Addebito ingiustificato se l’abbandono del tetto coniugale è causa della crisi

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Con l’espressione “abbandono del tetto coniugale”si intende l’allontanamento di un coniuge con o senza figli dalla casa familiare, mettendo fine alla coabitazione matrimoniale, che rappresenta uno degli obblighi previsti dal legislatore e che nasce dal vicolo matrimoniale.

Abbandonare la casa coniugale fa seguire l’addebito.

Non ha importanza il luogo nel quale ci si trasferisce, se in un hotel, a casa di qualche amico oppure dai parenti.

In tempi recenti, è stato chiesto alla Suprema Corte di Cassazione se si possa configurare abbandono del tetto coniugale per chi si trasferisce a casa dei genitori.

Il dubbio è abbastanza fondato, essendo la convivenza uno dei doveri del matrimonio.

Se due coniugi non convivono non è possibile realizzare la “reciproca assistenza morale e materiale” menzionata nel codice civile, e che il documento normativo ritiene fondamentale in relazione alla famiglia.

Coloro che lasciano il coniuge, non possono in un secondo momento chiedere il mantenimento o rivendicare diritti ereditari.

Se abbandona la casa il coniuge che porta lo stipendio, lasciando il resto della famiglia senza risorse, si configura anche un reato.

Ai fini dell’addebito della separazione non rileva quanto tempo decorre dall’abbandono del tetto coniugale, quello che conta è che in relazione a un simile comportamento, ci sia l’intenzione di non ritornare più.

Anche dopo una settimana si potrebbe configurare il comportamento che il diritto di famiglia vieta,  se è seguita da dichiarazioni o atti che facciano pensare che si possa trattare di una volontà che abbia carattere definitivo.

Si legga anche:” Abbandono del tetto coniugale, conseguenze civili e penali”

Il reato disciplinato all’articolo 750 del codice penale

In relazione al profilo penale il comportamento dell’abbandono del tetto coniugale configurerebbe il reato sancito dall’articolo 570 del codice penale rubricato “violazione degli obblighi di assistenza familiare”, a norma del quale:
“Chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da Euro 103,00 a Euro 1.032,00″.
Sul tema la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 12310/2012, ha stabilito che perché si possa dire configurare il reato è necessario che l’allontanamento “risulti ingiustificato e connotato da un disvalore etico e sociale”.

Il trasferimento a casa dei genitori

Un caso a parte potrebbe essere rappresentato dalla circostanza nella quale uno dei coniugo si allontana da casa per andare a vivere dai genitori, perché sono vecchi e malati.

Ad esempio, potrebbe accadere che la moglie, preoccupata per i suoi genitori impossibilitati a muoversi, decida di lasciare la casa coniugale e ritornare a casa dei suoi.

Un simile comportamento denota un animo nobile e buono, di una persona pronta a sacrificare la sua vita coniugale per stare vicino ai genitori.

A questo proposito ci si chiede se in presenza di un simile comportamento si possa parlare allo stesso modo di violazione dei doveri che derivano dal matrimonio, se si possa configurare come abbandono del tetto coniugale.

La Suprema Corte di Cassazione si è espressa in proposito attraverso l’ordinanza n. 1448/2020 del 23/01/2020.

La posizione della Suprema Corte di Cassazione

Come di solito accade nell’ambito del diritto di famiglia, più che i principi, quello che davvero conta sono i fatti e le prove concrete.

Come scritto in precedenza, l’abbandono della casa familiare si verifica in modo esclusivo quando si manifesta l’intenzione di non volere più ritornare nella casa coniugale.

A questo proposito, si dovrebbe verificare che cosa ha detto il coniuge che si è trasferito all’altro coniuge prima di preparare i bagagli.

Se avesse detto:

“Mi trasferisco a casa dei miei genitori sino a quando non stanno meglio”, potrebbe bastare ad escludere l’addebito.

Se avesse pronunciato una frase del tipo:

“Mi trasferisco dai miei genitori perché non mi sento di lasciarli morire senza nessuno accanto”, potrebbe sembrare una sorta di volontà a carattere definitivo, oppure a tempo indeterminato, perché subordinata al decesso, che si potrebbe verificare anche dopo anni, e sarebbe un periodo di tempo non quantificabile.

Nel caso preso in considerazione, la Suprema Corte ha confermato, a carico del marito, l’addebito per la rottura del vincolo matrimoniale.

L’uomo aveva reso impossibile proseguire la convivenza con la dona che aveva sposato, a causa del suo carattere di figlio “attaccato ai genitori”.

La decisione della Suprema Corte di Cassazione

Sia in primo sia in secondo grado viene ritenuto decisivo “l’allontanamento” dell’uomo dalla “casa coniugale”.

Un’azione priva di giustificazione anche davanti all’ “esigenza di occuparsi della madre”, viene ritenuta come la causa che ha dato origine al contrasto con la moglie.

La posizione della giurisprudenza

Non si verifica abbandono del tetto quando l’allontanamento è di pochi giorni.

La cosiddetta “pausa di riflessione”, se è limitata, non è causa di addebito.

Secondo la giurisprudenza, l’abbandono del tetto coniugale non giustifica l’addebito se sia

motivato da una giusta causa, la quale, a sua volta, deve essere relativa a questioni del nucleo familiare, come le violenze subite oppure la presenza di una situazione di intollerabilità della convivenza tra i coniugi.

La violazione dell’obbligo di convivenza causa l’addebito della separazione, a meno che non si accerti la preesistenza di una crisi coniugale alla quale non si può porre rimedio.

Nel caso specifico, i giudici del merito avevano imputato a una situazione di prolungata ed estrema tensione tra i coniugi, da determinare l’impossibilità della prosecuzione della convivenza in modo civile, come causa della separazione.

La situazione si era verificata prima della violazione dei doveri coniugali di coabitazione da parte della moglie. (Cass. sent. n. 14591/2019 del 28/05/2019).

In qualunque situazione, chi chiede l’addebito deve dimostrare che la crisi coniugale è sorta a come conseguenza dell’abbandono del tetto coniugale da parte dell’altro coniuge e non da altri motivi che esistevano in precedenza.

La giurisprudenza ha evidenziato che l’abbandono del tetto coniugale costituisce esso stesso un motivo sufficiente perché si determini l’addebito della separazione nei confronti del coniuge che ha posto in essere un simile comportamento, perché è conseguenza dell’impossibilità della convivenza, a meno che non si riesca a dimostrare che l’abbandono sia stato causa del comportamento dell’altro coniuge, oppure si è verificato quando proseguire la convivenza era diventato intollerabile.

Nel caso in questione, è stato riconosciuto l’addebito della separazione in capo al marito, che aveva abbandonato la famiglia senza fare più ritorno, senza fornire nessuna giustificazione all’abbandono a causa della mancata costituzione in giudizio (Trib. Isernia, 06/02/2018, n.95).

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Dott.ssa Concas Alessandra

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