Depenalizzazione dei reati minori, ai sensi del D.lvo 28/2015: cui prodest?

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“Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi siano chiare, semplici e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle e nessuna parte sia essa impiegata a distruggerle…

Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà…

E il legislatore fa come l’abile architetto di cui l’officio è di opporsi alle direzioni rovinose della gravità e di far conspirare quelle che contribuiscono alla forza dell’edificio”  (cfr. C. Beccaria, “Dei delitti e delle pene”).

Perché ho richiamato, come sovente accade, il noto giurista, pur assegnatario della cattedra  di amministrazione di scienze delle finanze presso le Scuole Palatine di Milano? Perché ritengo che il nostro legislatore non abbia assolutamente colto nel segno, come si suole dire, con l’introduzione del presente decreto legge in vigore a partire dal due aprile del corrente anno.

Se l’obiettivo di tale provvedimento era la revisione del sistema sanzionatorio, con l’attuazione della legge delega 67/2014 in materia di pene detentive non carcerarie e depenalizzazione, a mio avviso si è compiuta una chiara “forzatura giuridica”. Trattasi, a chiare note, di una deroga al principio di obbligatorietà dell’azione penale, su cui comunque ci sarebbe da discutere (nota: per alcuni commentatori una amnistia od una sorta di sanatoria mascherata).

Il provvedimento, infatti, inciderebbe su centododici o centotredici delitti (cabala?) che vanno, ad esempio, “dall’abbandono di persone minori o incapaci”, ex art.591 del codice penale; “all’abuso di ufficio” (art.323), alla “appropriazione indebita” (art.646), sino a giungere al delitto di “furto” (art.624) od “all’occultamento di cadavere” (art.412 cod. pen. – nota: per una più accurata disamina dei reati in questione, vedasi “La depenalizzazione dei reati minori” di A. Concas, pubblicata il 12.01.2015).

I criteri che gravitano attorno al c.d. giudizio “di particolare tenuità del fatto”, sulla falsariga dell’istituto previsto nel processo penale a carico di imputati minorenni (cfr. il “non luogo a procedere per irrilevanza del fatto”, art. 27 D.P.R. 448/1988) sono i seguenti: la “particolare tenuità del fatto” (vedasi: “esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto”, come altresì previsto all’art.34 del D.lvo 274/2000 per i procedimenti davanti al giudice di pace), che implica una valutazione sulle modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo; e la “non abitualità del comportamento dell’autore” (nota: nel processo minorile definita “occasionalità del comportamento”). Solo in seguito ad un prodromico accertamento delle presenti condizioni da parte dell’organo giudicante, lo Stato “rinuncerà” ad applicare una pena – ergo procedere penalmente – limitandosi ad una tutela risarcitoria/restitutoria secondo lo schema tipicamente civilistico.

A mio sommesso avviso, con una interpretazione sottostante del provvedimento, si andrebbe in tal modo con il violare quella che risulta esser la “necessità del ricorso allo strumento penale”.

Citano i professori Fiandaca e Musco: “La necessità di ricorrere al diritto penale come strumento di tutela, si spiega sulla base di un incontestabile dato: i mezzi di protezione predisposti dagli altri settori dell’ordinamento non risultano sempre altrettanto idonei a prevenire la commissione di fatti socialmente dannosi, che è necessario impedire in vista della garanzia di una pacifica convivenza. Peraltro, il ricorso alla sanzione penale per antonomasia – e cioè la pena detentiva –, risulta in taluni casi ancor oggi inevitabile per scoraggiare le azioni dannose di coloro i quali non avvertirebbero, o perché “possono permettersi tutto” ovvero perché “non posseggono nulla”, l’effetto di sanzioni pecuniarie come il risarcimento del danno e simili” (cfr. Caratteristiche e funzioni del diritto penale, in “Diritto Penale Parte Generale”, Zanichelli ed. pag.4).

Il provvedimento troverebbe nuovamente la sua ratio giustificatrice nell’esigenza di deflazione del sistema penale, con conseguente minor “carico” processuale,  poggiando la sua stessa essenza sulla esiguità dell’illecito penale concreto e sulla occasionalità dell’azione (rectius: non abitualità).                         

La prodromica valutazione spetta al Pubblico Ministero, allorché acquisisce la notitia criminis, con la possibile richiesta di archiviazione, in sede di indagini, al G.I.P. La lettera b) dell’articolo 2 del decreto, apportando modifiche all’art.411 del codice di procedura penale, stabilisce che: “Se l’archiviazione è richiesta per particolare tenuità del fatto, il pubblico ministero deve darne avviso…alla persona offesa precisando che, nel termine di dieci giorni..può presentare opposizione in cui indicare, a pena di inammissibilità, le ragioni del dissenso rispetto alla richiesta”.

