Affidamenti in house: la Corte costituzionale conferma l’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato previsto dal Codice dei contratti 

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La Corte costituzionale, sentenza n. 100 del 27/05/2020 ha escluso il vizio di eccesso di delega e la violazione del divieto di gold plating nella previsione, contenuta nell’art. 192, comma 2, Codice dei contratti pubblici, circa l’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato nell’ambito degli affidamenti in house.

Il rispetto dei principi di concorrenza, pubblicità e trasparenza, la discrezionalità legislativa, il quadro normativo euro-unitario e la continuità con la legislazione nazionale precedente, le principali ragioni  per quali la Corte è giunta alla conclusione della necessità della motivazione per scelte che hanno effetti sul mercato dei contratti pubblici.

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La sentenza della Corte costituzionale

Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti danno conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, delle ragioni del mancato ricorso al mercato.

Più in particolare, l’art. 1, comma 1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016, che pone il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie (cosiddetto gold plating), sarebbe violato perché l’onere di specifica motivazione delle ragioni del mancato ricorso al mercato non sarebbe previsto dalle direttive medesime.

L’art. 1, comma 1, lettera eee), della citata legge delega sarebbe invece violato poiché prescriverebbe, «per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico», la valutazione della congruità economica delle offerte degli affidatari, nonché la pubblicità e la trasparenza degli affidamenti, mediante l’istituzione, a cura dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), di un elenco di enti aggiudicatori, ma non l’ulteriore onere, introdotto dal legislatore delegato, di specifica motivazione delle ragioni del mancato ricorso al mercato.

 

Quanto alla violazione dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016, prevedono i giudici che il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie (il cosiddetto gold plating) è imposto da tale criterio direttivo e dalle norme da esso richiamate, ma non è un principio di diritto comunitario.

Il termine gold plating, tuttavia, compare nella comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, dell’8 ottobre 2010, che reca delle riflessioni e delle proposte per il raggiungimento dell’obiettivo di una legiferazione «intelligente», comunitaria e degli Stati membri, in grado di ridurre gli oneri amministrativi a carico dei cittadini e delle imprese.

Tuttavia, la ratio del divieto è quella di impedire l’introduzione, in via legislativa, di oneri amministrativi e tecnici, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria, che riducano la concorrenza in danno delle imprese e dei cittadini, mentre è evidente che la norma censurata si rivolge all’amministrazione e segue una direttrice pro-concorrenziale, in quanto è volta ad allargare il ricorso al mercato.

L’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato imposto dall’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, che risponde agli interessi costituzionalmente tutelati della trasparenza amministrativa e della tutela della concorrenza, non è dunque in contrasto con il criterio previsto dall’art. 1 comma 1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016.

E nemmeno sussiste la violazione dell’art. 1, comma 1, lettera eee), della medesima legge delega, che impone di garantire «adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche per questi, l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione».

Per tali motivi la Corte Costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, sollevata in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria.

I presupposti dell’in house providing

La disciplina dell’affidamento in house occupa un ruolo centrale sia nella normativa sugli appalti che nella materia delle partecipazioni pubbliche.

Occorre, pertanto, individuare i criteri che consentono alle amministrazioni pubbliche di poter legittimamente far ricorso all’affidamento in house.

La sentenza della Corte di Giustizia che ha definito inizialmente la materia è la c.d. sentenza Teckal (C-107/98), la quale fu la prima a definire i caratteri fondamentali della fattispecie comunitaria, enucleati in:

  1. Controllo analogo ai propri servizi interni che la P.A. aggiudicatrice deve esercitare sull’aggiudicatario in house;
  2. Attività prevalente che l’aggiudicatario deve svolgere a favore dell’ente locale aggiudicante.

Il primo requisito Teckal è il controllo analogo.

Questo risulta integrato anche in ragione della partecipazione pubblica totalitaria al capitale sociale dell’ente.

Tuttavia, la giurisprudenza in seguito ha chiarito come una eventuale partecipazione dei privati al capitale della società aggiudicataria non è condizione sufficiente ad escludere la configurabilità del controllo analogo.

