AVVOCATI, PERCHE’ ASSOCIARSI?

Redazione 07/12/04
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di D. Rusconi
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Dalla penna d’oca al computer, dal volume di giurisprudenza ad internet…..
Vorrei iniziare questo articolo chiedendo subito scusa per il taglio semiserio che darò all’argomento; spero che la leggerezza della forma non distolga i lettori dalla riflessione che vi è sottesa.
E dunque, il mondo della tecnologia è entrato, a volte a viva forza, nella realtà forense di tutti i giorni, anche se non ancora in quella di tutti i colleghi. Di pari passo e conseguentemente, si è moltiplicata esponenzialmente la velocità delle comunicazioni, dell’informazione e nello specifico, dell’informazione giuridica.
Dirò di più, attualmente noi avvocati siamo assediati dalla mole di informazioni e notizie che quotidianamente si riversa nei nostri studi attraverso fax, posta, internet. E’ indubbiamente un bene che venti anni di giurisprudenza commentata stiano tutti all’interno di un cd-rom, ma volete mettere la bella figura che faceva, in alto fra gli scaffali, una innumerevole serie di tomi di 3 kg. cadauno, che raccoglieva un bel po’ di sana polvere di studio legale, metafora della immutabilità dello Jus?
E che dire della velocità con la quale il beneamato Legislatore si inventa una riforma ed un testo unico per anno? E’ una vera competizione estrema per quello sventurato che cerca di tenersi aggiornato, non dico in ogni settore del diritto, ma mettiamo nel solo diritto tributario, o nel bistrattato civile.
Così, date le premesse, la società si attende ora e giustamente, che alla velocità dell’input di informazioni (mi si perdoni il paragone informatico) segua altrettanta solerzia nell’output, ossia nella risposta fornita dal legale alle innumerevoli questioni postegli.
Errore. Si, perchè pur di fronte a tanti sconvolgimenti e rivoluzioni pseudo-copernicane il baricentro immobile della realtà forense resta lui: l’avvocato tuttologo.
L’avvocato tuttologo: splendori e declino.
A chi mi chieda una definizione di codesta specie dirò che si tratta della più antica e tuttora diffusa razza di avvocati, almeno nel Nostro Mezzogiorno. Coraggioso, molto spesso preparato, l’avvocato tuttologo è un individualista per natura. Ha molta fiducia nelle proprie capacità professionali e nessuna, o quasi, in quelle altrui.
Per conseguenza, qualsiasi questione deve essere gestita e seguita da lui personalmente, che studierà la pratica coscienziosamente e fornirà il parere al cliente o agirà in giudizio, secondo il suo prudente apprezzamento. Questo tipo di avvocato segue indifferentemente pratiche penali e questioni matrimoniali, esecuzioni e locazioni e cause di lavoro. Restano escluse, forse, solo le intricate questioni tributarie e quelle di diritto amministrativo.
Tutto molto bello, ma c’è un MA. IL TEMPO.
Il lasso di tempo necessario per lo studio di una qualsiasi causa è aumentato di pari passo alla velocità di legiferazione del Parlamento. Oggi lo studio di ogni nuova pratica richiede almeno una settimana, se la questione giuridica dibattuta non è completamente sconosciuta. Né si può pensare di non aggiornarsi, pena la possibilità di commettere errori gravi e perdere occasioni importanti.
Non si pensi che il tempo che ho indicato sia modesto perchè, e i colleghi lo sanno, dedicare una intera settimana ad ogni nuova pratica non è cosa semplice. Ci sono infatti le attività di udienza, indefettibili, gli appuntamenti con i clienti, le incombenze piccole e grandi necessarie alla sopravvivenza di qualsiasi studio legale.
E così quella iniziale settimana è destinata ad allungarsi, inevitabilmente, fino a quando l’avvocato tuttologo non sarà sicuro di aver verificato tutti i termini della questione. Nel frattempo il cliente, fiducioso, attenderà anche se non comprende bene a cosa serve tutta quella “perdita di tempo”.
Non che questa sia l’unica difficoltà che incontra il nostro. Faccio un esempio. Qualche giorno fa mi è capitato di ascoltare una conversazione fra due colleghi dei quali uno si lamentava della impossibilità di seguire due udienze fissate lo stesso giorno dinanzi a due diverse sezioni distaccate di Tribunale. Facile, direte voi, si trova un sostituto o si invia l’onnipresente e bendisposto praticante che farà le veci del più titolato collega.
