Applicazione dell’articolo 2236 c.c. nella valutazione penalistica della colpa medica: si o no?

Panaia Assunta 01/04/10
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Il tema della colpa costituisce senza dubbio l’aspetto più importante e, spesso, più problematico nei giudizi di responsabilità penale medica. Ne consegue che il primo tradizionale problema su cui dottrina e giurisprudenza si sono concentrate riguarda il grado della colpa necessario a fondare la responsabilità del medico: è sufficiente qualsiasi colpa del medico ovvero dovrà richiedersi la dimostrazione di una sua colpa grave, così come richiesto, ai fini della responsabilità civile, dall’art. 2236 c.c. che prevede “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde se non di dolo o colpa grave”? Nell’ambito della migliore dottrina e giurisprudenza più recente e prevalente si coglie una propensione a costruire, nello sforzo di razionalizzare e semplificare il sistema, talvolta con argomenti logico sistematici differenti, un concetto unitario della colpa professionale medica, valido a fondare la valutazione della responsabilità sia di carattere penale che di carattere civile.

Tuttavia, si tratta solo di tendenza, perché, come avremo modo di constatare, tuttora, nelle sentenze della Cassazione si colgono sull’argomento non poche deleterie oscillazioni, se non altro sul piano teorico. Prescindendo dall’analizzare la più antica giurisprudenza di legittimità che, ritenendo applicabile l’art. 2336 c.c. nella valutazione della responsabilità penale medica, aveva finito per determinare una moltiplicazione delle pronunce assolutorie, si ritiene opportuno puntare l’attenzione sugli orientamenti giurisprudenziali venutisi a formare successivamente ai puntuali obiter dicta, posti  come importanti paletti dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 1973, che, nel contribuire a una relativa sistemazione della spinosa materia, non hanno disconosciuto l’incidenza delle regole dettate dall’art. 2236 c.c. in un sistema che dovrebbe accortamente coniugare il grado della colpa alle specifiche forme della responsabilità colposa, precisando, però, che l’accertamento della colpa esclusivamente in termini di <<gravità>> risulta improntato a un criterio di ragionevolezza tutte le volte che ricorra un errore tipicamente professionale, derivante pertanto da difetto di perizia, e non anche quando si rientri nell’ambito dell’imprudenza o negligenza.

A parte un indirizzo per così dire indulgente, secondo cui la limitazione della responsabilità alla sola colpa grave viene ritenuta applicabile anche alla violazione delle regole di diligenza,[1] complessivamente, nella giurisprudenza successiva all’intervento della Consulta, si riscontra un primo indirizzo, sostanzialmente aderente ai principi suesposti, focalizzato prevalentemente sulla necessità di valutare la colpa del medico nel ristretto ambito della colpa grave prevista dall’art. 2236 c.c. solo quando l’addebito sia mosso sotto il profilo dell’imperizia e non quando siano in questione negligenza ed imprudenza[2].

Si assiste, dunque, ad una tendenza della Cassazione caratterizzata da un forte impegno a distinguere forme e gradi di colpa, in base alle regole dettate dal codice civile, che si rinviene anche in quelle pronunce orientate sulla possibilità di limitare la responsabilità colposa solo quando il caso imponga la soluzione di problemi diagnostici e terapeutici in presenza di un quadro complesso. In proposito, la Corte di Cassazione ha precisato che <<l’errore del medico, conducente a morte o lesione personale del paziente, può essere valutato sulla base del parametro di cui all’art. 2236 c.c., cioè della colpa grave, solo se il caso imponga la soluzione di problemi di diagnostici e terapeutici in presenza di quadro patologico complesso e passibile di diversificati esiti terapeutici…

Diversamente, quando non sia presente una situazione emergenziale, o quando il caso non implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, così come quando venga in rilievo negligenza e/o imprudenza, i canoni valutativi della condotta colposa non possono non essere che quelli ordinariamente adottati nel campo della responsabilità penale per i danni cagionati alla vita o all’integrità dell’uomo (art. 43 c.p.) >>[3]. Tuttavia, a partire dagli anni ottanta, si è fatta strada una corrente giurisprudenziale, radicalmente opposta, divenuta oramai prevalente, che, facendo leva sull’impossibilità di procedere ad una rilettura dei gradi e delle forme della colpa penale attraverso sistemi di interpretazione analogica e estensiva, esclude l’applicazione delle previsioni dell’art. 2236 c.c. ai fini dell’apprezzamento della colpa professionale medica, che, al contrario, sarebbe sempre e comunque svolto sulla scorta delle regole generali di cui all’art. 43 c.p.

Vi sono sentenze della Corte Suprema che continuano a ritenere, almeno sul piano teorico, che le prescrizioni contenute nell’art. 2236 c.c. non possono esplicare alcun effetto restrittivo della disciplina dell’elemento psicologico del reato: non è possibile applicarle nell’ambito penale né con interpretazione estensiva, data la completezza e l’omogeneità della disciplina penale della colpa, né in via analogica, in quanto vietata per la natura eccezionale della disposizione rispetto ai principi vigenti in materia[4].

Cosicché, il concetto di colpa grave, previsto dall’art. 2236 c.c., va applicato solo in materia di responsabilità civile per danni cagionati nell’esercizio della professione medica che implichi la soluzione di problemi di speciale difficoltà. Tali divergenti prese di posizione rispetto alle precise indicazioni della Corte Costituzionale sono state più volte superate dalla giurisprudenza di legittimità, che ha spezzato il coordinamento fra specifiche forme e diversi gradi di colpa e ha pianificato, in tal modo, ogni forma di colpa nello schema della colpa grave, con una operazione tendente a riproporre i limiti e le preclusioni della giurisprudenza meno recente.[5]

La Corte di Cassazione, in alcune pronunce[6], sembra ricorrere a delle vere e proprie <<deroghe>> rispetto ai normali criteri di valutazione della colpa penale. Mentre, in altre, fa riferimento all’impossibilità di configurare specifiche forme di colpa entro gli schemi dell’art. 2236 c.c., allorché afferma che il giudice penale deve valutare la colpa del sanitario scevro da condizionamenti derivanti dalle prescrizioni imposte dalla suddetta norma civile, applicabile solo in sede di risarcimento e limitatamente alla colpa per imperizia, che non può, invece, determinare alcuna restrizione della disciplina dell’elemento psicologico del reato. Infatti, una volta che il giudice abbia ritenuto accertato l’elemento psicologico colposo, la valutazione di un maggiore o minore grado della colpa può avere rilievo solo ai fini e nell’ambito della disciplina penale e mai, quindi, con efficacia scriminante[7].

L’incertezza con la quale incede il Supremo Collegio ha suscitato non poche riserve e critiche in dottrina. Si rileva, infatti, che, in alcune sentenze, pur affermandosi che la colpa deve essere valutata alla stregua dell’art. 43 c.p., viene rimarcata la necessità che la condotta professionale del medico sia apprezzata con larghezza e comprensione, in considerazione della peculiarità dell’ars medica e delle difficoltà dei casi particolari (Cfr. Cass. sez. IV, 22 febbraio 1991, Lazzeri, Cass. Pen., 1992, 2756).

 In molte pronunce, se da una parte, si continua ad affermare, almeno sul piano teorico, la complessiva inapplicabilità analogica del criterio dell’art. 2236 c.c. al campo penale e, consecutio, la sua portata esclusivamente civilistica, dall’altra, si osserva che <<tuttavia, detta norma civilistica puo’ trovare considerazione anche in tema di colpa professionale del medico quando il caso specifico sottoposto al suo esame imponga la soluzione di problemi di specifica difficoltà’, non per effetto di diretta applicazione nel campo penale, ma come regola di esperienza cui il giudice possa attenersi nel valutare l’addebito di imperizia>>.

Ne deriva che, secondo la giurisprudenza più recente (Cass. pen. sez. IV, 10 maggio 1995, confermata da Cass. Pen. IV,  n. 39592 del 26/10/2007), la colpa professionale anche nell’ambito penalistico va apprezzata in concreto, tenendo conto di tutte le circostanze fattuali, tra le quali quelle relative alle difficoltà tecniche dell’intervento, che, se sono di un elevato grado, devono comportare una valutazione degli errori professionali meno rigida[8]; con l’inciso, però, che non si tratterebbe di una diretta applicazione nel campo della colpa penale dei principi espressi da altro ramo dell’ordinamento (art. 2236 c.c.), ma di regole di esperienza alle quali il giudice può e deve attenersi nell’accertamento di un addebito mosso sotto il profilo dell’imperizia. In definitiva, come rilevato dal Vitale, con un’operazione che potrebbe definirsi di ortopedia giuridica, anche queste sentenze finiscono per fare rientrare dalla finestra quello che cacciano via dalla porta.