La Corte di Giustizia ha avuto modo di precisare, inoltre, che il requisito del controllo analogo può essere integrato qualora risulti che il socio pubblico esercita una influenza determinante sul soggetto in house, tanto sugli obiettivi strategici quanto sulle decisioni importanti.

Il secondo requisito Teckal è rappresentato dalla circostanza che il soggetto in house svolga la propria attività prevalentemente in favore delle amministrazioni aggiudicatrici.

I presupposti, dapprima cristallizzati nella sentenza Teckal, trovano disciplina normativa all’art. 12 della direttiva 2014/24/UE, la quale, ai fini della legittimità dell’affidamento diretto, prevede: la totale partecipazione pubblica del capitale della società incaricata della gestione del servizio; la realizzazione della parte preponderante della attività della società con gli enti controllanti; il controllo analogo sulla società partecipata da parte degli enti.

L’articolo 5 del Codice dei contratti (D.lgs.50/2016) ha recepito i requisiti Teckal come indicati nelle direttive appalti del 2014, prevedendo che “una concessione o un appalto pubblico, nei settori ordinari o speciali, aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato non rientra nell’ambito di applicazione del presente codice quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: 

  1. l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; 
  2. oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore di cui trattasi; 
  3. nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata”.

 

L’obbligo di motivazione rafforzata

Il comma 2 dell’articolo 192 D.lgs. n.50/2016 ha introdotto un obbligo di motivazione rafforzata, in quanto prevede che la P.A. sia tenuta a fornire motivazione sia per quanto riguarda la sussistenza dei requisiti dell’in house che la convenienza economica del ricorso a tale figura piuttosto che al mercato. Pertanto, tale obbligo impone che la scelta di non ricorrere ad una gara pubblica, nonostante venga rimessa ad una valutazione pienamente discrezionale, deve essere adeguatamente motivata sia per quanto attiene alla sussistenza dei requisiti Teckal, alla luce dell’evoluzione interpretativa giurisprudenziale, che sotto il profilo delle ragioni che giustificano la convenienza economica di tale modello gestionale.

In particolare, la scelta che è tenuta a compiere l’amministrazione deve avere riguardo a obiettivi di efficienza, economicità, qualità del servizio e ottimale impiego delle risorse pubbliche.

Nel momento in cui l’amministrazione proceda attraverso una gestione in house del servizio, è tenuta a fornire motivazione circa la scelta di non ricorrere al mercato. Peraltro, come sottolineato dal Consiglio di Stato, sezione V, sentenza n. 3554 del 18/07/2017, in ragione della natura tecnico-discrezionale della scelta dell’amministrazione sussiste il limite nell’ordinario sindacato di legittimità svolto dal giudice amministrativo. Se tale motivazione non è affetta da manifesta illogicità o travisamento dei fatti, non è sindacabile in sede giurisdizionale, pena l’illegittimo ingerimento del giudice nell’attività discrezionale amministrativa.

Affidamento del servizio tramite procedura ordinaria o in house providing: la scelta del contraente da parte della P.A.

Il Consiglio di Stato con sentenza della V sezione, n. 681 del 27 gennaio 2020 afferma che l’in house providing riveste carattere eccezionale rispetto all’ordinaria modalità di scelta del contraente sul mercato ed è possibile solo se sussiste una reale convenienza per l’amministrazione. Qualora, invece, le condizioni economiche offerte dal mercato siano più convenienti allora l’in house providing non è esperibile (cfr. Cons. Stato, III, 17 dicembre 2015, n. 5732).

Peraltro, qualora l’esternalizzazione del servizio sia più conveniente, l’affidamento in house è illegittimo.

Aggiunge, inoltre, che la natura di società in house a totale partecipazione della stazione appaltante non può limitare le scelte. Occorre, pertanto, anche in questo caso, compiere una valutazione di convenienza. Qualora l’esternalizzazione del servizio sia più conveniente, questa è la via da percorrere.

In tale senso anche l’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 dispone che «ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all’oggetto ed al valore della prestazione, dando atto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche».

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