La prima (presunta) clausola di salvaguardia  – per controbilanciare gli interessi dello Stato, indagato e persona offesa dal reato – sarebbe prevista dalla suindicata formulazione. Sinceramente non vedo nulla di “rivoluzionario” in tale previsione giacché, negli articoli 409/410 c.p.p., era già presente l’istituto della opposizione, da parte della persona offesa, su cui il Giudice per le indagini preliminari doveva pronunciarsi (nota: al contrario, è semmai importante che nella querela la persona offesa indichi espressamente di esser informata – a pena di inammissibilità – in caso di richiesta di archiviazione avanzata dal Pubblico Ministero anche nel caso di “particolare tenuità del fatto” oltre che per la preesistente infondatezza della notizia di reato). Si aggiunga che il G.I.P. poteva – e può anche in tal caso – non accogliere la richiesta, restituendo gli atti al P.M. (nota: nulla vieta che la richiesta/giudizio di particolare tenuità del fatto, possa esser avanzata nelle successive fasi processuali). Il legislatore ha, quindi, ritenuto di tutelare la persona offesa, attraverso un “accertamento rigoroso” delle condizioni indicate per considerare un fatto-reato tipico, antigiuridico e colpevole, nonché offensivo del bene tutelato, in ordine al quale, tuttavia, appare ingiustificato l’esercizio dell’azione penale in proporzione al disvalore giuridico-sociale prodotto dal comportamento illecito. I tre parametri di riferimento per tale valutazione sono i seguenti:

1) “Particolare tenuità o esiguità dell’offesa”, attraverso la valutazione sulle modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo. Spetta all’organo giudicante, in sede di indagini o pre-post dibattimento, valutare il fatto; ma la norma esclude che “l’offesa non può esser ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili  o con crudeltà, anche in danno di animali o ha adoperato sevizie od ancora ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona”.
E’ opportuno sottolineare che al nostro sistema penale non è sconosciuto il concetto astratto di “dimensione quantitativa dell’illecito”, essendo diverse le disposizioni contenute nel codice (vedasi gli articoli 62 n. 4 e 648 cpv. cod.pen.) che incidono sulla punibilità del fatto, in ragione della sua connotazione “complessivamente esigua o tenue” ovvero di particolare tenuità di disvalore giuridico-sociale. Ma le disposizioni citate come esempio trattano specificamente la “quantità” del danno (patrimoniale) subito. La giurisprudenza si è poi affinata negli anni per sancire in quali casi possa ritenersi un “danno di rilevanza minima”, superando un precedente contrasto giurisprudenziale proprio sul tema della connotazione della “tenuità” del danno (vedasi SS.UU. n.35535/2007). Nel caso in esame, invece, ritengo sia  assai difficoltoso giuridicamente – e forse lasciato troppo alla discrezionalità del Giudice – stabilire quando, per le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo, si possa – ad esempio – archiviare (per “tenuità del fatto”), rischiando di creare delle “disparità di trattamento” tra indagati/imputati per fatti analoghi, difficilmente colmabili con una mera casistica di casi, stante la presenza di molteplici variabili.

2) “Non abitualità del comportamento”. Lo stesso articolo 1 definisce il “comportamento abituale”, allorché “l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità; nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. In questo caso l’organo giudicante non dovrà che visionare il certificato penale della persona, per verificare se ha subito, in precedenza, condanne in cui sia stata riconosciuta – ed applicata – la c.d. abitualità o professionalità (artt.102 e ss. cod. pen.) o la perpetrazione di reati della stessa indole (art.101). La tenuità del fatto potrà, quindi, applicarsi per condotte poste in essere da persone sia incensurate, ma anche – presumo – a soggetti con precedenti penali (ergo pregiudicati).

3) Per “i reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni”. Il limite edittale prescelto – che, come già indicato, annovera molteplici condotte di reato, anche di c.d.  “allarme sociale” -, corrisponderebbe, ritengo, alle pregresse modifiche già apportate, con precedenti riforme, per gli articoli 274, 280 del codice di procedura penale. Sul punto sarebbe interessante comprendere, per quanto riguarda l’ambito operativo della “causa di improcedibilità” in oggetto, se si applichi esclusivamente in relazione a reati rispetto ai quali ricorre una persona offesa, o se tale operatività vada ammessa anche nei casi di illecito penale c.d. senza vittima e/o persona offesa (ad esempio il reato di guida in stato ebbrezza alcolica). Ritengo sia inoltre interessante conoscere se, tanto in fase di contraddittorio sulla eventuale richiesta di archiviazione quanto nella fase dibattimentale, nei casi in cui la persona offesa non avanzi opposizione ovvero non si presenti in dibattimento e/o non si costituisca parte civile, il Giudice “a fortiori” – preesistendo i tre presupposti stabiliti ex lege – debba archiviare od emettere sentenza di non doversi procedere.

Il prologo della presente analisi acclarava, ictu oculi, la mia personale ritrosia nel considerare la presente riforma come positiva ed annoverabile nella c.d. strategia legislativa di tipo deflattivo. A leggere le impressioni degli organi di polizia, coloro che sono deputati alla nostra sicurezza, le stesse non depongono a favore del provvedimento, per intuibili ragioni. Non credo, infine, che lo stesso organo della Magistratura possa considerare il decreto legislativo in oggetto una “rivoluzione copernicana” (trattasi forse di un silenzio-assordante).

È proprio vero quello che tramandavano i Latini: “Lex aranea tela est, quia, si in eam inciderit quid debile, retinetur; grave autem pertransit tela rescissa” (traduz. “La legge è come una ragnatela poiché, se vi cade qualcosa di leggero, lo trattiene; ciò che è pesante, invece, la rompe e passa oltre”).

Alessandro Continiello

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