Ancora sull’applicabilità dell’art. 2051 c.c. alla p.a. per omessa od insufficiente manutenzione di pubbliche vie: il punto alla luce di recenti pronunciati

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A) Il tema dell’applicabilità dell’art. 2051 c.c. alla p.a. per omessa od insufficiente manutenzione di pubbliche vie, cui segua un sinistro, è, ancora allo stato, assai discusso, e ciò in special modo alla luce dei progressi giurisprudenziali in fatto di onere probatorio.
 Tra i recenti dicta, degni di nota:
Cass. 1 ottobre 2004, n. 19653«L’applicabilità dell’art. 2051 cod. civ. (nei confronti della p.a. (o del gestore) non è automaticamente esclusa allorquando il bene demaniale o patrimoniale da cui si sia originato l’evento dannoso, risulti adibito all’uso diretto da parte della collettività . . . e si presenti di notevole estensione.. . . Queste caratteristiche del bene, infatti, quando ricorrano congiuntamente, rilevano soltanto come circostanze le quali – in ragione dell’incidenza che abbiano potuto avere sull’espletamento della vigilanza connessa alla relazione di custodia del bene ed avuto riguardo alle peculiarità dell’evento – possono assumere rilievo sulla base di una specifica e adeguata valutazione del caso concreto, ai fini dell’individuazione del caso fortuito e, quindi, dell’onere che la p.a. (o il gestore) deve assolvere per sottrarsi alla responsabilità, una volta che sia dimostrata l’esistenza del nesso causale».:
(Cass. 23 luglio 2003, n. 11446): «Nel caso di danni conseguenti ad omessa o insufficiente manutenzione di strade pubbliche, non è configurabile la responsabilità della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 2051 c.c. solo ove l’esercizio di un continuo ed efficace controllo idoneo ad impedire situazioni di pericolo per gli utenti, sia risultato oggettivamente impossibile a causa della notevole estensione del bene e del suo uso generale da parte dei terzi (nella specie, si è riconosciuta la responsabilità di un comune per i danni occorsi in seguito ad una caduta su strada urbana destinata, in parte, al transito pedonale ed in cattive condizioni di manutenzione». (Conformi, ex plurimis, Cass. 15 gennaio 2003, n. 488; 13 gennaio 2003 n. 298; 31 luglio 2002, n. 11366; 13 febbraio 2002, n. 2074; 13 febbraio 2002, n. 2067; 21 dicembre 2001, n. 16179; 20 novembre 1998, n. 11749; 28 ottobre 1998, n. 10579; 22 aprile 1998, n. 4070; 27 dicembre 1995, n. 13114; 21 gennaio 1987, n. 526; 4 aprile 1985, n. 2319; 30 ottobre 1984, n. 5567, 3 giugno 1982, n. 3392; 7 gennaio 1982, n. 58; tra la giurisprudenza di merito, Trib. Catania, 30 maggio 2005; Trib. Milano 3 marzo 2004, Trib. Brindisi 11 dicembre 2003, Giud. pace Segni, 18 maggio 2002, Trib. Venezia 12 maggio 2003, Trib. Cagliari 27 luglio 2000, Pret. Torino 27 gennaio 1997; Giud. Pace Reggio Calabria, 26 marzo 1997, id. , 18 marzo 1997, Pret. Monza 29 novembre 1986).
In sostanza, l’attuale diritto vivente ha in argomento definitivamente superato la presunzione – in voga in passato – secondo cui dalla demanialità del bene discendesse ipso iure l’inapplicabilità dell’art. 2051 c.c. e, quindi, la necessaria applicazione dell’art. 2043 c.c.. Da tale impostazione deriva, come è noto, un alleggerimento dell’onus probandiin capo all’attore nella fattispecie di responsabilità oggettiva ex art. 2051 c.c., rispetto alla fattispecie di generica responsabilità ex art. 2043 c.c..
Nella prima, infatti, sarà sufficiente dimostrare l’esistenza del rapporto soggetto – cosa – danno, e la prova liberatoria sarà più gravosa per il danneggiante, vertendosi in ipotesi di responsabilità presunta iuris tantum; nella seconda bisognerà quanto meno, allegare la colpa del danneggiante, che non dovrà superare alcuna presunzione di responsabilità.
