Autonomia e segregazione patrimoniale

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I singoli contraenti sono obbligati al rispetto dei precetti legalmente sanciti dal nostro ordinamento giuridico, qualora vogliano costituire, modificare o estinguere un dato assetto negoziale; allo stesso tempo hanno la possibilità di fissare il proprio regolamento contrattuale, valido per quel dato apparato.

L’autonomia privata rappresenta un aspetto ineliminabile della libertà della persona e cioè la libertà negoziale. Il riconoscimento della libertà del singolo si inserisce ormai in una concezione dell’ordinamento che si ispira al prevalente valore della solidarietà sociale, quale valore di fondo della nostra Costituzione.

La legge deve – in ogni caso – riservare una certa discrezionalità ed autonomia alle parti nella scelta della tipologia e del contenuto del singolo contratto e ciò è sancito a livello normativo e costituzionale dagli artt. 1322 cc e 41 co 2 Cost, che ne fissano la relativa ratio.

Inteso secondo talune teorie come diritto inviolabile, l’autonomia contrattuale consiste nella libertà delle parti di disciplinare rapporti giuridici, in tema di diritto di proprietà e di diritto dell’ impresa e non solo.

A seguito del passaggio da una visione – tendenzialmente patrimonialistica, del nostro codice civile –  ossia maggiormente interessato a tutelare interessi economici, ad una visione dello stesso personocentrica, attento ai bisogni personali e agli interessi fondamentali dei singoli soggetti, l’autonomia contrattuale ha esteso il suo campo vitale anche ai rapporti giuridici stipulati nell’ambito dei diritti fondamentali e della personalità dei singoli.

Ciò è servito per cristallizzare la capacità soggettiva di libera determinazione dei contenuti del contratto, con l’unico limite rappresentato dalla legge, dall’eteronomia.

Nel dettaglio le parti tendono a determinare il contenuto dell’assetto negoziale, nei limiti delle norme inderogabili stabilite dal legislatore, le quali caratterizzano pur sempre la base ispiratrice per la creazione del regolamento convenzionale.

L’autonomia contrattuale è limitata non solo dalla legge, ossia da norme imperative, proibitive, ordine pubblico, buon costume, ma anche dal diritto privato europeo, che talvolta si fa portatore di istanze equitative, di buona fede e di divieto di abuso del diritto, di norme costituzionale e di usi. Lo stesso art. 117 Cost. pone una limitazione all’autonomia contrattuale della parti, posto che tale disposizione mira all’integrazione del diritto comunitario nell’ ordinamento nazionale. Non solo: in ambito costituzionale, l’art. 3 co 2 Cost. limita l’autonomia stessa nel caso in cui il regolamento convenzionalmente sancito dalle parti possa mettere a repentaglio la par condicio, creando futili discriminazioni.

Risulta doveroso osservare che nel caso in cui l’assetto autonomo contrattuale sia posto in contrasto con una norma inderogabile, imperativa, ciò comporta la prevalenza della norma statale rispetto alla norma frutto di autonomia. Il meccanismo utilizzato per ovviare a tale contrasto è dato dalla sostituzione automatica delle clausole del contratto, dall’ integrazione dello stesso e dal vizio di nullità parziale (art. 1419 c.c.): si tratta di particolari strumenti con funzione conservativa, con  i quali si cerca di mantenere in vita l’apparato contrattuale, eliminando esclusivamente le parti che intaccano le norme legalmente previste.

L’autonomia ha per oggetto anche la scelta di contratti tipici o atipici (o misti), a patto che quelli atipici si muovano verso il rispetto dei normali prismi codicistici, in tema di meritevolezza ed utilità sociale.

L’accordo convenzionalmente sancito deve assurgere a prototipo negoziale meritevole di essere preso in considerazione da parte dell’ordinamento, in grado di esplicare la cura di interessi, patrimoniali o personali, che mirano al soddisfacimento delle singole pretese del soggetto; deve essere funzionalmente correlato al soddisfacimento di tali interessi personali, all’interno dell’ampio raggio di utilità socialmente prestabilita.

Risulta necessario il rispetto delle disposizioni in tema di responsabilità, garanzie e tutele riservate alle parti. Per ciò che concerne il principio di responsabilità patrimoniale sancito dall’art. 2740 c.c., all’interno dell’assetto contrattuale, il debitore deve rispondere, nel caso di inadempimento della prestazione, con tutti i suoi beni presenti e futuri, che potranno divenire oggetto di espropriazione, secondo le norme sancite dal codice di procedura civile.

