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Indice
- 1. La questione: carenza e illogicità della motivazione in riferimento alla mancata esclusione della recidiva
- 2. La soluzione adottata dalla Cassazione
- 3. Conclusioni: il giudice deve considerare l’applicabilità della recidiva alla luce del rapporto esistente tra il fatto per cui si procede e le precedenti condanne
1. La questione: carenza e illogicità della motivazione in riferimento alla mancata esclusione della recidiva
La Corte di Appello di Bologna confermava la condanna di un imputato per i reati di cui agli artt. 337 (Capo A) e 640 cod. pen. (Capo B), unificati sotto il vincolo della continuazione, e per l’altro in ordine al solo reato di cui all’art. 640 cod. pen..
Ciò posto, avverso questa decisione ricorrevano per Cassazione gli accusati i quali, tra i motivi ivi addotti, deducevano carenza e illogicità della motivazione in riferimento alla mancata esclusione della recidiva. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.
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2. La soluzione adottata dalla Cassazione
La Suprema Corte riteneva il motivo suesposto fondato.
In particolare, per gli Ermellini, la Corte territoriale non aveva fatto un buon governo del seguente principio di diritto: proprio perché la recidiva rileva quale elemento sintomatico di un’accentuata pericolosità sociale del prevenuto, e non come fattore meramente descrittivo dell’esistenza di precedenti penali per delitto a carico dell’imputato, il giudice è tenuto ad esaminare in concreto, in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., il rapporto esistente tra il fatto per cui si procede e le precedenti condanne, verificando se ed in quale misura la pregressa condotta criminosa sia indicativa di una perdurante inclinazione al delitto che abbia influito quale fattore criminogeno per la commissione del reato sub iudice (Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016).
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3. Conclusioni: il giudice deve considerare l’applicabilità della recidiva alla luce del rapporto esistente tra il fatto per cui si procede e le precedenti condanne
La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito in che modo il giudice può rilevare la sussistenza della recidiva.
Si afferma difatti in tale pronuncia, sulla scorta di un pregresso indirizzo interpretativo, posto che la recidiva non va considerata solo come il semplice dato dell’esistenza di precedenti penali, ma come indice di una maggiore pericolosità sociale, che, per questa ragione, il giudice deve valutare concretamente – secondo i criteri dell’art. 133 c.p. – il collegamento tra il reato attuale e i precedenti, per capire se la condotta passata riveli una persistente inclinazione a delinquere che abbia contribuito alla commissione del nuovo reato.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione per comprendere se il giudice abbia correttamente applicato la recidiva.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, poiché prova a fare chiarezza su siffatta tematica giuridica sotto il versante giurisprudenziale, non può che essere positivo.
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