Arresto in quasi flagranza e reati abituali: problemi applicativi nei casi di maltrattamenti in famiglia e atti persecutori

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 Indice-sommario: 1. breve focalizzazione del quadro normativo e del diritto vivente 2. il rapporto con il delitto di maltrattamenti in famiglia 3. il rapporto con il delitto di atti persecutori

 

  1. breve focalizzazione del quadro normativo e del diritto vivente

Con il D.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119, in materia di contrasto alla violenza di genere è stato ampliato il novero dei delitti per i quali è imposto alla Polizia Giudiziaria l’obbligo di provvedere all’arresto nei casi descritti dall’articolo 382 c.p.p., ossia nell’ipotesi di ‘sorpresa’ del reo nello stato di flagranza ovvero di ‘quasi flagranza’ di reato.

Nello specifico, tra le ipotesi contemplate dall’art. 380 c.p.p. sono state introdotte le ipotesi delittuose regolate dagli artt. 572 e 612 bis c.p. che sanzionano, rispettivamente, i reati di maltrattamenti in famiglia (d’ora in poi, solo ‘maltrattamenti’, chiarito al lettore il richiamo alla fattispecie prevista dall’art. 572 c.p. e non a quella prevista dall’art. 544-ter c.p.) e atti persecutori (c.d. stalking). Le fattispecie venivano perciò incluse nel novero dei reati che, indipendentemente della comminatoria edittale imponevano l’arresto obbligatorio e, di converso, erano escluse dal ventaglio di ipotesi previste dall’art. 384-bis c.p. che disciplina la misura precautelare dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare.

La Relazione illustrativa, sebbene non espliciti gli argomenti alla base della scelta di introdurre i delitti previsti dagli articoli 572 e 612 bis nell’elenco dei reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, consente ugualmente di desumere dall’ordine di esposizione delle novità introdotte la ratio dell’esclusione dei suddetti delitti dal perimetro applicativo della misura precautelare dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare (art. 384 bis c.p.)[1].

Difatti, l’esclusione dei reati summenzionati dall’ambito di applicazione della misura precautelare introdotta proprio con la l.15 ottobre 2013, n° 119, si giustifica con l’enucleazione dei maltrattamenti e degli atti persecutori nell’ambito di operatività della maggiormente afflittiva misura dell’arresto obbligatorio idonea non solo a neutralizzare in via temporanea l’indiziato del delitto, ma anche a garantire una «valvola di sicurezza» per la persona offesa nell’immediatezza del fatto [2].

Tuttavia, la disciplina adesso brevemente riassunta è stata oggetto di modifica per opera del d.l.4 ottobre 2018 n. 113, convertito con modificazioni dalla L. 1 dicembre 2018, n. 132, il quale ha aggiunto le fattispecie previste dagli artt. 572 e 612 c.p. nella sfera di efficacia della misura cautelare regolata dall’art. 282 c.p.p. e, per espresso rinvio, nell’ambito della speculare misura precautelare dell’allontanamento urgente dalla casa familiare introdotta ex novo con l’art. 384 bis c.p.p. dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119.

La scelta di tecnica legislativa, pervasa dal fine di ostentare un energico arsenale di tutele a protezione delle vittime di siffatto genere di delitti, desta in realtà diverse perplessità perché sembra trascurare che le ipotesi delittuose di interesse nella presente trattazione (gli artt. 572 e 612 bis c.p.) erano, in realtà, già annoverate tra le fattispecie per le quali è tutt’ora prevista l’applicabilità della misura precautelare dell’arresto obbligatorio nei casi di flagranza (art. 380 c.p.p.). L’introduzione nello spettro delle fattispecie suscettibili di determinare l’obbligo per la Polizia giudiziaria di intervenire con l’arresto in flagranza si sovrappone, nel diritto vigente, alla misura dell’allontanamento urgente dalla casa familiare (art. 384 bis c.p.p.), imponendo, per scongiurare applicazioni in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.) e con il principio di legalità (art. 25 co. 2 Cost.) delle pene e, in generale, delle norme limitative in qualunque forma della libertà personale (art. 13 co. 2 Cost.), all’organo giudicante di derogare regolarmente alla disciplina più afflittiva che dispone l’arresto obbligatorio in favore della fattispecie di recente conio regolata dall’art. 384 bis c.p.p.[3]

L’unica opzione percorribile appare, pertanto, orientata in prospettiva de iure condendo e volta alla riforma della disciplina per iscrivere le fattispecie di di maltrattamenti e di atti persecutori nell’ambito di applicazione di solo una delle due norme precautelari disciplinate dagli artt. 380 e 384 bis del codice di rito.

A siffatto ordine di problemi sollevato dall’’ambivalente’ inquadramento delle fattispecie in esame nel raggio di operatività di due misure precautelari – previste dagli artt. 380 e 384 bis c.p.p. – in stridente contrasto con i principi di legalità e con i suoi corollari di tassatività (due norme per regolare la stessa «situazione di vita», mutuando il raffinato sintagma di Giuliano Marini), frammentarietà e sussidiarietà che impongono la razionalizzazione delle misure limitative della libertà personale (ancora più se intervenienti ante iudicium e sguarnite, pertanto, delle annesse garanzie), si aggiungono incertezze applicative dettate dalla natura abituale dei reati che, nelle ipotesi c.d. di quasi flagranza rischiano di svalutare o, in ogni caso, di rendere potenzialmente evanescente il significato delle tracce del reato rinvenute sull’indagato.