Tale norma, ferma anche nel caso di autonomia contrattuale, impone il pedissequo rispetto della c.d. garanzia patrimoniale generica, alla quale si affiancano l’insieme di obblighi accessori, preordinati ad assicurare l’adempimento delle obbligazioni, rafforzando così l’aspettativa del creditore (garanzia patrimoniale specifica). Il creditore potrà quindi aggredire il patrimonio del debitore, nel caso in cui quest’ultimo si dimostri insolvente o inadempiente.

Orbene, occorre valutare come nell’ambito dei poteri discrezionali, riconosciuti ai contraenti da parte del nostro ordinamento, si collochi la possibilità per gli stessi di derogare al principio di responsabilità patrimoniale suddetto, mediante la creazione di singoli patrimoni, estranei alle pretese creditorie, destinati al soddisfacimento di interessi ulteriori, rispetto a quelli da esplicare con l’obbligazione principale.

Si tratta di un meccanismo riconosciuto alle parti, in virtù della libertà negoziale concessagli e che si ricollega, quindi, all’autonomia contrattuale, che prende il nome di segregazione patrimoniale.

Con tale definizione si pone l’accento su una pratica diffusa nel settore civilistico, tesa a riservare una parte di beni, estranei quindi ai normali rapporti contrattuali, al perseguimento di determinati obiettivi, in base alla volontà di uno o più soggetti.

I presupposti cardine di tale meccanismo consistono nella formazione di un patrimonio separato e destinato al raggiungimento di date funzioni; nella possibilità che tali beni siano indenni dalle aggressioni dei creditori personali dei soggetti, che dispongano di tale patrimonio segregato, ad eccezione dei creditori che si possano formare sul patrimonio in questione; inoltre nella mancata composizione dei beni, oggetto di separazione patrimoniale, della massa attiva in caso di fallimento.

Il nostro assetto codicistico presenta varie ipotesi di segregazione patrimoniale, primo fra tutti, in ambito familiare, il fondo patrimoniale, ex art. 167 c.c. e s.s. .

Esso consiste in una particolare convenzione matrimoniale, sancita con atto pubblico, mediante la quale i singoli coniugi possono costituire un patrimonio, formato da beni mobili o immobili, destinato a far fronte ai bisogni della famiglia.

L’impiego di tale strumento spetta ad entrambi i coniugi, salva diversa disposizione e gli stessi frutti saranno predisposti all’uso collettivo della famiglia. I beni oggetto di destinazione specifica non potranno essere alienati, né dati in pegno, né ipotecati, posto che sussiste un divieto assoluto di vincolo sugli stessi, se non dietro accordo congiunto dei coniugi.

La stessa esecuzione dei beni e dei frutti, a norma dell’art. 170 c.c., non può riguardare quei debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia, con ciò riconoscendo allo stesso la possibilità di aggredire il detto patrimonio sol in virtù di pretese createsi a fronte della costituzione del fondo suddetto.

Le cessazione del fondo coincide con la cessazione degli effetti civili del matrimonio, o comunque con il momento in cui i figli saranno siano in grado di provvedere da soli al proprio sostentamento.

Ulteriore ipotesi di separazione patrimoniale è costituita, nell’assetto successorio, dall’eredità giacente, che a norma dell’art. 528 cc. e ss., consiste in quell’insieme di beni ereditari, che vengono gestiti da un curatore nominato dal tribunale, dal momento che l’erede non ha ancora accettato o non ha esercitato alcuna azione possessoria al riguardo.

In codesti termini, i beni ereditari amministrati dal curatore sarebbero temporaneamente separati dal lascito totale del de cuius, per il tempo strettamente necessario entro il quale l’erede deve accettare o meno l’insieme di beni suddetti. Il curatore, che deve rendere conto della propria amministrazione tramite una relazione – da fornire con cadenza temporale – al tribunale, ha l’obbligo di redigere l’inventario dell’eredità, di rispondere alle istanze contro la stessa, di pagare gli eventuali debiti ereditari e dei legati, su autorizzazione del tribunale stesso. Invero in caso di opposizione da parte dei creditori dell’eredità o dei legatari, il curatore sarà tenuto a liquidare l’eredità, nell’interesse di tutti i creditori e legatari stessi. Si tratta in questo caso di una segregazione maggiormente circoscritta, in termini temporali, rispetto al fondo patrimoniale, posto che, qualora l’erede accetti, i beni rientrano a far parte del suo patrimonio.