Certo. Ma quanta fatica e apprensione per le sorti della causa e, mi si consenta, a volte quanta approssimazione nella soluzione trovata.
Cosa è oggi un avvocato?
Dare una risposta a questa domanda non è semplice, anche perchè sono intervenuti mutamenti che incidono profondamente sul contenuto della nostra professione. Basti dire che alle forme di giurisdizione ordinaria si affiancano sempre più spesso le ipotesi di ADR (conciliazione, mediazione e arbitrato presso organi istituzionali, vedi Camere di Commercio) che richiedono, oltre alla normale conoscenza della pratica anche doti ulteriori e alte capacità di relazionarsi col prossimo.
Non solo, perchè alla tendenziale polverizzazione delle pratiche, sparse omogeneamente fra tutti i ceti sociali, fa sempre più spesso seguito una concentrazione di questioni che riguardano, se pur sotto diversi profili, uno stesso soggetto cliente, spesso azienda. E’ vero infatti che le neonate imprese del nostro sud si trovano ad avere bisogno di consulenza qualificata e diversificata nei più disparati settori della conoscenza giuridica e non solo di questa.
Come attingere ai finanziamenti statali ed europei? Come risolvere quelle crisi di liquidità che prima o poi si trova di fronte qualsiasi impresa, senza che ciò si tramuti in evento patologico? Come gestire convenientemente e tuttavia in maniera legale i rapporti con i collaboratori, dipendenti, fornitori, banche?
La stessa cosa accade per i colleghi “matrimonialisti”, che hanno tutta la mia ammirazione, che si trovano a gestire situazioni molto spesso altamente conflittuali e che richiedono l’intervento, in collaborazione sincronica, dei centri di mediazione familiare per fornire un aiuto anche psicologico ai soggetti in crisi.
Idem per i tributaristi, i penalisti e gli amministrativisti anche se, devo dire, la linea di confine tra queste due ultime categorie e quella dei civilisti è già marcata.
Ed allora cosa fare, se agli avvocati oggi la società sempre più spesso chiede conoscenze specifiche, capacità relazionali elevate, possibilità di collaborare con professionisti di altri settori per fornire un servizio “qualificato”?
Davide e Golia, ovvero, Gulliver e i lillipuziani: gli avvocati italiani alle prese con i loro colleghi d’oltreoceano.
Per avere un’idea di quale sia la tendenza in atto basta guardarsi un po’ attorno. L’intramontabile esempio è il modello statunitense, con studi con centinaia di avvocati e letteralmente milioni di $ di fatturato annuo. Tuttavia non è necessario spostarsi oltreoceano per rendersi conto che il cambiamento è più vicino di quanto pensassimo.
La vecchia Europa, tradizionalmente patria del diritto di civil law, accoglie con sguardo benevolo l’incursione dei colleghi americani, che aprono filiali ( sic!) dei propri studi in Olanda, Germania, Francia e si, anche in Italia.
Recentemente ho assistito ad un convegno ove si è dibattuto proprio dell’associazionismo. Di fronte ad una buona rappresentanta del ceto forense locale si sono alternati gli oratori, tra i quali un conterraneo collega che si è trasferito all’estero e tuttora lavora per la sede europea di un grande studio legale americano, che conta nel mondo migliaia tra soci, associati e dipendenti.
All’uditorio smarrito nei grandi numeri il collega, per la verità un po’ imbarazzato, ha confessato che lui in Tribunale, nella città ove lavora, non c’è mai andato, semplicemente perchè è un’altra sezione dello studio legale ad occuparsi del contenzioso e delle cause.
Vi lascio immaginare il seguito.
Ebbene, cosa concretamente possiamo fare noi?
La risposta è semplice. Almeno a parole. ORGANIZZARSI
Una bestia sconosciuta: l’associazionismo.
Non vi sono modelli da importare tou-court, proprio perchè l’esperienza forense italiana, come quella di ciascuna nazione, dipende dai modelli storici e culturali che si sono affermati in quest’ultima, dal livello di evoluzione della società ecc..
