All’esame della Corte Costituzionale le nuove norme del Collegato lavoro sull’indennità “omnicomprensiva” spettante al prestatore di lavoro

Redazione 01/04/11
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La Cassazione ha bocciato il sistema di indennizzo delineato dall’art. 32 della
L. 183/2010 per l’ipotesi di accertata illegittimità del termine apposto
ad un contratto di lavoro e conseguente conversione giudiziale dello stesso in
un rapporto a tempo indeterminato.
Prima dell’entrata in vigore del summenzionato art. 32, il giudice, nel caso in
cui avesse accertato con sentenza la nullità del termine apposto al contratto
di lavoro, oltre a convertire il rapporto in un rapporto ab origine a tempo
indeterminato, avrebbe dovuto, per diritto vivente, condannare il datore di lavoro
a riammettere in servizio il lavoratore, a corrispondergli le retribuzioni a partire
dall’atto di messa in mora sino all’effettiva riammissione in servizio, al netto
dell’eventuale aliunde perceptum, e a regolarizzare la sua posizione contributiva.
Su tale disciplina ha inciso in modo significativo il cd. collegato lavoro (L.
183/2010), il cui art. 32, co. 5, ha previsto che "Nei casi di conversione
del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al
risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella
misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo
8 della legge 15 luglio 1966, n. 604
". In presenza, poi, di contratti
ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le
organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori
già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie,
il limite massimo della suddetta indennità è ridotto alla metà
(art. 32, co. 6, L. 183/2010).
Con l’entrata in vigore delle disposizioni dell’art. 32 sull’indennità
risarcitoria si è posto il problema in ordine alla natura della stessa,
ovvero se dovesse considerarsi una forma di tutela "aggiuntiva" a quella
ordinaria risarcitoria o, piuttosto, "sostitutiva" rispetto ad essa.
Secondo la maggioranza della dottrina, la somma contemplata dall’art. 32 va a
sostituire l’ordinaria tutela risarcitoria, che tiene conto delle retribuzioni
mancate tra la cessazione del rapporto di lavoro e l’effettiva riammissione in
servizio; nella stessa direzione si sono posti alcuni arresti giurisprudenziali,
che hanno rilevato come l’intento del legislatore nel predeterminare la misura
massima dell’ammontare del risarcimento è stato quello di evitare che l’accertamento
della nullità del termine a distanza di anni dalla sua scadenza si risolva
per le aziende nell’obbligo di pagare somme molto ingenti.
Di diverso tenore risulta, invece, la decisione emessa dal giudice del lavoro
del Tribunale di Busto Arsizio, che, con la sentenza n. 528/2010, ha sostenuto
un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 32, co. 5, L. 183/2010,
la quale imporrebbe di ritenere l’indennità ivi prevista una tutela non
già "alternativa" ma "aggiuntiva" rispetto a quella
ordinaria risarcitoria, con la conseguenza che, in ipotesi di nullità del
termine apposto al contratto di lavoro, dovrebbero conseguire: 1) la conversione
del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con riammissione in servizio del
lavoratore vittorioso; 2) il pagamento, a titolo di risarcimento del danno, delle
retribuzioni non percepite dalla messa in mora sino all’effettiva riammissione
in servizio; 3) la corresponsione della nuova indennità introdotta dalla
L. 183/2010.
I giudici della Cassazione non hanno condiviso l’interpretazione secondo cui l’indennità
in questione non escluderebbe, ma anzi andrebbe ad aggiungersi al risarcimento
del danno sopportato dal lavoratore e da liquidare secondo le regole di diritto
comune. D’altra parte, l’espressione "indennità omnicomprensiva"
adoperata dal legislatore acquista significato solo escludendo la permanenza del
risarcimento del danno da mora accipiendi relativamente al periodo pregresso.
In senso più conforme alla lettera della legge i giudici di legittimità
riconoscono, dunque, che la nuova disciplina interviene sulla determinazione della
sanzione economica correlata alla conversione del rapporto di lavoro, calcolata
a prescindere dalla ricorrenza di un danno effettivo e senza che assuma rilevanza
la prova, da parte del datore di lavoro, dell’aliunde perceptum.
Ciò premesso, gli Ermellini rilevano come il danno sopportato dal prestatore
di lavoro a causa dell’illegittima apposizione del termine al contratto è
pari almeno alle retribuzioni perdute dal momento dell’inutile offerta delle proprie
prestazioni fino al momento dell’effettiva riammissione in servizio. Fino a questo
momento, spesso futuro e incerto, durante lo svolgimento del processo, il danno
aumenta col decorso del tempo ed appare di dimensioni anch’esse non esattamente
prevedibili. Come già rilevato da Trib. Trani (ord. 20 dicembre 2010),
nel contratto a termine, essendo prevista la conversione del rapporto e la riammissione
in servizio del lavoratore con efficacia ex tunc, e dunque la ricostruzione
del rapporto, ai fini della determinazione del danno, la durata del processo viene
ad assumere un’importanza fondamentale, posto che l’entità del danno è
direttamente proporzionale alla durata del processo, nel senso che quanto più
tempo il lavoratore dovrà attendere per ottenere una sentenza favorevole,
tanto maggiore sarà il danno che andrà a subire. La norma di cui
all’art. 32, co. 5, L. 183/2010, omette, invece, di dare rilevanza alle lungaggini
processuali, contenendo ingiustificatamente l’importo risarcibile.
Secondo la Suprema Corte, la liquidazione di una somma eventualmente sproporzionata
per difetto rispetto all’ammontare del danno potrebbe peraltro indurre il datore
di lavoro a persistere nell’inadempimento, eventualmente tentando di prolungare
il processo oppure sottraendosi all’esecuzione della sentenza di condanna, non
suscettibile di realizzazione in forma specifica. Né, ancora, appare opportuno
il riferimento, nella determinazione dell’indennità "omnicomprensiva",
ai criteri ex art. 8 della L. 604/1966, che hanno un senso solo con riguardo a
quelle situazioni nelle quali manchi il diritto al ripristino del rapporto. L’ipotesi
dell’art. 8, infatti, non riguarda il ristoro di un danno derivante dalla non
attuazione di un rapporto di durata, ossia di un danno di un ammontare che aumenta
con il trascorrere del tempo, giacchè il diritto all’indennità esclude
il diritto al mantenimento del rapporto.
Così interpretate, le nuove regole finiscono per vanificare il diritto
del cittadino al lavoro (art. 4 Cost.) e per ostacolare l’effettività della
tutela giurisdizionale, avallando un danno che aumenta con la durata del processo,
in contrasto con il principio affermato da una quasi secolare dottrina processualistica,
oggi espresso dagli artt. 24 e 111, co. 2, Cost., il quale esige l’esatta corrispondenza,
per quanto materialmente possibile, tra la perdita conseguita alla lesione
del diritto soggettivo ed il rimedio ottenibile in sede giurisdizionale
. Le
nuove regole, infine, sembrano contrastare anche con la normativa europea in materia.

E’ sulla base delle suesposte osservazioni che i giudici di legittimità,
con l’ordinanza interlocutoria 2112/2011, hanno rimesso alla Corte costituzionale
la questione di legittimità dell’art. 32 della L. 183/2010, nella parte
in cui, appunto, fissa un’indennità onnicomprensiva a titolo di risarcimento
per i dipendenti in una misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, sostenendo la violazione
degli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost. Non resta, a questo punto, che attendere
la decisione della Corte per approdare ad un esito definitivo della questione
(Anna Costagliola).

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