Difatti, il Vitale stesso ha sottolineato che, affermare, sul piano teorico, la rilevanza della colpa penale, nella specifica materia, anche quando sia di grado lieve e poi precisare che se, in concreto, il professionista sia chiamato ad affrontare problemi tecnici di speciale difficoltà, il giudice è tenuto ad apprezzarne la sussistenza o meno utilizzando un parametro di valutazione che tenga conto di tali difficoltà e sia in definitiva meno rigoroso, equivale a dire, quanto alla responsabilità medica, che, dinnanzi ad un caso difficile, la culpa levior derivante da imperizia esiste solo se si tratta di imperizia grave e, dunque, di colpa grave.

Ad ogni modo, è chiaro che non si intende incorrere nel paradosso di considerare antigiuridica in sede penale una condotta che una norma giuridica dichiara espressamente lecita nella sfera civile. Ed è per questo che l’esigenza di riportare ad unità la valutazione della colpa penale e di quella civile, senza mai approdare a un’identificazione tra responsabilità civile e penale, accomuna la dottrina e la giurisprudenza più avvertite, seppure tra mille riserve e contraddizioni destate dalla complessità dell’accertamento della responsabilità penale del medico.

 


[1]     Cass., 7 luglio 1977, Castaldi, Riv. pen., 1978, 330; Cass., 15 febbraio 1978, Violante, Cass. pen., 1980, 1559; Cass., 16 giugno 1981, Calvo, C. E. D. Cass., n. 150293.

[2]     Cass., 11 gennaio 1978, Gandini, Cass. pen., 1980, 1570; Cass, 18 ottobre 1978, Andria, Cass. Pen. 1981, p. 548; Cass.  19 febbraio 1981, Desiato, In Riv. Pen., 1981, p.707; Cass., 30 novembre 1982, Massimo, C.E.D. Cass., n. 157496; Cass., 25 maggio 1987, Tomei, ivi, n.176606; Cass., 6 novembre 1990, Fonda, ivi, n.185685; Cass., 23 agosto 1994, Leone, Cass. pen., 1996, 825.

[3]     Cass., 23 marzo 1995, Salviati, in Cass. pen. 1996, p. 1835; Cass., 21 marzo 1988, Montalbano, in Cass. pen., 1989, p. 1242; Cass., 25 maggio 1987, Tomei, in Cass. pen., 1989, p. 218; Cass., 10 aprile 1984, Catena, in Giust. pen. 1985, 2, c. 280, n. 420; Cass., 27 gennaio 1984, Ricolizzi, in Riv. pen., 1985, p. 373; Cass., 24 giugno 1983, Veronesi, in Cass. pen., 1984, p.307; Cass., 11 luglio 1980, De Lilla, ivi, 1982, p.489; Cass., 19 novembre 1979, Rocco, in Giust. pen., 1981, II, c. 83; Cass., 30 ottobre 1979, Castellio, in Cass. pen., 191, p. 556; Cass., 13 dicembre 1977, Mongrovejo, ivi, 1980, p.1561, con nota di Napoleoni, Nuovi orientamenti del supremo Collegio in tema di responsabilità colposa nell’esercizio dell’arte sanitaria.

[4]     Cass., 22 marzo 1984, Conti, in Riv. pen., 1984, p. 976.

[5]     F. Siracusano, Ancora sulla responsabilità colposa del medico: analisi della giurisprudenza sulle forme e i gradi della colpa, cit. 2909.

[6]     Cass., 7 luglio 1977, Castaldi, cit.; Cass., 15 febbraio 1978, Violante, cit.

[7]     Cass., 21 ottobre 1983, Rovacchi, cit.

[8]     Bilancetti, La responsabilità penale e civile del medico, 396.

Panaia Assunta

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