino alla sentenza n. 27/2000 delle SS UU Cass) riteneva che fosse la sostanziale violazione del principio di veridicità a costituire il (solo) motivo di nullità della delibera di approvazione del bilancio.
Riguardo al secondo punto, si osservi soltanto, per esigenze di brevità nella presente trattazione, che è viziato il bilancio nel quale, pur nella formale corrispondenza tra enunciati della nota integrativa e tavole di bilancio, la rappresentazione della realtà aziendale è fuorviante ed i criteri illustrati (o la deroga motivata) nella nota integrativa sono inadeguati, se non del tutto arbitrari ed assurdi, ovvero vi sia stato nascondimento di circostanze rilevanti che avrebbero imposto scelte alternative.
Una simile falsità non rileva solo ai fini civilistici, ma anche sotto il profilo penale, fatta salva, poi, l’indagine sull’elemento psicologico.[16]

5) Riflessioni conclusive
Tutte le considerazioni appena svolte assumono una particolare rilevanza nel parallelismo, cui si accennava in principio paragrafo, tra “falso civile” (invalidità-nullità della delibera di approvazione del bilancio) e “falso penale” (reato di “falso in bilancio”). Un parallelismo fondamentale e spesso trascurato dalla dottrina, oggi più che mai attuale per la riconosciuta autonomia e “dignità” del principio di chiarezza, da un lato, e a seguito delle modifiche dell’intero titolo XI del libro V del codice civile (d. lgs. n. 61/2002) dall’altro.
Invero, se nullità della delibera di approvazione del bilancio significa essenzialmente che essa ha contenuto illecito perché il bilancio è stato redatto in violazione dei principi di chiarezza, verità e correttezza, è pur vero il reato di false comunicazioni sociali (sostanzialmente oggi come ieri) è integrato proprio da condotte che quei principi mirano ad aggirare, o comunque non soddisfare (se pure non direttamente). Si è visto come vi sia ( e vi sia stata) sostanziale coincidenza tra area del falso civile e area del falso penale laddove si verifichi una violazione dei principi di verità e correttezza. Diverso il discorso per il principio di chiarezza che, non avendo in passato trovato la “giusta” dignità ed autonomia a fianco del principi di precisione, prima, e di verità e correttezza, poi, spesso non assumeva rilevanza già in sede civile laddove una rappresentazione veritiera (soprattutto) e corretta dell’informazione patrimoniale, contabile (e poi anche finanziaria) contenuta nel bilancio fosse stata comunque soddisfatta. Se il “nuovo ruolo” del principio di chiarezza oggi s’impone all’attenzione dei giudici e della dottrina civilistica, ponendosi sullo stesso piano dei principi di verità e correttezza, sicuramente questo atteso “mutamento” s’imporrà all’attenzione del giudice penale. Tuttavia, il vero problema che si porrà (e comincia già a porsi) non sarà quello di una più o meno coincidenza tra aree del falso civile e penale, a seguito della sentenza delle SS UU della Cass. N. 27/2000, quanto più specificamente l’incidenza nell’ambito del falso penale delle modifiche apportate alle disposizioni penali in materia di società e consorzi contenute nel codice civile (su cui, più estesamente, Sez. II del presente lavoro).

