Appunti sulla riservatezza degli atti e dei documenti nel processo

Redazione 29/03/19
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di Roberto Bonatti*

* Ricercatore dell’Università di Bologna

Sommario

1. Delimitazione del problema

2. Un primo rimedio: l’inutilizzabilità della prova ottenuta in violazione di un dovere di riservatezza. Richiamo alla teoria delle prove illecite

3. Nuove tendenze

1. Delimitazione del problema

Le nuove tecnologie applicate al processo così come la crescente attenzione generale sul tema della riservatezza rendono sempre più chiara l’esigenza di un impianto normativo che consenta di offrire alle parti litiganti un insieme di strumenti a protezione delle informazioni che le stesse intendono utilizzare nel processo. Per le parti sempre più spesso l’insorgere di una controversia non è soltanto fonte di preoccupazioni sull’esito della lite e sui tempi ed i costi necessari per affrontarla ma anche per le conseguenze connesse con la possibile diffusione della notizia stessa dell’esistenza di una controversia. La notizia del conflitto giudiziale può essere facilmente ottenuta e propagarsi rapidamente mediante l’uso di motori di ricerca, siti internet ed anche socialmedia. Cosicché, anche per il processo civile, diviene essenziale affrontare la questione della protezione dei diritti dei singoli non soltanto rispetto al fine del processo, ossia il diritto oggetto della controversia, ma anche in relazione al mezzo impiegato, cioè rispetto al processo stesso.

Il tema della riservatezza nel processo civile è stato storicamente e fino a tempi relativamente recenti affrontato in modo sbrigativo e limitato: il processo giurisdizionale, si diceva, si svolge davanti ad organi dello Stato; perciò, esso è una attività riconducibile all’esercizio dei poteri pubblici e, in ultima analisi, appartiene alla sfera pubblica dello Stato. Conseguentemente, la riservatezza delle parti è stata considerata una esigenza recessiva rispetto alla pubblicità: tutti hanno diritto di sapere come lavorano i giudici, di verificare la correttezza delle motivazioni delle sentenze, di conoscere i contorni della specifica controversia per comprendere in base a quali elementi di fatto è stato applicato un principio di diritto. Così le parti che avessero cura alla riservatezza del loro contenzioso erano portate a preferire strumenti alternativi alla giurisdizione e principalmente l’arbitrato. La libertà che offre la procedura arbitrale, rispetto a quella giurisdizionale, è evidente anche per ciò che concerne la riservatezza perché alla clausola arbitrale spesso si accompagnano patti accessori o aggiunti che le parti sottoscrivono in ordine alla non divulgazione degli elementi che emergono durante il procedimento.

Analogamente, la tutela della riservatezza è uno degli aspetti peculiari del procedimento di mediazione: si pensi, in questo senso, agli obblighi di riservatezza del mediatore; alla previsione della possibilità di condurre sessioni separate con il divieto per il mediatore di riferire all’altra parte il contenuto di tali sessioni; alle regole di stesura del verbale di mancata conciliazione, nel quale solo in casi eccezionali devono essere inseriti i termini della proposta conciliativa non accettata da una o entrambe le parti [1].

I rapporti tra trattamento delle informazioni riservate e attività processuale sono vari e complessi e certamente non possono essere esauriti in poche righe. Basti ricordare che, in dottrina e specialmente quella di stampo tedesco [2], si distinguono due profili di riservatezza nel processo: un primo profilo riguarda quella verso l’esterno del processo, e si occupa di quell’insieme di norme che tendono a proteggere le informazioni che le parti si scambiano durante il processo dalla loro diffusione verso la collettività (unmittelbare Öffentlichkeit); il secondo profilo riguarda invece la riservatezza come esigenza interna al processo, vale a dire di tutela di una parte nei confronti dell’altra (Parteiöffentlichkeit).

In questo scritto l’indagine si concentra esclusivamente su questo secondo tipo e mira alla ricerca di strumenti che consentano ad una delle parti di sottrarre all’altra parte talune informazioni contenute negli atti processuali e, soprattutto, nei documenti depositati come prove in giudizio.