Beninteso, per quanto interessa ai nostri più limitati fini, il riferimento è alla categoria di ‘quasi flagranza’ non rappresentato dall’inseguimento dell’autore del reato «immediatamente dopo» la commissione dello stesso (art. 382 c.p.p. co. 1, secondo periodo), ma dalla ‘sottospecie’ in cui l’accertamento della Polizia giudiziaria avviene sulle cose o sulle tracce che, ictu oculi (il requisito dell’apparenza richiesto dalla norma), risultino inerenti al reato commesso «immediatamente prima» (art. 382 co. 1 terzo periodo c.p.p.)

In tal senso, anticipando parte del discorso che verrà compiutamente sviluppato nei paragrafi seguenti, emergono rilevanti aspetti problematici per l’applicabilità della misura precautelare dell’arresto nelle ipotesi di c.d. quasi flagranza del reato.

Difatti, mentre nella prima species di arresto in quasi flagranza di reato l’inseguimento da parte della Polizia Giudiziaria, del soggetto agente «subito dopo» la commissione del reato risulta sufficientemente valorizzabile in ragione del suo nesso di contiguità spazio-temporale con il fatto contestato, nella seconda ipotesi si concreta il rischio che sulla base delle informazioni rese dalla persona offesa contestuali alla denuncia-querela del fatto appena commesso[4], sia applicabile la misura dell’arresto obbligatorio a un soggetto non solo colto in un momento, anche se prossimo, successivo alla realizzazione della condotta criminosa, ma autore di una condotta che risulta, se presa in esame da sola, insufficiente per la contestazione del delitto p. e p. dall’art. 572 c.p.

Affiora il nugolo di problematiche che costituirà oggetto delle coincise riflessioni dei paragrafi successivi: come si declina ‘lo stato di flagranza’ verso reati come i maltrattamenti in famiglia e gli atti persecutori (sebbene, in quest’ultima ipotesi, soluzioni più ‘liquide’ siano più facilmente esperibili) che sono costituiti da una pluralità di condotte, da sole non (auto)sufficienti per l’integrazione del fatto tipico perché distribuite in tempi diversi?

  1. il rapporto con il delitto di maltrattamenti in famiglia

Come noto la fattispecie p. e p. dall’art. 572 c.p. costituisce un reato di natura abituale proprio tipizzato dalla realizzazione di almeno due condotte di ‘maltrattamenti’ le quali, di regola comprese in una breve parentesi temporale, in ogni caso espressive della volontà da parte dell’agente di turbare ovvero di molestare con qualsiasi mezzo/modalità (il reato è ‘a forma libera’ come si desume dalla ripetizione del contenuto della rubrica nel testo normativo) e in modo sistematico la vittima designata[5]. La fattispecie si atteggia, altresì, a delitto di natura esclusivamente abituale perché – in assenza della pluralità di condotte o in presenza di condotte episodiche prive di ogni connessione spazio-temporale – la condotta dell’agente resta penalmente indifferente e, quindi, lecita.

È agevole, allora, individuare il profilo di criticità che si intende circoscrivere ed analizzare. A differenza del delitto p. e p. dall’art. 612 bis c.p., il delitto di maltrattamenti non descrive nel suo modello di incriminazione altre condotte penalmente rilevanti.

Breve: non è infrequente che, nei risvolti pratici, il reato di maltrattamenti si risolva in condotte offensive sanzionabili secondo il previgente art. 594 c.p. (ingiuria) dell’integrità morale della vittima, le quali, tuttavia, non integrano i delitti di percosse (581 c.p.), lesioni (582 c.p.), minaccia (612 c.p.), violenza privata (610 c.p.) o la contravvenzione di molestie (660 c.p.), che invece connotano il delitto di stalking (perlomeno, nella descrizione del fatto tipico, l’assunto vale per i reati di minaccia e di molestie).

Sono tre pertanto i punti critici che richiedono una soluzione, plausibilmente, de iure condito, accarezzando prospettive di riforma laddove l’interpretazione sistematico-letterale della normativa precluda soluzioni conformi ai parametri costituzionali (di ragionevolezza e di prevedibilità delle misure restrittive della libertà personale): il primo deriva dall’atteggiarsi della fattispecie di maltrattamenti a reato di condotta (sebbene non in forma esclusiva, potendo anche applicarsi come reato di evento come si evince dal raffronto sistematico con l’art. 612 bis c.p. che esordisce con una clausola di riserva), che complica l’indagine sull’accertamento delle cose e sulle tracce del reato che, frequentemente, possono risultare di sostanza impalpabile se non si manifestano in lesioni ovvero in percosse che si concretino in tracce tangibili.

Secondo: come esposto in precedenza, la fattispecie modella un reato necessariamente abituale che condiziona la sua punibilità alla verificazione di una pluralità di condotte reiterate nel tempo e il cui accertamento in flagranza è difficile da ipotizzare (dovendosi immaginare nell’ipotesi in cui, laddove la condotta di maltrattamenti abbia beninteso cagionato conseguenze tangibili sul corpo della persona offesa, la Polizia Giudiziaria intervenga in concomitanza della seconda condotta vessatoria che risulti intrecciata alla prima).

Terzo: anche laddove la vicenda delittuosa abbia preso vita nel «mondo reale» in modalità empiricamente osservabili e verificabili, si può paventare il rischio che, anche senza dare adito a profondi sforzi di ragionamento, la misura (rectius, le misure di arresto obbligatorio/allontanamento d’urgenza dalla casa familiare) possano applicarsi anche a soggetti responsabili sì di soprusi o sevizie, ma non integranti il delitto previsto dall’art. 572 c.p.

Difatti, laddove la persona offesa dovesse risultare vittima di atti di violenza perpetrati da soggetti diversi, confluiti in ecchimosi, ematomi ovvero altre ferite prima facie verificabili, risulterebbe demandato alla esclusiva denunzia-querela della persona offesa il perimetro di operatività delle misure precautelari summenzionate. Difatti, come è noto, la denuncia (orale o scritta che sia) della persona offesa non assurge ad atto pro veritate nel merito della qualificazione normativa delle vicende in esso descritte né, tanto meno, si può obiettare la possibile contestazione del delitto di calunnia sullo sfondo in chiave deterrente. Invero, la fattispecie prevista dall’art. 368 c.p. non risulta automaticamente contestabile in conseguenza di una denuncia-querela infondata in quanto, come noto, l’elemento soggettivo che tipizza il nucleo del delitto di calunnia è costituito dalla consapevolezza dell’innocenza da parte dell’agente del reato addebitato alla vittima.

Breve: mentre in assenza di espressa previsione nel delitto contestato, nella prassi giurisprudenziale si rincorrono presunzioni di dolo confezionate-camuffate in formule ‘slacciate’ – res ipsa loquitur, dolus in re ipsa – da ogni legame con i capisaldi costituzionali della individualità e colpevolezza della responsabilità penale[6], la fattispecie descritta dall’art. 368 c.p. configura un delitto c.d. soggettivamente pregnante in quanto, alla coscienza e volontà (art. 42 co. 1 c.p.) e alla rappresentazione e volizione dell’evento descritto dalla fattispecie incriminatrice (art. 43 co. 1 c.p.) si aggiunge ‘il dolo di fattispecie’ previsto dalla disposizione di parte speciale inerente alla ‘innocenza della persona offesa per il reato addebitato’.

Pertanto, anche laddove la descrizione della vicenda incriminata non dovesse trovare riscontro in fase dibattimentale ovvero anche nel procedimento cautelare, l’aspetto non risulterebbe in re ipsa valorizzabile ai fini della contestazione del delitto di calunnia, ben potendo la ricostruzione della vicenda contenuta nell’atto di accusa della persona offesa conseguire a un travisamento (che può essere significativo eventualmente come profilo di responsabilità aquiliana) dei fatti (ad esempio, ipotizzando la denuncia di un concorso di persone tra due componenti della famiglia responsabili di condotte violente in momenti della giornata o in giorni diversi tuttavia tra loro indipendenti, id est, in assenza di cooperazione, anche solo tacita, tra i soggetti querelati).

Elencati e declinati i profili controversi che condizionano l’applicabilità delle misure precautelari dell’arresto e dell’allontanamento urgente dalla casa familiare alla fattispecie di maltrattamenti, occorre vagliare ipotesi risolutive.

In primis: non può certo disconoscersi il disvalore del delitto de quo e, pertanto, l’opportunità sul piano politico criminale e la ragionevolezza sul versante tecnico-normativo dello schieramento di un articolato apparato di risposte sanzionatorie – ancorché espressive di un balzo in avanti della risposta punitiva.[7] Tuttavia, non si può, coerentemente, trascurare le insidie che si annidano sullo sfondo di direttrici politico criminali che rischiano, in modo sistematico, di generare un’applicazione ondivaga e perciò imprevedibile dei provvedimenti precautelari in collisione con i limiti imposti dal principio di uguaglianza, stella polare dei principi di certezza del reato e della pena. Breve: laddove dall’astratta prefigurazione di fatti caratterizzati da elementi essenziali analoghi (premessa minore), è ragionevole prognosticare conseguenze giuridiche divergenti, a causa dell’eccessivo potere discrezionale devoluto all’autorità giudiziaria, allora occorre interpellare l’ordinamento alla ricerca di soluzioni di respiro sistematico idonee a neutralizzare irragionevoli differenziazioni sul terreno applicativo.

Ferma la necessità di dare impulso a un restyling normativo sul piano delle misure precautelari, conviene distinguere l’ipotesi in cui i maltrattamenti prendono forma nella fattispecie base (art. 572 co. 1 c.p.) dalla fattispecie aggravata (art. 572 cpv.) in cui da esse derivino lesioni gravi o gravissime: in quest’ultimo caso, infatti, per aggirare le difficoltà correlate all’applicazione degli istituti connessi allo stato di quasi flagranza ai maltrattamenti, basterebbe ricorrere alla misura dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare in ogni caso applicabile nei casi di lesioni gravi ovvero gravissime (artt. 582-583 co. 1 e 2), evitando perciò di andare a ricercare aliunde indizi del fatto appena commesso e della condotta precedente ad esso saldato per ritenere integrata la fattispecie abituale.