Note:
[1] E’ proprio la nuova normativa a prevedere, tra i primi aspetti degni di nota, che il bilancio d’esercizio sia documento destinato a rappresentare non solo, come già in passato, la situazione patrimoniale ed il risultato economico, ma anche la situazione finanziaria della società (art. 2423, 2° comma, c.c.), vale a dire la composizione qualitativa e quantitativa delle attività finanziarie (crediti, partecipazioni, titoli) e dell’esposizione debitoria: un ampliamento di funzione che si riverbera, significativamente, nell’articolazione della struttura e del contenuto del bilancio.
[2] Si osservi come nella nota integrativa sia trasmigrato in buona parte il contenuto della vecchia relazione degli amministratori, la quale veniva configurata come “corredo” del bilancio (art. 2423, u.c., c.c., v.f.)
[3] Rispetto al previgente sistema permane, dunque, il principio di chiarezza mentre quello di precisione è stato sostituito dall’endiade “rappresentazione veritiera e corretta”, che costituisce applicazione del principio del “quadro fedele” sancito nell’art. 2, co. 3, della Direttiva n. 78&770 Cee.
[4] Non v’è dubbio, oggi, sul fatto che chiarezza dell’informazione e rappresentazione veritiera e corretta della complessiva situazione costituiscano vere e proprie “clausole generali”, sovraordinate, che integrano e completano la relativa normativa di dettaglio. E’, infatti, espressamente stabilito che:
· è obbligatorio fornire le informazioni complementari necessarie, se quelle richieste da specifiche disposizioni di legge non sono sufficienti a dare una rappresentazione veritiera e corretta (art. 2423, 3° comma c.c.);
· le specifiche disposizioni di legge, comprese quelle che fissano criteri di valutazione, non devono essere applicate se, in casi eccezionali, la loro applicazione è incompatibile con la rappresentazione veritiera e corretta. Gli amministratori sono tenuti a motivare le deroghe nella nota integrativa e ad indicarne l’influenza sulla rappresentazione della situazione patrimoniale, finanziaria e del risultato economico (art. 2423, 4° co. c.c.).
E’ perciò fuor di dubbio, oggi, che il pedissequo rispetto formale delle disposizioni specifiche non implica senz’altro che il bilancio sia chiaro, veritiero e corretto e che la relativa deliberazione di approvazione sia immune da vizi sotto tale profilo.
Queste osservazioni assumono particolare significato, nell’evoluzione “storica” ed “economica” del bilancio. Il legislatore, nel corso del tempo, ha, infatti, preso sempre più consapevolezza del pericolo di una forte discrezionalità lasciata agli amministratori, redattori del bilancio, che consentiva, in passato, largo spazio alle “politiche di bilancio”, che venivano di volta in volta modificate rispetto ai fini che si volevano raggiungere (es., fare emergere o no determinati utili o perdite). Il problema che si pone è, in particolar modo, quello del rapporto tra clausole generali e norme di dettaglio. Il codice del 1942 ha introdotto norme di dettaglio accanto a quelle generali, ma la dottrina prevalente ha sempre ritenuto che il rispetto delle prime (di dettaglio) realizzasse comunque il rispetto delle seconde (generali). In questo modo si è favorita la formazione di riserve occulte, anche perché l’art. 2426 c.c. fissava criteri massimi di valutazione: si poteva, così, ridurre l’attivo, quindi il netto patrimoniale, creando “fondi neri”, cioè valori non evidenziati in bilancio. Si diceva, a fronte di questa situazione, che l’art. 2426 dettava criteri massimi di valutazione per tutelare i terzi creditori (pur pregiudicando i soci!); in quel momento storico era molto avvertita l’esigenza di autofinanziamento dell’impresa, per cui sottrarre dei valori alla disponibilità dei soci era considerata ragione “opportuna”, si forniva, in sostanza, una giustificazione etico-economica. Oggi, naturalmente, è una prassi illegittima, penalmente sanzionata; l’interesse dei soci è più rilevante, e a tutela dei soci deve essere intesa primariamente la clausola di chiarezza come quelle di veridicità e correttezza; e, infine, deve essere correttamente inteso, come si è visto nel testo, il rapporto tra clausole generali e norme di dettaglio.

