Autonomie territoriali e convezioni urbanistiche. Bilanciamento tra finalità convenzione e gravità inadempimento

Commento a sentenza del Consiglio di Stato del 5 dicembre 2019, n. 8328

Per dare attuazione  alla normativa costituzionale sul decentramento amministrativo il legislatore ha previsto degli strumenti attraverso i quali le autonomie territoriali potessero accrescere il loro potere decisionale e al contempo dare vita alla pianificazione territoriale.

Le autonomie territoriali godono infatti di una certa discrezionalità urbanistica, con la quale delineano gli spazi ed i modi per dare piena attuazione agli interessi pubblici nell’ambito del territorio di competenza. Uno degli strumenti utili a tale scopo è la convenzione urbanistica, che ha come oggetto la definizione di parte dell’assetto urbanistico del territorio, previo accordo bilaterale tra privato e P.A.

Tra gli enti preposti alla realizzazione di tali convenzioni vi sono i Comuni i quali si impegnano a raggiungere, attraverso le stesse, una finalità prettamente urbanistica: lo sviluppo armonico ed equilibrato dei centri abitati.

Essendo tipica espressione del decentramento ammininistrativo la discrezionalità urbanistica delle autonomie territoriali è regolata da leggi regionali, che per la loro stessa natura, anche trovando fondamento nel diritto nazionale, possono defferenziarsi da regione a regione. Le convenzioni sono destinate a disciplinare molteplici ambiti dell’assetto urbanistico del territorio, tra cui rientra anche la realizzazione degli edifici di culto.

Ciò di cui abbiamo sopra argomentato fa da cappello ad una questione su cui si è recentemente espresso il Consiglio di Stato e che ha ad oggetto la legislazione regionale lombarda sulle convenzioni urbanistiche necessarie per la realizzazione di nuovi luoghi di culto.

In Lombardia, la legge regionale che si occupa della disciplina appena citata è la 2/2005. Essa è stata oggetto di modifiche, ma nel suo originario disegno già prevedeva che le convenzioni fossero necessarie per la realizzazione dei nuovi luoghi di culto.

Dopo la modifica avvenuta nel 2015, si è aggiunto che, per le confessioni diverse da quella cattolica, le convenzioni avrebbero espressamente previsto la possibilità della «propria risoluzione o revoca in caso di accertamento da parte del comune di attività non previste nella convenzione»[1].

È proprio su questo inciso che giova operare un’attenta riflessione.

Bilanciamento tra gravità inadempimento e finalità convenzione

Or bene dalla lettura del testo normativo ex art. 70 comma 2-ter, se ne desume l’incontestabile possibilità dell’amministrazione, a fronte  del non rispetto dei termini e delle condizioni previste dalla convenzione da parte dell’ente privato, di attivarsi per la risoluzione o la revoca della convenzione. Tali rimedi però, come chiarito recentemente dalla Corte devono, con ogni evidenza, «essere considerati estremi ed attivarsi in assenza di alternative meno severe[2]».

Il  caso in questione ha per oggetto la contestazione di alcuni adempimenti ritenuti parte integrante della stipula di una convezione per la concessione del diritto di superficie per la realizzazione di edifici ed attrezzature destinati al culto e a servizi religiosi. Proprio per le citate finalità, suddetta convezione assume connotati particolari, e pur rispecchiando in linea generale i caratteri propri delle altre convenzioni, necessita di una lettura diversa che ben deve coinciliarsi con i diritti fondamentali previsti dalla Costituzione sul tema, in particolare agli artt. 8, 19 e 3 secondo comma.

La Corte si era già espressa sul tema con sentenza 63/2016, sentenza già richiamata in precedenza.

La Corte da un lato ha riconosciuto l’attinenza e l’importanza dell’art. 19 Cost. in materia di concessioni per finalità di esercizio di culto, al contempo ha sottolineato l’innegabile discrezionalità degli enti territoriali nel determinare le risorse di suolo e denaro da destinare agli scopi sopra esposti.

Ciò deve avvenire senza ostacolare o compromettere la libertà di religione ed anche la possibilità, per le diverse confessioni religiose, di avere a disposizione dei luoghi di culto adeguati.

Tale pronuncia ha destato non poche riflessioni sul caso. Anzitutto si è posta una domanda di non facile soluzione, o meglio valutabile solo nel caso concreto. Diventa fondamentale capire quale interesse, in caso di inadempienze, il Comune deve perseguire, se quello pubblico o quello della libertà religiosa essendo essi stessi due interessi costituzionalmente garantiti.

Facendo riferimento al caso in questione (revoca della concessione da parte del Comune di Milano al Centro culturale islamico), secondo la lettura dell’art. 70 l. r. 2/2015 non si sarebbe dovuto considerare illeggittimo il comportamento del Comune, poiché poneva in essere il su citato provvedimento a seguito della constatazione di inadempimenti da parte dell’ente.

Le pronunce giurisprudenziali hanno però dimostrato il contrario. Invero è qui che soggiace il nodo della questione: essendo coinvolti interessi di rango costituzionale è necessario “interpretare” tali inadempimenti non tenedo solo conto dei criteri oggettivi delle convenzioni urbanistiche.