L’esempio lampante di segregazione patrimoniale è stato inserito all’interno del nostro codice a partire dal 2005, al fine di tutelare le persone con disabilità, le pubbliche amministrazioni, gli enti, o altre persone fisiche nel perseguimento di date finalità.

Più specificamente si tratta della disposizione ex art. 2645 ter c.c., la quale consiste in un meccanismo negoziale per mezzo del quale vengono destinati beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi di persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o altri enti o persone fisiche, con l’unico limite che si tratti di un interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico.

Si deve quindi trattare di un interesse utile socialmente e collettivamente valido, per rendere plausibile la trascrizione dell’atto e correlata opponibilità ai terzi, che nutrono prerogative nei confronti di tale vincolo di destinazione.

La separazione patrimoniale è acclarata dal riferimento normativo dell’ultima parte dell’art. 2645 ter c.c., laddove si legge che i beni e i frutti di tale accordo possano essere impiegati per la realizzazione esclusiva del fine di destinazione e possano costituire oggetto di debiti sorti solo per la realizzazione di tale scopo.

Tale ultimo inciso tenderebbe ad avvalorare la possibilità di limitare la garanzia patrimoniale, nelle ipotesi, come questa, legislativamente previste.

Anche in tema di contratti tra imprese, è possibile far riferimento al c.d. Contratto di rete, riconosciuto a livello normativo dalla l. n. 33/09.

Si tratta di accordi mediante i quali più imprese si aggregano tra loro, al fine di creare una collaborazione organizzata e duratura, mantenendo la propria autonomia e la propria individualità, nonché di fruire di rilevanti incentivi e di agevolazioni fiscali.

Anche in questo caso, come per il fondo patrimoniale dei coniugi, le imprese si uniscono per creare un agglomerato economico e perseguire “lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato”. Ciò richiede l’ istituzione di un fondo patrimoniale comune, inteso quale dotazione patrimoniale destinata all’esecuzione del programma di rete e sottoposto solo all’intervento pretensivo dei creditori, formatisi a seguito della costituzione del fondo in questione.

Invero anche la cessione dei beni ai creditori, ex art. 1977 c.c. , con cui il debitore incarica i propri creditori o alcuni di essi alla liquidazione di tutte o alcune sue attività, per ripartirne tra loro il ricavato e soddisfare i propri crediti, costituisce esempio di separazione patrimoniale.

Difatti i creditori cessionari possono esercitare le azioni di carattere patrimoniale relativamente ai beni oggetto di cessione (art. 1979 co 2 c.c.).

In ultima analisi, giova considerare, quale ipotesi di segregazione patrimoniale, il trust, di origine anglosassone, recepito con l. del 1989 nel nostro ordinamento e inserito per la prima volta nella Convenzione dell’Aja.

Si sostanzia nel patto con cui il settlor aliena un diritto per un scopo ulteriore ai suoi attuali interessi al trustee, dovendo quest’ultimo realizzare tale diritto nell’interesse di un terzo, il beneficiary, o per il conseguimento di un ulteriore interesse. Tale procedura avviene sotto il controllo vigile di una quarta persona, il protector; inoltre  il settlor e il trustee possono consistere nella stessa persona.

Diversamente dal negozio fiduciario all’interno del quale i creditori personali del fiduciario possono far valere le proprie ragioni, nel trust si assiste ad una vera e propria segregazione patrimoniale, posto che i beni oggetto di tale accordo sono sottratti dall’aggressione dei creditori tanto del concedente, quanto del soggetto fiduciario. In tale ipotesi, quindi, settlor e trustee mireranno ad assolvere la funzione principale del trust, che è quella di isolare parte dei beni – dalle pretese creditorie –  del primo per poterli rendere effettivamente traslativi nei confronti del secondo, il quale dovrà esercitare le azioni prefissate o i diritti detenuti, a fronte del meccanismo de quo.

Alla luce di quanto precede occorre affermare che il fenomeno della segregazione patrimoniale a un determinato scopo ricorre nei casi in cui la legge consente ai privati di separare determinati beni dalla propria sfera giuridica, pur senza privarsi della titolarità formale degli stessi, imprimendo ai medesimi un vincolo di destinazione, per effetto del quale detti beni non possono essere distratti dallo scopo al quale sono destinati. In tal modo tale patrimonio diviene insensibile alle vicende personali del soggetto a cui formalmente appartiene, salvo il caso in cui il credito vantato sia stato contratto in ragione dello scopo cui è destinata tale massa, permettendo così solo  l’aggressione da parte dei creditori della massa stessa.

 

Ilaria Chirillo

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