[5] C.d. “principio di asimmetria negativa delle stime”, cfr. A. Agostinone, “Questioni di principio”, in Amministrazione e Finanza, n. 24/1991.
[6] Ciò comporta, ad es., che l’invalidità del singolo voto – dipenda da una causa di nullità o annullabilità dello stesso – determinerà annullabilità della delibera solo quando, sottratti i voti dichiarati nulli o annullati, la delibera non è più sorretta dalla necessaria maggioranza: c.d. “prova di resistenza”. Tanto si desume, fra l’altro, dalla disciplina del conflitto di interessi (art. 2373, 2° co, c.c.).
[7] Una recente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite (Cass. S.U. 21 Febbraio 2000, n. 27) ha sposato la tesi sostenuta dalla maggior parte della dottrina secondo la quale è nullo il bilancio che viola uno qualsiasi dei principi di verità, correttezza e chiarezza, dirimendo così il contrasto esistente in giurisprudenza, ove si sosteneva, in particolare, che il bilancio fosse nullo quando violasse il principio di verità.
[8] Atteso che la nullità è espressamente sancita per le delibere aventi oggetto impossibile o illecito, la delibera è certamente nulla quando la materia (leggi: oggetto) del deliberato è in sé impossibile o contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (ad es. si delibera di non redigere il bilancio di esercizio, di sopprimere il collegio sindacale, di emettere azioni a voto plurimo). Tuttavia, è opinione ormai consolidata e diffusa che si abbia nullità anche quando la delibera abbia oggetto lecito ma contenuto illecito (es. l’assemblea approva un bilancio falso o redatto violando i principi di chiarezza, verità e correttezza): in tal caso, l’oggetto della delibera (approvazione del bilancio) è lecito, ma il suo contenuto (bilancio “falso”) è illecito.
[9] Tra le pronunce più significative orientate nel senso della nullità:
· violazione dei principi di chiarezza e correttezza: Cass. SU 21/02/2002 n. 27; Cass. 8/09/1999 n. 9524.
· violazione dei principi di chiarezza, verità e precisione tali da determinare l’impossibilità di conoscere la reale situazione della società: Cass. 8/08/1997 n. 7398; Cass. 28/04/1997 n. 3652.
· Mancanza delle informazioni richieste dalla legge con riguardo alle singole poste di cui è richiesta l’iscrizione in bilancio: Cass. 3/09/1996 n. 8048.
· Attribuzione di valori irragionevoli agli elementi di bilancio: Cass. 18/03/1986 n. 1839; Cass. 29/03/1979 n. 1813.
Tra le pronunce più significative orientate nel senso della annullabilità:
· Mancato deposito presso la sede sociale del progetto di bilancio, ovvero impossibilità della consultazione da parte dei soci: Cass. 11/05/1998, n. 4734.
· Mancato deposito nei termini della relazione dei sindaci: Cass. 2/12/1998 n. 12208;
· Violazione dei principi di chiarezza e correttezza: Cass. 25/05/1994 n. 5097; Cass. 23/03/1993 n. 3458.
Relazione del collegio sindacale emessa con il contributo di componenti ineleggibili: Trib. Monza 16/02/1993.
[10] A tal proposito v. Cass SS UU n. 27/2000, su cui, più estesamente, infra.
[11] Tra le tante, Cass. 9/02/1979, n. 906; 16/12/1982, n. 6942; 27/02/1985, n. 1699; 18/03/1986, n. 1839; 23/03/1993, n. 3458; 25/05/1994, n. 5097; 22/07/1994, n. 6834; 2/10/1995, n. 10348).
[12] V. a tal proposito la motivazione della sentenza Cass. N. 906/1979 e la giurisprudenza ivi richiamata.
[13] In tal senso, Cass. 14/03/1992, n. 3132; 30/03/1995, n. 3774; 3/09/1996, n. 8048; 8/08/1997, n. 7398.
[14] Corte di Giust., 14/07/1994, causa n. 91-94.
[15] L’opposta opinione, per altro, non tiene presente le ulteriori disposizioni, come quelle dirette a disciplinare il contenuto della relazione degli amministratori, che testimoniano la massima importanza attribuita dal legislatore alla chiarezza delle singole informazioni che debbono essere garantite ai destinatari del bilancio; rischiando, così, di tradire la stessa ragion d’essere delle norme in esame, essendo di tutta evidenza che la mancanza di chiarezza nelle singole poste in cui il bilancio si articola fatalmente compromette quella funzione informativa (anche all’esterno della compagine sociale) che si è già visto essere uno degli scopi principali perseguiti dal legislatore nel disciplinare il profilo contabile del diritto societario (v., in particolare, Cass. N. 8048/1996).
[16] vedi, su questo e gli altri aspetti del reato di false comunicazioni sociali, la sezione seguente.

Redazione

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento