Aggiungere una dipendente a un gruppo WhatsApp usando il suo numero privato senza consenso? Non è solo una leggerezza, è una violazione grave. Lo ha ricordato con chiarezza l’Agenzia spagnola per la protezione dei dati (AEPD) nel provvedimento n. EXP202310848, sanzionando LVMH Iberia, S.L. con una multa di 70.000 euro. E no, non basta dire “mancavano i cellulari aziendali”: la base giuridica non si improvvisa. In materia di cybersicurezza, abbiamo organizzato il corso Linee guida per la governance dei dati e dell’intelligenza artificiale. Abbiamo anche pubblicato la seconda edizione del Formulario commentato della privacy, disponibile su Shop Maggioli e su Amazon
Indice
- 1. Il caso: tra gruppi WhatsApp e “uso eccezionale” dei dispositivi personali
- 2. Il numero di cellulare personale è (ancora) un dato personale
- 3. Il nodo giuridico: nessuna base tra quelle dell’art. 6 GDPR
- 4. Una sanzione “molto grave” – e il precedente che parla chiaro
- 5. Riflessioni operative (e giuridiche): un altro caso da incorniciare
- 6. In conclusione: la privacy non si gestisce “per consuetudine”
- Formazione in materia per professionisti
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1. Il caso: tra gruppi WhatsApp e “uso eccezionale” dei dispositivi personali
Tutto nasce da una vicenda apparentemente banale, ma rivelatrice: una dipendente del gruppo LVMH lamenta di essere stata obbligata a usare il proprio numero personale per lavorare, in attesa di un cellulare aziendale che però non è mai arrivato. Durante una vacanza, la lavoratrice comunica via email di voler interrompere l’uso del numero privato per questioni lavorative e lascia spontaneamente il gruppo WhatsApp aziendale.
Il punto di rottura? Pochi giorni dopo, il suo numero viene reinserito nel gruppo, senza alcun consenso e senza alcun terminale aziendale a disposizione. L’azienda si difende sostenendo che l’inserimento era limitato a dipendenti e motivato da esigenze organizzative, vista l’indisponibilità temporanea dei dispositivi aziendali.
L’AEPD, tuttavia, non ha esitazioni: si tratta di un trattamento di dati personali privo di qualsiasi base giuridica, e quindi illecito. Abbiamo anche pubblicato la seconda edizione del Formulario commentato della privacy, disponibile su Shop Maggioli e su Amazon
Formulario commentato della privacy
La nuova edizione dell’opera affronta con taglio pratico gli aspetti sostanziali e procedurali del trattamento dei dati personali alla luce delle nuove sfide poste dall’evoluzione normativa e tecnologica degli ultimi due anni. La disciplina di riferimento è commentata tenendo conto dei rilevanti interventi a livello europeo e nazionale (tra cui le Linee Guida EDPB, i regolamenti AI Act e DORA, l’attuazione della direttiva NIS 2), offrendo al Professionista una guida completa e aggiornata.Il libro è suddiviso in tredici sezioni, che coprono ogni aspetto della materia e tutti gli argomenti sono corredati da oltre 100 formule e modelli. Tra le novità più rilevanti:• Connessioni tra il nuovo AI Act e il GDPR, differenze tra FRIA e DPIA, valutazione dei rischi e incidenti• Gestione del personale: smart working, telelavoro e whistleblowing• Strumenti di monitoraggio: controlli a distanza dei lavoratori, cloud computing e gestione degli strumenti informatici in azienda• Tutela degli interessati: una guida completa su profilazione, processi decisionali automatizzati e sull’esercizio dei diritti• Strumenti di tutela: sanzioni, reclami, segnalazioni e ricorsi al Garante.Giuseppe CassanoDirettore del Dipartimento di Scienze Giuridiche della European School of Economics della sede di Roma e Milano, ha insegnato Istituzioni di Diritto Privato nell’Università Luiss di Roma. Avvocato cassazionista. Studioso dei diritti della persona, del diritto di famiglia, della responsabilità civile e del diritto di Internet, ha pubblicato oltre trecento contributi in tema, fra volumi, trattati, voci enciclopediche, note e saggi.Enzo Maria Tripodiattualmente all’Ufficio legale e al Servizio DPO di Unioncamere, è un giurista specializzato nella disciplina della distribuzione commerciale, nella contrattualistica d’impresa, nel diritto delle nuove tecnologie e della privacy, nonché nelle tematiche attinenti la tutela dei consumatori. È stato docente della LUISS Business School e Professore a contratto di Diritto Privato presso la facoltà di Economia della Luiss-Guido Carli. Ha insegnato in numerosi Master post laurea ed è autore di oltre quaranta monografie con le più importanti case editrici.Cristian ErcolanoPartner presso Theorema Srl – Consulenti di direzione, con sede a Roma; giurista con circa 20 anni di esperienza nell’applicazione della normativa in materia di protezione dei dati personali e più in generale sui temi della compliance e sostenibilità. Ricopre incarichi di Responsabile della Protezione dei Dati, Organismo di Vigilanza e Organismo Indipendente di Valutazione della performance presso realtà private e pubbliche. Autore di numerosi contributi per trattati, opere collettanee e riviste specialistiche sia tradizionali che digitali, svolge continuativamente attività didattica, di divulgazione ed orientamento nelle materie di competenza.