[1] Non si può tacere del fatto che proprio sotto quest’ultimo aspetto il procedimento di mediazione ha mostrato alcuni limiti, specialmente quando la conciliazione è delegata dal giudice e, in qualche modo, ad esso il mediatore deve sommariamente riferire di quanto accaduto durante le trattative e delle ragioni del loro fallimento, anche solo al fine di ripartire le spese di lite, in tutto o in parte, utilizzando la regola della causalità e non il principio generale della soccombenza. In questo caso lo stretto rapporto tra mediazione e processo giurisdizionale fa riemergere quelle preminenti esigenze di pubblicità che abbiamo detto essere proprie dell’attività del giudice, con la conseguenza che gli spazi che la riservatezza si era ritagliata nella struttura normativa della conciliazione vengono compressi, ridotti o finanche annullati.

[2] Wagner, Datenschutz im Zivilprozeβ, in Zeitschrift für Zivilprozeβ, 1995, p. 193 ss. Per approfondimenti, v. Resta, Privacy e processo civile: il problema della litigation «anonima», in Dir. informazione e informatica, 2005, p. 681 ss., spec. p. 686; Frassinetti, Pubblicità dei giudici e tutela della riservatezza, in Riv. dir. civ., 2002, II, p. 665 ss.

2. Un primo rimedio: l’inutilizzabilità della prova ottenuta in violazione di un dovere di riservatezza. Richiamo alla teoria delle prove illecite

L’approccio storico al tema della riservatezza nell’istruzione probatoria processuale ha affrontato un aspetto molto circoscritto: la casistica offriva infatti principalmente situazioni nelle quali una parte intendeva utilizzare nel processo una prova, normalmente documentale, ottenuta però in violazione di norme sulla riservatezza. Si pensi, ad esempio, alla produzione in giudizio di corrispondenza riservata, che una parte abbia illecitamente ottenuto intercettando la comunicazione (scritta, informatica o orale) destinata esclusivamente all’altra parte. Oppure al caso di un datore di lavoro che intenda utilizzare in un giudizio contro il lavoratore il contenuto di registrazioni effettuate sul luogo di lavoro in violazione dell’art. 4 st. lav.[3].

Si tratta di situazioni che apparentemente si possono verificare facilmente. Tuttavia, per il diritto processuale esse hanno generato più di un problema alla dottrina che ha tentato un inquadramento dal punto di vista delle regole processuali. Infatti, il punto è che mentre pare semplice individuare la norma sostanziale che in questi casi risulta violata molto meno lo è comprendere quale norma processuale applicare alla prova che venga acquisita al processo in conseguenza di tale violazione.

Senza poter in questa sede ripercorrere tutte le tappe dell’elaborazione dottrinale in questo contesto [4], queste situazioni sono state inquadrate tra le c.d. prove illecite, che, per la dottrina ritiene talvolta inammissibili [5], talaltra inutilizzabili [6]. Ad ogni modo, a prescindere dalla terminologia, anche in giurisprudenza si finisce per escludere che la prova illecitamente acquisita possa essere posta dal giudice a fondamento della decisione [7]. Ciò sia sulla scorta di argomentazioni di giustizia sostanziale sia anche ritenendo non consentito che l’ordinamento riconosca un vantaggio (processuale, in chiave probatoria) ad un soggetto che appaia il frutto della violazione di una norma (sostanziale, di protezione della riservatezza).

Si tratta però di un approccio ancora molto parziale al problema e privo di una impostazione sistematica sul tema complessivo della tutela della riservatezza. Ciò che in particolare risulta ancora del tutto non disciplinato è il modo in cui garantire la riservatezza di informazioni confidenziali rispetto ad un uso lecito nel processo, ciò che si verifica anche e soprattutto quando la produzione del documento in giudizio avviene ad opera della stessa parte che invoca il diritto alla riservatezza.

[3] Su cui, dopo la riforma di tale norma, v. Proia, Trattamento dei dati personali, rapporto di lavoro e l’impatto della nuova disciplina dei controlli a distanza, in Riv. it. dir. lav., 2016, p. 547 ss.; Maresca, Controlli tecnologici e tutele del lavoratore nel nuovo art. 4 dello statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 2016, p. 512 ss.; v. anche, più in generale, sugli aspetti sostanziali Dagnino, Tecnologie e controlli a distanza, in Dir. rel. ind., 2015, p. 988 ss.

[4] Per limitarsi ai profili di diritto processuale civile, si rimanda a Carnelutti, Illecita produzione di documenti, in Riv. dir. proc. civ., 1936, p. 63 ss. e a Vigoriti, Sviluppi giurisprudenziali in tema di prova illecita, in Riv. dir. proc., 1972, p. 322 ss.; più di recente, Comoglio Le prove civili, Torino, 2010, p. 173; G.F. Ricci, Le prove illecite nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, p. 34 e G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, 1999; Graziosi, Usi e abusi di prove illecite e prove atipiche nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, p. 693 ss.; Passanante, La prova illecita nel processo civile, Torino, 2017.

[5] Per un excursus, v. Passanante, La prova illecita nel processo civile, cit., p. 186 ss.

[6] Graziosi, Usi e abusi, cit. p. 693 ss.; Ferrari, La sanzione dell’inutilizzabilità nel codice della privacy e nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2013, p. 348 ss., Piovano, Sull’utilizzabilità dei documenti illecitamente ottenuti, in Giur. it., 2014, p. 2480 ss.

[7] Cass. civ., 8 novembre 2016, n. 22677; Cass. civ., 29 maggio 2013, n. 13319 in Riv. dir. trib., 2014, p. 3 ss.; Cass. civ., 28 aprile 2015, n. 8605, in Giur. it., 2015, p. 1610, con nota di Turchi, Legittimi gli accertamenti fiscali basati sulla lista Falciani e di Besso, Illiceità della prova, segreto bancario e giusto processo.

Interessante appare invece la soluzione contraria offerta da Trib. Milano, sez. imprese, 27 luglio 2016 n. 9431, in www.giurisprudenzadelleimprese.it, che ha ammesso la produzione di e-mail illegittimamente carpite affermando che, poiché manca nel processo civile una norma che vieta l’uso di prove illecite a differenza di quanto accade nel processo penale, occorre separare la questione processuale della produzione del documento che è connessa con l’esercizio del diritto di azione e di difesa costituzionalmente garantiti (e dunque sempre consentita), dalla questione sostanziale relativa alle modalità di acquisizione della documentazione, che andrà risolta secondo il diritto civile o il diritto penale, a seconda della tipologia di illecito, ma comunque in altro e separato giudizio.

3. Nuove tendenze

Proprio questi ultimi profili sono però oggi oggetto di alcune nuove tendenze normative, che dimostrano una maggiore sensibilità al tema della riservatezza nel processo.

Probabilmente anche in questo contesto ha aiutato la spinta propulsiva del diritto eurounitario e della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Esempio di ciò è in primo luogo la presenza nei regolamenti di procedura dell’istituzione giudiziaria dell’Unione, di diverse disposizioni relative al trattamento delle informazioni riservate nel processo [7]. Inoltre, già da tempo la giurisprudenza della Corte ha avuto modo di affrontare il tema del trattamento riservato delle informazioni tra la parte ed il suo difensore, ad esempio affermando che la riservatezza non copre soltanto la comunicazione finale tra avvocato e cliente ma anche la parte preparatoria di tale comunicazione, come può accadere nello scambio di informazioni tra i due avvocati che compongono il collegio difensivo della stessa parte [9] oppure distinguendo i profili di riservatezza che vengono in rilievo a seconda che il legale di un’azienda sia interno alla sua organizzazione ovvero sia scelto nel libero foro [10].

Nel nostro ordinamento accade con sempre maggiore frequenza che il legislatore inserisca disposizioni specificamente mirate alla tutela della riservatezza all’interno di interventi normativi di ampio respiro.

In questo senso mi pare non trascurabile l’art. 136, comma 2, del d.lgs. n. 104/2010 recante codice del processo amministrativo, nella parte in cui prevede disposizioni specifiche, anche in deroga all’informatizzazione dei depositi di atti e di documenti nel processo, in situazioni eccezionali tra cui, espressamente, l’esistenza di particolari ragioni di riservatezza legate alla posizione delle parti o alla natura della controversia. In questi casi il processo si adatta e si modifica proprio per tutelare la riservatezza dei contendenti, attribuendo al presidente del T.A.R. o del Consiglio di Stato il potere di determinare le modalità concrete affinché il deposito degli atti e dei documenti avvenga nel rispetto della riservatezza evidenziata dalla parte istante.