Per meglio comprendere il punto ci sovviene in aiuto ancora una volta la Corte la quale ha affermato proprio con riferimento a tale convenzione che essa : « deve sicuramente essere ispirata alla finalità, tipicamente urbanistica, di assicurare lo sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitati. Naturalmente la convenzione potrà stabilire le conseguenze che potranno determinarsi nel caso in cui l’ente che l’ha sottoscritta non ne rispetti le stipulazioni, graduando l’effetto delle violazioni in base alla loro entità (…) tra queste conseguenze, a fronte di comportamenti abnormi, la possibilità di risoluzione o di revoca. Nell’applicare in concreto le previsioni della convenzione, il Comune dovrà in ogni caso considerare se, tra gli strumenti che la disciplina urbanistica mette a disposizione per simili evenienze, non ve ne siano altri, ugualmente idonei a salvaguardare gli interessi pubblici rilevanti, ma meno pregiudizievoli per la libertà di culto , il cui esercizio, come si è detto , trova nella disponibilità di luoghi dedicati una condizione essenziale».

Dalla lettura della pronuncia è chiaro che l’accento posto dalla Corte riguardi per l’appunto l’entità degli adempimenti tali da portare alla risoluzione o revoca della concessione , definiti dalla stessa quali abnormi.

A fronte di certi comportamenti, ciò che conta è  trovare un equilibrio tra l’interesse primario del Comune, tipicamente pubblico, e l’interesse dell’ente coinvolto.

Una siffatta impostazione ci porta ad una conclusione tanto evidente ma altrettanto spinosa, soprattutto per quel che riguarda l’interpretazione dell’entità degli adempimenti puramente tecnici.

In materia urbanistica, come sappiamo, vi sono infatti alcuni adempimenti necessari ed imprescindibili, i quali devono, a pena di decadenza del provvedimento, essere rispettati. Ne sono un esempio il mancato inizio dei lavori nei termini previsti o il non pagamento del corrispettivo concordato. Tali inadempimenti, essendo ritenuti gravi, hanno quale conseguenza la decadenza della concessione.

Quanto stabilito dal Consiglio, nel caso in questione, sembra aver cambiato le carte in tavola. Ne è un esempio la dichiarazione, dell’illegittimità della decadenza della concessione del diritto di superficie.

Le ragioni poste alla base di tale dichiarazione sono riconducibili all’affermazione della Corte secondo cui anche gli adempimenti necessari in materia urbanistica devono essere esaminati nell’ambito della ponderazione degli interessi coinvolti.

Il Comune, non può valutare la convenzione ex art.70, come si trattasse di una qualsiasi altra convenzione urbanistica, anzi deve valutare, prima di procedere con la risoluzione, la revoca, o la decadenza , se vi sia la possibilità di utilizzare altri strumenti, meno lesivi per la libertà di culto.

Diventa fondamentale in questo contesto un attento bilanciamento tra la gravità dell’inadempimento e la finalità della Convenzione.

Alla luce di quanto sopradetto ne conseguirebbe che, una volta che la destinazione di un’area a finalità di culto è stata determinata sulla base di una valutazione attenta degli interessi del territorio, la stessa non potrebbe essere mutata solo per un ritardo di avvio dei lavori. Al riguardo, atteso che prima della concessione il Comune è tenuto ad operare una valutazione dell’interesse pubblico, se questo nel caso in questione ha deliberato che la realizzazione dell’opera perseguisse anch’essa tale fine, il Comune è tenuto a far si che tale finalità venga perseguita.

Nel bilanciamento degli interessi, la finalità dell convenzione di realizzazione di un edificio di culto quale tipica espressione dell’art.19 Cost., farebbe mutare aspetto all’inadempimento da ritardo di inizio dei lavori che in quest’ottica non assumerebbe più la gravità intesa quale  motivo di revoca della concessione.

Ne consegue che «la discrezionalità urbanistica deve muoversi tra gli argini della dimensione di doverosa strumentalità alla realizzazione dell’art. 19 e dell’art. 3 secondo comma, Costituzione».[3]

Alla luce di quanto argomentato potremmo concludere affermando che quando nell’esercizio della sua discrezionalità urbanistica, il Comune delinea spazi e modi attraverso i quali dare attuazione al diritto all’esercizio del culto, lo stesso non può, per meri inadempimenti dell’organizzazione confessionale, venire meno agli obblighi convenzionalmente assunti.

In una circostanza del genere dovrebbe provvedere ad una rivalutazione del disegno amministrativo, ma avendo riguardo alla peculiare natura all’esercizio della libertà religiosa, assicurando la corretta realizzazione dell’interesse, espressione della stessa,  ad avere gli spazi e le strutture necessari.

Le argomentazioni fino ad ora esposte non sono altro che il riflesso di un orientamento già deliniato dalla giurisprudenza e tra l’altro confermato dal Consiglio che ha per l’appunto affermato, che: «La convenzione urbanistica prevista dal comma 2 ter dell’art. 70 della legge regionale lombarda n. 12/2005 non è legittima quando manca una valutazione complessiva – necessariamente espressa e motivata – degli interessi coinvolti, ossia da un lato la finalità, tipicamente urbanistica, di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitati e dall’altro l’esercizio della libertà di culto nei luoghi ad esso dedicati»[4].


Note:

[1]   Legge Regionale 3 febbraio 2015, n. 2

[2]  Corte Costituzionale, sentenza n. 63/2016.

[3] Diritti regionali. Rivista di diritto delle autonomie territoriali (ISSN: 2465-2709) – n. 2/2018

[4] CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV – SENTENZA 5 dicembre 2019, n.8328

Gabriella Nastri

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