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2. Il numero di cellulare personale è (ancora) un dato personale
Può sembrare ovvio, ma non lo è per tutti. L’AEPD ribadisce con forza un principio fondamentale del GDPR: il numero di cellulare personale di un dipendente è un dato personale ai sensi dell’art. 4, par. 1, GDPR. Di conseguenza, ogni utilizzo da parte del datore di lavoro per fini organizzativi o comunicativi rientra nella nozione di “trattamento”, ai sensi dell’art. 4, par. 2.
Il fatto che il numero fosse già stato usato nel contesto lavorativo (perché fornito in precedenza, magari informalmente) non autorizza un uso continuativo, né tanto meno una reintegrazione non richiesta in canali di comunicazione aziendali, come i gruppi WhatsApp.
3. Il nodo giuridico: nessuna base tra quelle dell’art. 6 GDPR
Il cuore della decisione dell’autorità spagnola è chiaro e inappuntabile: nessuna delle basi giuridiche previste dall’art. 6, par. 1 del GDPR può essere validamente richiamata nel caso specifico.
- Non vi era consenso (art. 6.1, lett. a): la dipendente aveva espressamente comunicato la volontà di non usare più il numero personale.
- Non vi era necessità contrattuale (art. 6.1, lett. b): l’uso del numero personale non era previsto dal contratto, né strumentale all’esecuzione dello stesso.
- Non vi erano interessi legittimi preponderanti (art. 6.1, lett. f): la gestione interna tramite WhatsApp non supera, in bilanciamento, i diritti e le libertà fondamentali della lavoratrice.
E neppure una policy interna può salvare la situazione. Disporre di una policy BYOD non legittima di per sé il trattamento se questa è in contrasto con la normativa: lo ribadisce l’AEPD, sottolineando che la mera predisposizione di regole aziendali sull’uso dei dispositivi non esonera il titolare dal rispetto degli obblighi di liceità, necessità e minimizzazione.
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4. Una sanzione “molto grave” – e il precedente che parla chiaro
L’Autorità spagnola ha classificato l’infrazione come molto grave, proponendo inizialmente una sanzione da 70.000 euro. La somma è stata ridotta del 40% in virtù del pagamento volontario e del riconoscimento di responsabilità da parte dell’azienda, ma resta un segnale forte e inequivocabile: anche una comunicazione apparentemente innocua – come aggiungere un numero a un gruppo – può diventare trattamento illecito se non è coperta da base giuridica.
La decisione non si ferma alla sanzione pecuniaria: l’AEPD ha infatti ordinato a LVMH Iberia di adottare misure correttive, documentando l’adozione di processi conformi alla normativa per l’utilizzo dei dati di contatto dei dipendenti. In particolare, l’uso dei numeri privati deve essere evitato o comunque subordinato alla presenza di una base giuridica adeguata.
5. Riflessioni operative (e giuridiche): un altro caso da incorniciare
Questo caso dimostra, una volta di più, che la gestione dei dati personali dei dipendenti non è terreno franco, né può essere sacrificata sull’altare della comodità organizzativa.
Per chi si occupa di compliance privacy in ambito HR, i takeaway sono netti:
- Mai dare per scontato il consenso, soprattutto se espresso informalmente e in un contesto di subordinazione;
- Mai sostituire la base giuridica con la prassi aziendale;
- Mai utilizzare strumenti di messaggistica privati (es. WhatsApp) come canali aziendali senza una policy strutturata, formazione e base giuridica chiara.
E per chi fa il DPO, come noi, è un’occasione utile per rispolverare DPIA, informative interne e regole sul bring your own device (BYOD), perché ogni smartphone è un piccolo hard disk ambulante, e ogni gruppo WhatsApp un potenziale data breach.
6. In conclusione: la privacy non si gestisce “per consuetudine”
Ci si potrebbe chiedere se tutto questo sia davvero proporzionato. “È solo un numero di telefono, mica un dato sanitario!”. Ma la risposta è già nel GDPR: non esistono dati personali di serie A e di serie B, esistono trattamenti leciti e illeciti.
Nel mondo del lavoro, la protezione dei dati è spesso vista come un ostacolo. In realtà, è una lente con cui rileggere i rapporti di potere, le dinamiche organizzative, e persino le scelte tecnologiche più banali. Perché aggiungere qualcuno a un gruppo WhatsApp non è solo un gesto di praticità: è un trattamento. E come tale, va governato.
Anche in azienda, anche se è solo “per comodità”, anche se “lo fanno tutti”.
E se proprio serve una regola d’oro, eccola: se non puoi spiegare il trattamento al Garante senza arrossire, forse è meglio non farlo.
Formazione in materia per professionisti
Linee guida per la governance dei dati e dell’intelligenza artificiale
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