Si legge, ancora, in Cass. 19653/2004:
 «Il principio (quello che nega l’applicazione dell’art. 2051 c.c. alle ipotesi analoghe al caso di lite, n.d.r.), però, nella più recente giurisprudenza di questa Corte, risulta sostanzialmente abbandonato proprio quanto a tale automatismo (vale a dire, l’automatica disapplicazione dell’art. 2051 c.c., n.d.r.), pervenendosi alla conclusione – certamente più rispettosa dell’assenza nell’art. 2051 cod. civ., di indici rivelatori di una peculiarità del trattamento da riservarsi alla P.A., allorquando rivesta la qualità di custode di una cosa – che la demanialità o patrimonialità del bene, l’essere esso adibito ad uso generale e diretto (sia pure mediato da provvedimento ammissivo della P.A. o da stipulazione di un vero e proprio rapporto contrattuale con essa) e la sua notevole estensione non comportano di per sé l’esclusione dell’applicabilità della norma dell’art. 2051, ma implicano soltanto che, nell’applicazione di tale norma e, quindi, nell’individuazione delle condizioni alle quali la P.A. può ritenersi esente da responsabilità in base ad essa, quelle caratteristiche debbano indurre una particolare valutazione delle condizioni normativamente previste per tale applicazione, in modo che venga considerata la possibilità che la situazione pericolosa originatasi dal bene può determinarsi in vari modi, i quali non si rapportano tutti alla stessa maniera con le implicazioni che comporta il dovere di custodia della P.A. in relazione al bene di cui trattasi e particolarmente quello di vigilare affinché dalla cosa o sulla cosa non si origini quella situazione». Ed ancora, conclude la S.C. «. . . il più recente orientamento di questa Corte non considera la combinazione delle tre caratteristiche della demanialità o patrimonialità del bene, dell’uso diretto da parte della collettività e della sua estensione automaticamente idonee ad escludere l’astratta applicabilità dell’art. 2051 cod. civ., bensì come circostanze, le quali, in ragione delle implicazioni che determinano sull’espletamento della vigilanza connessa alla indubbia ricorrenza della relazione di custodia del bene, possono svolgere rilievo ai fini dell’individuazione del caso fortuito e, quindi, dell’onere che la P.A, una volta configurata applicabile la norma e ritenuta l’esistenza del nesso causale, deve assolvere per sottrarsi alla responsabilità. Ancorché le citate pronunce non lo abbiano affermato expressis verbis, quelle caratteristiche finiscono, in sostanza, per giocare soltanto un rilievo ai fini dell’operare della prova liberatoria».
A ragionare diversamente da quanto appena riferito, si creerebbero delle situazioni di privilegio in capo agli Enti pubblici, che potrebbero sempre agevolmente dare la prova dell’impossibilità del controllo continuativo e dell’uso generale delle strade, e ciò in quanto la rete viaria è per sua natura estesa e sottoposta all’uso della generalità dei consociati. Tale ultima preoccupazione ha, quindi, fatto affermare alla S.C. che i limiti all’applicazione dell’art. 2051 c.c. – a vantaggio dell’applicazione dell’art. 2043 c.c. – vadano valutati con riferimento al caso concreto, con riguardo, cioè, alla tipologia della strada ed allo stato dei mezzi tecnologici attuali:
«Ora, non pare revocabile in dubbio che la possibilità o l’impossibilità di un continuo ed efficace controllo e di una costante vigilanza – dalle quali rispettivamente dipendono l’applicabilità o l’inapplicabilità dell’art. 2051 c.c. – non si atteggiano univocamente in relazione ad ogni tipo di strada. E ciò non solo in relazione alla loro estensione, ma anche alle loro caratteristiche, alle dotazioni, ai sistemi di assistenza che le connotano, agli strumenti che il progresso tecnologico volta a volta appresta e che, in larga misura, condizionano anche le aspettative della generalità degli utenti» (Cass. 15 gennaio 2003, cit.).
 
B) Spostando, poi, il discorso sul piano del nesso causale, se è vero che si ha responsabilità ex art. 2051 c.c. quando il danno si verifichi nell’ambito del dinamismo connaturato alla cosa (si veda, ancora, Cass. Cass. 20 maggio 1998, cit.), il custode deve attivarsi perchè la res , proprio nella sua normale interazione con il contesto circostante, non abbia a causar danni.
Verificatosi un danno, quindi, più alta era nel danneggiato, l’aspettativa a che lo stesso non venisse causato dalla res, in ragione del fatto che il custode aveva l’obbligo di adoperarsi per evitare proprio che da «quella» cosa derivasse «quel» danno, più alto è il grado di certezza che lo stesso debba ascriversi proprio alla cosa e, pertanto, sul piano della responsabilità, al custode medesimo.
Quanto appena esposto appare tanto più vero se si considera che gli utenti delle pubbliche vie, destinate per loro natura alla circolazione – a piedi o su mezzi di trasporto – si attendono che le stesse siano costantemente oggetto di manutenzione, sì da evitare che siano fonti di danno alla loro integrità personale, o, anche, a beni di loro proprietà (si pensi, ai mezzi di trasporto).
In ipotesi che potrebbero verificarsi nel vivere quotidiano, la presenza su strada di una non visibile sconnessione, determinante una caduta dell’utente della strada con danni alla sua persona, concreta pacificamente una responsabilità in capo alla p.a. proprietaria, rea di non essersi attivata in ordine alla rimozione di una fonte di pericolo per i consociati.
A nulla gioverebbe affermare, per sostenere l’inapplicabilità dell’art. 2051 c.c., l’incontrollabilità dello stato della via in questione stante la vastità della rete stradale, e ciò in quanto:
 I) Per fugare ogni dubbio sul fatto che le grandi dimensioni del demanio stradale comunale siano di ostacolo ad un controllo ed ad una manutenzione costanti, si ponga mente al fatto che la Corte di legittimità ha ritenuto applicabile l’art. 2051 c.c. persino alle autostrade, e ciò in considerazione che all’ente proprietario non è giammai impedita « . . . la possibilità di svolgere un’adeguata attività di vigilanza, che sia in grado di impedire l’insorgere di cause di pericolo per gli utenti . . .» (Cass. 13 gennaio 2003, cit.).
II) Inoltre, la giurisprudenza afferma costantemente che il controllo continuativo delle condizioni dei beni demaniali rientra negli obblighi (istituzionali) di manutenzione ordinaria, dai quali l’ente locale non può esimersi, ciò in quanto il progresso tecnologico predispone, oggi, gli strumenti di verifica più idonei ad evitare insidie (sul punto si legga, ancora, Cass. 15 gennaio 2003, cit.).
III) Infine, l’impossibilità da parte delle p.a. di esercitare, in concreto, la necessaria vigilanza delle strade de quibus – si pensi in specie a quelle versanti in uno stato di abbandono o semi – abbandono – si risolverebbe in una formula preconcetta e di mero stile, volta a creare una vera e propria presunzione di irresponsabilità in capo all’ente locale. Infatti, fatte salve le ipotesi di insidia che si vengano a creare improvvisamente, è molto più che prevedibile che su strade che non siano oggetto di manutenzione neppure periodica abbiano a verificarsi danni. Da quanto appena detto, per ritornare al caso della via in stato di abbandono, deriva che su essa vi è sempre la possibilità per l’ente proprietario di esercitare la dovuta custodia, il che si realizza rimuovendo la omissione di vigilanza e controllo, costituente un titolo di responsabilità ex art. 2051 c.c. tutte le volte in cui sia fonte di danno per i privati.
Come bene è stato detto in dottrina, il «. . . lasciare scoperto il tombino – anche se solo temporaneamente – senza adottare le opportune cautele comporti la violazione del ragionevole diritto del cittadino a confidare nell’assenza di rischio delle cose costituenti arredo urbano» (in tal senso, espressamente, Pardolesi, commento a Cass. 4 novembre 2003, n. 16257, Danno e responsabilità , 2004, 164).
C) In via subordinata, la responsabilità in parola potrebbe essere inquadrata, e lo è stato in alcune sentenze, nella fattispecie del risarcimento per fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c., e ciò alla luce del seguente, tradizionale filone:
«La p.a. nell’esercizio del suo potere discrezionale in ordine alla esecuzione e manutenzione di opere pubbliche, nonché nella vigilanza e controllo in genere dei beni demaniali, incontra i limiti derivanti sia da norme di legge che regolamentari, sia da norme tecniche, sia da norme di comune prudenza e diligenza ed, in particolare, dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere (art. 2043 c.c.), in applicazione della quale essa è tenuta a far sì che l’opera pubblica non presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto evidenziata dal carattere oggettivo della non visibilità e da quello soggettivo della non prevedibilità del pericolo. La p.a. incontra, nell’esercizio del suo potere discrezionale anche nella vigilanza e controllo dei beni demaniali, limiti derivanti dalle norme di legge e di regolamento, nonché dalle norme tecniche, e da quelle di comune prudenza e diligenza, ed, in particolare, dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere , in applicazione della quale essa è tenuta a far sì che il bene demaniale non presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile» (Cass., 12 novembre 1997, n. 11455; conf., id. , 28 luglio 1997, n. 7062).
Giorgio Vanacore
Avvocato in Napoli
giorgiovanacoreavv@libero.it

Vanacore Giorgio

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