Laddove, invece, i maltrattamenti dovessero manifestarsi in un reato di pura condotta, senza conseguenze verificabili sul corpo/oggetto materiale del reato, risulterebbe alquanto complesso accertare «le tracce del reato e il loro collegamento inequivocabile con l’indiziato». (così, Cass. pen., sez. VI, 16 luglio 2020, n° 2113), in quanto, in assenza di una connotazione materiale del reato (ossia, di mezzi adoperati, ad esempio, per cagionare le percosse), non resterebbe che inferire la sussistenza del fatto di reato commesso «immediatamente prima» da indicatori esangui e pertanto non inequivocabilmente riferibili alla condotta di maltrattamenti. [8]

In siffatte ipotesi, difficile sarebbe accertare gli indici dai quali inferire l’apparenza dei maltrattamenti: sarebbe preferibile, ferma l’applicabilità dell’altra sottospecie di quasi reato nei casi di inseguimento dell’autore del fatto «subito dopo il reato», adottare le misure predisposte, ad esempio, nella l. 19 luglio 2019, n.° 69 (il c.d. Codice Rosso varato dal governo gialloverde), art. 2 (Assunzione di informazioni), che impongono l’assunzione di informazioni da parte della persona offesa entro il termine di tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato e indipendentemente dalla presentazione da parte di quest’ultima di un atto di denuncia-querela[9]: l’assunzione di informazioni da parte della persona offesa anche in merito a un fatto non costituente (ancora o già) reato, iscrivibile nell’interregno del registro delle ‘quasi notizie di reato’ (mod. 45) consentirebbe di puntare la lente di ingrandimento (per quanto possibile in rapporto alle risorse organiche a disposizione della Polizia Giudiziaria) sulla vicenda domestica attraversata dalle intemperanze di uno dei coniugi/conviventi.

In ordine al secondo profilo di criticità correlato alla ‘natura’ abituale della fattispecie de qua, sono spendibili in buona sostanza gli argomenti proposti per il primo aspetto problematico: laddove residuino tracce ematiche o digitali, ad esempio, sul mezzo del reato (un oggetto contundente ‘improprio’), sarebbe preferibile ricorrere alla misura dell’allontanamento dalla casa familiare disciplinata dall’art. 384 bis nel caso in cui, le tracce ovvero le cose pertinenti al reato rinvenute sul corpo dell’agente siano saldate a una coerente esposizione della vicenda delittuosa da parte della persona offesa nelle informazioni rese agli organi dell’autorità inquirente ovvero nell’atto di denuncia-querela.

Terzo: nell’ultimo scenario dispiegato, appare evidente la necessità di distinguere due casi: il primo in cui la condotta di uno dei due (pretesi) concorrenti si esteriorizzi in una condotta lesiva, il secondo in cui gli atti di sopraffazione si limitino all’esternazione di una violenza solamente verbale. Nella prima ipotesi – naturalmente nel caso di lesioni gravi ovvero gravissime – risulterebbe applicabile all’autore delle lesioni (secondo le informazioni rese oralmente dalla persona offesa ovvero nell’atto di denuncia-querela saldate con le tracce o cose indizianti) la misura dell’allontanamento urgente dalla casa familiare, mentre per il responsabile delle offese che si sono limitate all’adozione di un linguaggio ingiurioso e screditante risulterebbe necessario valutare l’assenza di contraddizioni e la ragionevolezza e coerenza intrinseche del narrato della persona offesa entro tre giorni dalla denuncia del fatto (art. 3 l. 69/2019) e le informazioni rese dalla persona indiziata della commissione del delitto di lesioni nella veste di persona informata sui fatti (art. 350 c.p.p.), per accertare l’effettiva cooperazione tra i due soggetti nel delitto di maltrattamenti. Difatti, nell’ipotesi delineata, esplicherebbe con prevedibile successo funzione deterrente il delitto di calunnia (art. 368 c.p.), in quanto, in tal caso, senz’altro risulterebbe addebitabile al soggetto sentito a sommarie informazioni il delitto de quo, nel caso in cui dovesse congetturare un sodalizio criminoso in realtà inesistente.

 

  1. il rapporto con il delitto di atti persecutori

 

Affine, ma meno complessa, la questione che riguarda l’applicabilità delle misure precautelari anzidette alla fattispecie descritta dall’art. 612 bis c.p.

Il reato di atti persecutori si atteggia, come il reato di maltrattamenti, a reato di natura abituale, tuttavia riconducibile nello schema del reato complesso ovvero, in ogni caso, come reato a forma vincolata, attesto che la condotta tipica descritta dalla fattispecie de qua esige per la realizzazione penalmente rilevante dell’evento del reato – «il perdurante e grave stato di ansia e paura ovvero un fondato timore per l’incolumità (…)» – la commissione reiterata nel tempo di condotte minacciose e violente in danno della vittima. In breve, la fattispecie in esame differisce dal delitto descritto dall’art. 572 c.p., perché si atteggia a reato di evento (psichico) a forma/condotta vincolata, causalmente orientato.

Altresì, come sostenuto da autorevole dottrina, la fattispecie si configura come un reato complesso (art. 84 c.p.) in quanto prevede nei suoi estremi oggettivi che tipizzano la condotta (il c.d. objektiver Tatbestand), la consumazione di fatti sanzionati dalle fattispecie incriminatrici costituite, rispettivamente, dal delitto di minaccia (art. 612 c.p.) e dalla contravvenzione prevista dall’art. 660 c.p.  (beninteso, laddove sia integrato anche l’altro elemento costitutivo richiesto dalla norma della verificazione del fatto «in luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero col mezzo del telefono».

Avvicendate da un destino comune alimentato dalla condivisione del bene giuridico presidiato da entrambe le norme e costituito secondo la dottrina ormai unanime, anche per il delitto di maltrattamenti, dalla integrità psico-fisica della persona convivente con l’agente o comunque legata allo stesso da un trama costante di rapporti sociali/personali[10].

Allineando l’asse del discorso sulle coordinate strutturali della fattispecie ora in esame, sembra opportuno valorizzare la natura di reato complesso[11] del delitto per sondarne i risvolti pratici utili per addivenire a una soluzione equilibrata, tra le esigenze di prevenzione del delitto e necessità, imposte dai principi costituzionali che presidiano l’inviolabilità della libertà personale e i limiti delle sue eccezioni (art. 13 co. 1 e 2 c.p.) e il principio di legalità (art. 25 co. 2 c.p.) che rappresentano lo statuto garantista di diritto penale orientato dai valori del liberalismo di matrice illuminista[12].

All’attento lettore non sfuggirà, alla luce delle riflessioni svolte nei paragrafi precedenti, le soluzioni che saranno proposte per l’ipotesi delittuosa in commento. È evidente che, strutturandosi in condotte dotate di autonoma rilevanza penale, appare preferibile per la maggiore aderenza ai canoni di prevedibilità delle conseguenze penali delle proprie azioni da parte del soggetto agente, ritenere applicabile la misura prevista dall’art. 384 bis c.p.p. per la sorpresa in stato di ‘quasi flagranza’ per la condotta minacciosa in cui si è sviluppata il delitto previsto dall’art. 612 bis.

Difatti, la fattispecie de qua si esteriorizza di frequente mediante l’utilizzo di strumenti di comunicazione telefonici o telematici (messaggi o telefonate in misura preponderante), in grado di assurgere agevolmente a cose o tracce del reato apprezzabili, in re ipsa, per l’applicazione della misura preacautelare anzidetta per il delitto di minaccia (art. 612 c.p.). Lo stesso ordine di argomenti, deve, a fortiori, ripetersi nel caso in cui la condotta contestata e colta nel suo ‘attimo fuggente’ si sia estrinsecata in condotte turbative della quiete e della serenità della persona offesa (art. 660 c.p.). In siffatta ipotesi, difatti, attesa la minore offensività della fattispecie contravvenzionale, risulterebbe foriero di potenziali presunzioni contra reum sussumere gli atti di molestie negli atti persecutori, interpretando le tracce o cose (ad esempio, reiterati squilli ovvero messaggi sgraditi al destinatario) pertinenti alla condotta incomodante come frazione di una serie sistematica di sopraffazioni e soverchierie in danno della vittima.  

Invero, nelle ipotesi di quasi flagranza di reato, risulterebbe difficile valutare le tracce o le cose pertinenti a un delitto che, sebbene si atteggi a fattispecie di evento, tuttavia si connota per un rapporto di sopraffazione ovvero di prevaricazione psichica dell’agente nei confronti del soggetto passivo di complessa riconoscibilità nella percezione ‘a caldo’ della vicenda criminosa[13].

Tirando le somme, pur se all’esito di riflessioni alacremente svolte, occorre censurare l’atteggiamento del Legislatore in materia di violenza di genere, produttivo di disordinati e incoerenti affastellamenti normativi che increspano il processo comunicativo tra Stato ed individuo (nella materia penale, la più delicata!) e in definitiva la dialettica tra libertà e responsabilità.

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Note

[1] Nella relazione illustrativa, difatti, è valorizzata dapprima la necessità di contrastare energicamente i reati previsti dalle fattispecie descritte dagli artt. 572 e 612 bis c.p: «Un altro gruppo di interventi, mira a calibrare le misure cautelari applicabili per i soggetti nei confronti dei quali si procede per i delitti in argomento. In primo luogo, il ventaglio delle ipotesi di arresto in flagranza di cui all’art. 380 c.p.p. viene esteso anche ai delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di atti persecutori, previsti dagli artt. 572 e 612-bis c.p. Tenuto conto che la disposizione riguarda provvedimenti limitativi della libertà personale viene previsto che essa diventa efficace alla data di entrata in vigore della legge di conversione», cit. Relazione Ministeriale in Esame definitivo – Consiglio dei ministri 8 agosto 2013 https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_2_1.page?contentId=SAN947003&previsiousPage=mg_1_2_1. Infatti, sebbene non necessariamente espressivi di maggior allarme sociale (in quanto non contrassegnati da una intrinseca nota di violenza nei confronti della donna), tuttavia rappresentano statisticamente le ipotesi fra i ‘delitti di genere’ più diffuse in quanto, come è intuitivo notare, prossimi a una fase del rapporto coniugale ancora potenzialmente caratterizzata, sebbene in modo perverso, dalla volontà di proseguire il rapporto sentimentale.

Per un’indagine statistica che pone in relazione il tipo di criminalità con il locus commissi delicti si rinvia all’indice per provincie elaborato su https://www4.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/violenza-dentro-e-fuori-la-famig/numero-delle-vittime-e-forme-di– in cui si evince nettamente che, rispetto alle forme di violenza pura e semplice, le condotte di denigrazione del partner e di discredito verbale sono notevolmente più diffuse rispetto a quelle di abuso e violenza sessuale.

La Relazione illustrativa del d.l. 14 agosto 2013, n° 93, pertanto, esordisce ponendo l’accento sull’urgenza di prevenire la perpetrazione dei delitti di maltrattamenti e di stalking, mediante la previsione della misura precautelare più afflittiva (l’arresto obbligatorio), accomunando i delitti predetti con ipotesi delittuose offensive della sicurezza nazionale o dell’ordine pubblico (i delitti contro la personalità dello Stato, fattispecie associative, terrorismo, spaccio di stupefacenti) e contrassegnate dalla severità del regime sanzionatorio.

[2] Perché ‘rassicurata’ dallo stato di ‘confinamento assoluto’ dell’indagato, non limitato dal mero allontanamento dalla abitazione della vittima, il quale da solo non offrirebbe garanzie dello stesso tenore alla persona offesa all’esterno della propria abitazione.

[3] Difatti, in assenza di espressa previsione legislativa idonea a individuare l’elemento differenziale per distinguere l’ambito di applicazione delle misure precautelari – ad esempio, in relazione al carattere perspicuo delle tracce o delle cose del reato rinvenute sul reo – risulta, de lege lata, difficile distinguere il termine di relazione al quale appellarsi per dirimere il ‘concorso di misure’.

[4] Con una pronuncia recentissima, la Suprema Corte ha infatti statuito che per la legittimità dell’arresto in flagranza è sufficiente che la percezione della vicenda criminosa da parte della Polizia Giudiziaria ricada sulle cose ovvero sulle tracce del reato, non essendo al contrario necessario che, a differenza dell’ipotesi di inseguimento, la Polizia assista a una frazione ovvero al tentativo da parte dell’agente di guadagnarsi l’impunità dandosi alla fuga. «In tema di arresto in flagranza, l’integrazione dell’ipotesi di c.d. “quasi flagranza”, costituita dalla “sorpresa” dell’indiziato “con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima”, non richiede che la polizia giudiziaria abbia diretta percezione dei fatti, né che la sorpresa avvenga in modo non casuale, correlandosi invece alla diretta percezione da parte della stessa soltanto degli elementi idonei a farle ritenere sussistente, con altissima probabilità, la responsabilità del medesimo, nei limiti temporali determinati dalla commissione del reato “immediatamente prima”». (Cassazione penale sez. IV – 19/06/2019, n. 38404).

Nello stesso senso, per la configurazione in senso amplio del concetto di quasi flagranza in una recentissima decisione in materia di maltrattamenti, la Corte regolatrice ha stabilito che: «Ai fini della verifica della quasi-flagranza, giustificante la convalida della misura precautelare dell’allontanamento dalla casa familiare nel caso di maltrattamenti ai danni dei familiari, il giudice deve avere riguardo non tanto alla diretta percezione della commissione del reato, ma all’immediata ed autonoma percezione delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l’indiziato». (Corte di Cassazione, sez. VI penale, sentenza n. 2113/20; depositata il 16 luglio).

[5] Sul dipanarsi spazio-temporale delle condotte, la giurisprudenza di legittimità non ha mancato di

precisare che: «Il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte aggressive e lesive, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è invece sufficiente la consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima» (Cass. pen. sez. VI, sent., 5 agosto 2003, n.°33106). In tal senso, a differenza delle ipotesi di reato continuato in cui la reiterazione criminosa si riflette nell’unico scopo perseguito dall’agente con le proprie condotte, il delitto di maltrattamenti non richiede per la sua integrazione il perseguimento di un fine da parte dell’agente, ma è sufficiente che l’agente si rappresenti il reiterarsi delle condotte vessatorie ai danni della persona offesa emergendo l’abitualità della condotta da uno stile di vita nelle sue modalità di relazione con la vittima piuttosto che il risultato di una meditata trama di delitti. A conferma dell’assunto, secondo il concorde insegnamento della stessa Corte, lo stato di ubriachezza può esprimere un maggior disvalore della condotta incriminata: ««In tema di maltrattamenti (art. 572 c.p.), il fatto che i singoli episodi costituenti nel loro complesso la condotta criminosa siano commessi durante lo stato di ubriachezza, in cui l’imputato frequentemente versa, non implica che esse siano da considerarsi frutto di violazioni episodiche perché

scaturite improvvisamente dalla crisi alcolica e, quindi, non inserite in quella unitaria coscienza e volontà di sottoporre i soggetti passivi a continui patimenti fisici o morali, che integra il delitto» (Cass. pen. sez.

VI, sent., 20 settembre 1999).

 

[6] Che costituiscono gli ingredienti irrinunciabili per inverare la sua sinergia con il finalismo rieducativo che informa la pena nello Stato sociale di diritto (art. 27 co.1 e co. 3 Cost.) e che risulta obliterato ogniqualvolta si accettano presunzioni di dolo per semplificare l’accertamento probatorio dell’elemento soggettivo del reato. Già nel diritto penale nel modello illuministico (con l’affermazione del sinallagma libertà-responsabilità e la conseguente inaggirabile necessità di accertare l’appartenenza psichica del fatto al suo autore) e, a fortiori, nel diritto penale nel paradigma costituzionale (in virtù, della parificazione, quanto meno, della funzione rieducativa rispetto a quella intimidatrice e retributiva della pena) la sinergia tra pena e reato non è derogabile sull’altare di politiche criminali efficientiste giustificate da esigenze (spesso mediaticamente sovrastimate) di prevenzione di fatti comunicativi di intenso allarme tra i consociati.

[7] Difatti, più che di arretramento/anticipazione della soglia di punibilità (intesa, in senso lato nel contesto, come sintesi di modalità ed intensità della reazione statuale al reato) da cui trapela l’ideale di matrice liberale del diritto penale come limite al potere punitivo (Magna Charta del reo mutuando l’espressione adottata da Franz Von Liszt nel ‘Programma’ di Marburgo pubblicato nel 1883) dello Stato, assumendo, quindi, la prospettiva del reo, in siffatte ipotesi delittuose ispirate da esigenze di preminente salvaguardia di una determinata classe di vittime da una determinata categoria di delitti, sarebbe più corretto, assecondando la prospettiva criminologica prescelta, parlare di avanzamento della soglia di punibilità perché il punto di vista assunto è quello della persona offesa.

[8] In tal senso, giova rilevare come in più occasioni la Suprema Corte ha riconosciuto l’applicabilità dell’arresto in stato di ‘quasi flagranza’ nei casi di maltrattamenti, laddove il reato si fosse comunque estrinsecato in una condotta apprezzabile nei suoi contorni materiali: «È configurabile lo stato di flagranza del reato di maltrattamenti in famiglia allorché il singolo episodio lesivo non risulti isolato, ma si ponga inequivocabilmente in una situazione di continuità rispetto a comportamenti di reiterata sopraffazione direttamente percepiti dagli operanti. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che correttamente era stata desunta la flagranza del reato sulla base della constatazione da parte delle forze dell’ordine delle condizioni dell’abitazione, delle modalità con le quali era stato richiesto l’intervento d’urgenza, delle condizioni soggettive della persona offesa, costretta a rifugiarsi presso una vicina per sottrarsi all’aggressione del figlio il quale, anche alla presenza degli agenti, non aveva esitato ad inveire contro la madre, ingiuriandola con epiteti vari)» (Cassazione penale sez. VI, 16/01/2019, n.7139). Come appare evidente dalla pronuncia annotata, gli elementi che sono valorizzati dalla corte – condizioni dell’abitazione, modalità con le quali era richiesto l’intervento d’urgenza, le condizioni psichiche della persona offesa – appaiono sì connotati da intrinseca materialità la quale, tuttavia, risulta ‘circostanziale’ rispetto al nucleo essenziale della fattispecie di maltrattamenti. In casi affini la Corte ha valorizzato anche indizi ‘immateriali’, tuttavia, beninteso, in situazioni in cui la contestuale presenza della vittima e del soggetto agente sul luogo del reato, era in grado di suggerire la dinamica degli episodi immediatamente precedenti: «In tema di arresto in flagranza, per la configurabilità della c.d. “quasi flagranza”, la nozione di “tracce” del reato, rilevante ex art. 382 cod. proc. pen. non va considerata in senso solo letterale del termine, quale indizio materiale della perpetrazione del reato, ma può ricomprendere anche l’atteggiamento tenuto dall’autore del fatto o dalla persona offesa che costituisca, con assoluta probabilità, un indicatore della avvenuta perpetrazione del reato in termini di stretta contiguità temporale rispetto al momento dell’intervento dalla polizia giudiziaria. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo l’arresto in quasi flagranza per lesioni personali, perpetrate dal marito in danno della moglie, operato, oltre che sulla base delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e del referto, anche grazie a quanto percepito dalla polizia giudiziaria al momento dell’intervento, essendosi la vittima chiusa a chiave nella camera da letto mentre l’indagato, completamente nudo, inveiva contro di lei)» (Cass. pen., sez. V, 28/11/2019, n. 3719). Nella pronuncia annotata, peraltro, si percepisce una residua nota di materialità nello svolgimento complessivo della vicenda che si esteriorizza di fronte agli organi della autorità inquirente che risiede nell’apparenza della condotta vessatoria o in ogni caso di natura oppressiva ai danni della persona offesa consumata nelle illazioni del marito.

[9] L’esclusione della necessità di sporgere denuncia-querela per il delitto de quo reca con sé due benefici: il primo, che consiste nella concreta possibilità di informare gli organi inquirenti di una sostanziale “quasi notizia di reato” ossia, in assenza di una condotta che già abbia integrato necessariamente gli estremi oggettivi della condotta di maltrattamenti, di dare avviso alle autorità di pubblica sicurezza al fine di prevenire l’effettiva consumazione del reato, ben potendo l’eventuale iscrizione della notizia di reato essere successivamente aggiornata e modificata. In breve, laddove la persona offesa a fronte dei primi soprusi subito dall’agente, si rappresenti, alla luce, ad esempio, del periodo di emergenza economica vissuto dalla famiglia, la concreta possibilità del ripetersi di siffatti atti di violenza da parte dell’agente, potrebbe informare gli organi della Procura demandati, come è noto, non solo a ricevere ma anche a «prendere notizia dei reati di propria iniziativa» (art. 330 c.p.p.). Laddove, la ‘quasi’ notizia di reato non dovesse risolversi nell’effettiva integrazione della fattispecie contestata, resterebbe nel limbo degli atti non costituenti notizia di reato (mod. 45 Procura della Repubblica); laddove invece dovesse risolversi nella commissione del reato, maggiori risulterebbero le possibilità di un intervento tempestivo da parte degli organi di Polizia Giudiziaria a fronte del ‘campanello di allarme’ già ricevuto dalla persona offesa. Il secondo beneficio consiste nella frequente verificazione del reato de quo in contesti familiari oggettivamente instabili e, sovente, tutt’altro che economicamente agiati ovvero in ogni caso in nuclei familiari costituiti anche da figli minori: fattori che incidono intensamente sulla scelta della presentazione della querela da parte della persona offesa.