Tuttavia, è possibilile segnalare alcuni elementi essenziali:
La prima incombenza sarà quella di cercare dei colleghi con i quali dividere responsabilità e incarichi. E’ auspicabile che nella nuova organizzazione vi siano professionalità diverse che coprano ogni ramo del diritto es.: l’avvocato giuslavorista, l’amministrativista, chi si occupa del civile, del commerciale, del penale ecc..
Non riterrei necessario contattare solo coloro i quali si conosce da molto tempo e dei quali ci si fida ciecamente, posto che un’organizzazione di lavoro si fonda su regole ben precise, che possono prevedere anche sanzioni per la loro violazione. Ritengo indispensabile, invece, valutare preliminarmente le capacità ed i titoli dei soggetti con i quali si vorrebbe associarsi, per garantire ai clienti un adeguato livello di preparazione da parte di tutti i componenti dell’associazione;
Una delle prime mosse dovrà essere prevedere la forma che dovrà rivestire “l’associazione” e statuire le regole della stessa. Oggi è possibile avvalersi della normativa sulle associazioni professionali, ma chi voglia iniziare, secondo me, può semplicemente aprire uno studio associato. Quello che conta di più è stabilire una serie di regole, scritte, che disciplinino esattamente i compiti di ciascuno, le responsabilità e la partecipazione agli “utili”, prevedendo anche sanzioni economiche per la violazione dei doveri che comportino un danno per l’associazione.
Questo mi sembra un punto fondamentale. Solo attraverso la creazione ed il rispetto di regole condivise ciascuno dei partecipanti si sentirà garantito dalle stesse e sarà spinto a collaborare al meglio.
Bisognerà fare in modo che il cliente comprenda il valore aggiunto costitutito da molteplicità di professionalità aggregate. E per far ciò sarà necessario che l’avvocato per primo impari a delegare al collega di studio la risoluzione della questione sorta nel campo in quest’ultimo ha una preparazione specifica.
Considerazioni di breve, medio e lungo periodo.
Attualmente il dibattito sull’associazionismo è ancora agli albori in Italia. La diffidenza e la volontà di non condividere alcunchè sono i fattori predominanti, anche se nei discorsi sul tema di solito vengono mascherate da pretesti come le difficoltà tecniche, le esperienze di collaborazione fallite, il diverso apporto di clienti di ciascun professionista.
<< A proposito di quest’ultimo aspetto ritengo necessario aprire una parentesi. Associarsi non significa “mettere in comune” il patrimonio di clienti di uno studio, bensì condividere e sfruttare al meglio il PATRIMONIO DI CAPACITA’ E PROFESSIONALITA’ di ciascun associato. L’obiettivo è CREARE QUALCOSA CHE SUPERA E VA OLTRE ciò che ogni singolo avvocato, da solo, potrebbe fare. Per questo motivo una disparità del “portafoglio clienti” non può costituire un ostacolo tale da far rinunciare ad un’opportunità di sviluppo, anche perchè i rimedi per ovviare a tale inconveniente sono molteplici (si pensi ad esempio alla previsione di una iniziale disparità nella ripartizione degli introiti).>>
Riconosco che chi sceglie di percorrere la strada dell’associazionismo, oggi, si trova a dover mettere in atto un modello di “convivenza e collaborazione professionale” a cui nessuna esperienza ci ha abituato. Vi potranno essere errori di valutazione, nella scelta delle regole e crisi di adattamento. Non mi nascondo, inoltre, che qualsiasi nuovo modello ha bisogno di un periodo di “rodaggio” durante il quale non è economicamente conveniente.
Tuttavia la realtà dell’Avvocatura Italiana è sotto gli occhi di tutti e così anche la tendenziale saturazione del mercato, la crescente difficoltà di farsi spazio, l’iperspecializzazione richiesta da molti settori del diritto.
Non credo che nei prossimi cinque o dieci anni si verificherà il pur temuto tracollo della professione. Ma ci sarà sempre meno spazio, minori occasioni, minori soluzioni. Potrei paragonare il momento che stiamo vivendo al passaggio storico cui ha fatto seguito la Rivoluzione Industriale. Ogni struttura, anche sociale, deve evolversi o cedere il posto ad altre che meglio interpretano i bisogni dei tempi.
E allora, concludendo, se i segni del malessere sono evidenti e se questa pur superficiale riflessione viene condivisa, la vera domanda cui bisogna rispondere è “perchè NON associarsi?”

Redazione

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