Ancor più recente è l’art. 3 del d.lgs. n. 3/17 in tema di azioni risarcitorie conseguenti ad illeciti concorrenziali. Si tratta di norma che colpisce anzitutto per l’ampia definizione di informazione riservata, che rende molto utile e facilmente utilizzabile questo strumento: si tratta, in generale, di tutti i documenti che contengano informazioni di carattere personale, commerciale, industriale e finanziario relative a persone e imprese, ovvero segreti commerciali o connessi al know how. Così, se il giudice dispone l’esibizione di dati o di documenti che contengono una di queste informazioni, egli ha la possibilità di indicare modalità del tutto peculiari con cui ciò possa avvenire tra cui, ad esempio, la possibilità di oscurare alcune parti dei documenti; di incaricare degli esperti, terzi ed imparziali, di elaborare i dati sensibili in modo da poterli presentare solo in forma aggregata o altra forma idonea ad evitare la divulgazione dell’informazione riservata; di circoscrivere il numero delle persone che possano avere accesso al documento esibito; di disporre che l’udienza avvenga non pubbliche per l’illustrazione di tali informazioni.

Sebbene questi interventi normativi siano ancora settoriali e dunque confinati in particolari tipi di controversie, sembra potersi intravvedere un embrione di tutela generale della riservatezza delle parti idoneo ad essere applicato ad una serie di controversie potenzialmente indefinita. Importante è in questo senso l’individuazione, da parte del legislatore, di specifiche azioni possibili che, sebbene non siano tassative e dunque non esauriscano il novero delle opzioni per il giudice, tuttavia indicano ormai ben marcata la strada affinché il processo non sia più visto soltanto come il luogo in cui pubblicamente le parti si confrontano su propri diritti, ma anche quello nel quale è possibile modulare l’intensità della voce con cui si dibatte, a seconda che le informazioni che vengono scambiate siano più o meno sensibili.

[8] L’intera sezione 3 del reg. proc. del Trib. UE (artt. 103 e 104) è proprio dedicata al trattamento di informazioni, atti e documenti riservati prodotti nell’ambito dei mezzi istruttori.

[9] Trib. UE, 19 settembre 2007, in cause riunite T-125/2003 e T-253/2003 (Akzo Nobel); Trib. UE, 4 aprile 1990, in causa T-30/89 (Hilti).

[10] Corte giust. UE, grande sezione, 14 settembre 2010, in causa C-550/07P (Akzo Nobel), in Dir. comm. int., 2011, p. 243 con nota di Capecchi, La tutela della riservatezza delle comunicazioni tra un’impresa e il suo legale interno, nella quale la Corte precisa che «quando un’impresa si rivolge al suo avvocato interno, essa tratta non con un terzo indipendente, ma con una persona che fa parte dei suoi dipendenti nonostante gli eventuali doveri professionali derivanti dall’iscrizione all’ordine forense. Occorre aggiungere che, anche supponendo che la consultazione di avvocati interni, dipendenti dell’impresa o del gruppo, debba rientrare nel diritto di farsi consigliare, difendere e rappresentare, questo non esclude l’applicazione, in caso di intervento di avvocati interni, di determinate restrizioni e modalità relative all’esercizio della professione, senza che ciò debba considerarsi un pregiudizio ai diritti della difesa. Così, non sempre i giuristi d’impresa possono rappresentare il loro datore di lavoro dinanzi a tutti i giudici nazionali, mentre simili norme restringono le possibilità a disposizione dei potenziali clienti nella scelta del consulente legale più adeguato. Da tali considerazioni deriva che ogni soggetto che intende avvalersi della consulenza di un avvocato deve accettare siffatte restrizioni e condizioni associate all’esercizio di tale professione. In dette restrizioni e condizioni rientrano le modalità della tutela della riservatezza delle comunicazioni tra avvocati e clienti». L’orientamento della Corte è però più risalente, e si ritrova anche nella sentenza 18 maggio 1982 in causa 155/79 (AM&S), in Riv. dir. int., 1983, p. 893 ss.

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