[10] Invero, ormai pacificamente in dottrina si ritiene che la sedes materiae prescelta per il delitto p. e p. dall’art. 572 c.p. all’interno del Titolo XI riservato ai delitti contro la famiglia tradisce una concezione ormai superata del tessuto dei rapporti familiari stagliata sulla loro presunta centralità, sviluppandosi, nella realtà attuale rapporti di dipendenza spesso molto più stringenti e vincolanti di quelli familiari che impongono la necessità, sulla scorta di indagini criminologiche di tipo statistico e psichiatrico, di estendere la tutela anche a soggetti che, di regola, versano in condizioni di intrinseca debolezza in un rapporto professionale, contrattuale etc. Come è stato lucidamente osservato: «L’evoluzione del concetto di “famiglia” rende il bene giuridico di categoria, così come formulato, distante dalla coscienza sociale attuale. I maltrattamenti appaiono piuttosto focalizzati sull’esigenza di tutelare l’offesa che i familiari subiscono in ragione del legame che li unisce al soggetto agente, l’integrità psicofisica, la dignità di persona umana, che ne renderebbe più adeguata la collocazione tra i reati posti a tutela della personalità individuale», cit. Cassani, , La nuova disciplina dei maltrattamenti contro familiari e conviventi. Spunti di riflessione, Archivio penale, 3/2013. Nello stesso senso, cfr. Fiandaca-Musco:i quali individuano i destinatari della tutela non nel bene giuridico superindividuale della famiglia ma nei soggetti in posizione di vulnerabilità in ragione della loro posizione di subordinazione in contesti socio-economici (familiari o lavorativi che siano), in «colui che si trova esposto alla supremazia o all’arbitrio di un familiare o di un soggetto preposto alla sua cura o educazione», Diritto penale. Parte speciale, II, I, Bologna, 2011, 378.

[11] Come asserito, già dalle prime decisioni sul tema, dalla giurisprudenza di legittimità: «Va quindi osservato che la locuzione condotte reiterate vuol dire che si è in presenza di reato complesso, la cui “condotta criminosa”, cioè l’azione od omissione di cui è conseguenza l’evento da cui dipende l’esistenza del reato (art. 660 CP) è, nel caso di specie integrata da atti per sé costitutivi di condotte di minaccia o molestia. Pertanto il carattere decisivo della condotta criminosa consiste nella “ripetizione di “atti” qualificati “persecutori” in quanto il loro insieme cagiona l’evento ulteriore assorbente del reato sopra indicato» (Cass.pen., Sez. V, sent., 25 maggio 2011, n° 20859.

[12] Enunciato, che in termini meno ridondanti, esprime l’elementare necessità che il bisogno di rassicurazione sociale connesso all’esigenza di pena (Strafbedürfnis) non consente di eclissare l’esigenza di prevenire pregiudizievoli compressioni della libertà personale stridenti con la tavola dei valori costituzionale oltreché con le regole epistemologiche che presiedono e determinano il metodo di formazione della decisione giudiziale.

 

[13] Il delitto di minaccia, infatti, differisce dall’affine reato di atti persecutori perché si atteggia a reato di condotta e di pericolo in cui è l’oggettivo contenuto minatorio delle espressioni rivolte contro la persona offesa, per via diretta o indiretta, a rappresentare l’elemento costitutivo della fattispecie de qua, risultando irrilevante l’effettivo stato di turbamento procurato alla vittima.

In tal senso, cfr.  Cass. pen. sez. V, 16/12/2019, n.9392: «Ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 612 c.p., che costituisce reato di pericolo, la minaccia va valutata con criterio medio ed in relazione alle concrete circostanze del fatto, sicché non è necessario neppure che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta dell’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima (confermata, nella specie, la responsabilità dell’imputato che aveva aggredito fisicamente e verbalmente un uomo; a rendere gravi le parole pronunciate era soprattutto il contesto di violenza fisica e verbale all’indirizzo della persona offesa)». Nello stesso senso, cfr. Cassazione penale sez. II, 12/02/2019, n.21684: «Ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 612 c.p., che costituisce reato di pericolo, la minaccia va valutata con criterio medio ed in relazione alle concrete circostanze del fatto, sicché non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta dell’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima, il cui eventuale atteggiamento minaccioso o provocatorio non influisce sulla sussistenza del reato, potendo eventualmente sostanziare una circostanza che ne diminuisca la gravità, come tale esterna alla fattispecie». In senso conforme, cfr. Cass. Pen., sez. V, del 06/11/2013, n. 644; Cass. Pen., sez. V del 02/12/2008, n. 46528; Cass. Pen., sez. I, del 03/05/2016, n. 44128.

Pasquale Mastrolia

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