Weil. La violenza come metodo, la non violenza come riflessione.

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La violenza è nell’uomo e si esprime nella perfezione della sua razionalità, essa si esalta attraverso l logica e si pone in alternativa alla ragionevolezza e al logos, è il portato del tutto o niente, dell’evoluzione dalla necessità della sopravvivenza di sé e del proprio gruppo alla programmazione della sopraffazione nel gruppo e tra gruppi, la violenza è una naturalità esperienziale, è la non violenza che è invece una maturazione del logos, un salto qualitativo di una libera scelta di fronte ai successi della violenza la quale tuttavia, come qualsiasi azione, lascia sempre il segno della forma in colui che la vive, l’evoluzione ha portato nella violenza non solo la tecnologia bensì la sua smaterializzazione nell’azione e nella pressione psichica, il controllo e la distruzione mediante l’azione immateriale sull’essere, le sottigliezze umane sono passate attraverso sistemi istituzionali e di comunicazione, privati o pubblici, fino ad arrivare all’attuale  massima perfezione di sintesi che è la rete, dove la violenza è diffusa ma anche impalpabile, tuttavia estremamente incisiva in quanto pervasiva e permanente (Ferraris, Mobilitazione totale, Laterza 2015).

La violenza è per Weil elemento costitutivo dell’uomo naturale, animale dotato di ragione  e linguaggio, circostanza che non comporta automaticamente la ragionevolezza, questa deve essere conquistata fornendo un senso all’uomo e per tale via distinguerlo dall’animale uomo, rendendo possibile la comunità umana attraverso il riconoscimento etico di sé e dell’altro, un dover essere kantiano nella ricerca incessante del proprio essere, in quanto l’uomo non è ma si deve realizzare, in questo deve scegliere, qui vi è la sua libertà tra l’agire nella ragionevolezza o rifiutarla mantenendosi nella pervasività della violenza quale condizione originaria umana, una violenza tanto esterna che interna al proprio essere, ma la possibilità della scelta e il problema che ne consegue lo differenzia dagli altri animali.

La violenza impone all’uomo la ricerca del senso, una ragionevolezza che neghi la negatività, tanto da permettergli il raggiungimento di quello che Weil chiama il “contento” quale opposizione all’insoddisfazione che vi è in lui, l’uomo che diventa filosofo deve pertanto effettuare una violenza seconda nel negare il negativo, riducendo alla ragione l’animale che è in lui, il logos cerca il senso e nel raggiungimento della pienezza del contento la ragione diventa realtà, in essa vi è il senso pieno della ragione filosofica, che calata nella vita supera la forma limitativa di una razionalità puramente materiale concentrata sul semplice calcolo di mezzi e risorse.

La filosofia di per sé è solo una delle forme della possibile esistenza dell’animale uomo, egli infatti può rifiutarla in favore di una possibile ragione del tutto materiale, volta al successo e alla vita pratica, negando il discorso filosofico in un’opposizione tra filosofia e non filosofia, facendo emergere l’originaria libertà di scelta fondata sulla radice del comune desiderio umano, ma il rifiuto della violenza attraverso la ricerca del senso espone il filosofo che parla alla violenza stessa, vi è in lui pertanto la paura della violenza mentre cerca di educare alla ragione,  una dignità da provarsi nell’esistenza di tutti i giorni, il discorso filosofico è quindi sulla violenza ma anche della violenza, essendo la violenza “origine” e necessità di provenienza della filosofia.

Se l’uomo è negatività e desiderio vi possono essere solo due vie, quella della violenza e quella della ragione, ossia di creare un senso nella vita, l’universalità ha pertanto bisogno del discorso, ma questa scelta radicale è una scelta libera senza una precisa ragione, è la volontà di essere ragionevoli senza volere presupporre altro, fondamento della ragione è la libertà che non deve tuttavia esaurirsi nella razionalità, il non senso della libertà viene quindi a precedere il senso della ragione, ma la libertà è anche violenza perché il passaggio al discorso è qualcosa di traumatico, è comunque una rottura tra la violenza e la ragione, la libertà ragionevole della ragione ha quindi origine nella libertà quale radice comune con la violenza, tanto che vengono utilizzati frammenti di logos per negare la ragione mascherando con il senso la violenza stessa.

L’uomo violento o dedito alla violenza non si interroga sul senso del suo agire, per lui la violenza non è un problema, egli vuole semplicemente vivere, appropriarsi della vita che sia un bene materiale o immateriale, egli rifiuta l’alternatività della ragionevolezza quale “non senso”, vive nella violenza, ne esercita e ne sente la pressione, punta alla vita come sopravvivenza e lotta per il possesso, ma non è in grado di distanziarsi dalla violenza per pensarla come problema, è il filosofo che pensa che lui pensi, nella realtà solo quando dall’esterno viene messo in discussione il suo agire e lui colga l’esigenza di ripensare il suo essere nel mondo, il suo vivere, può cogliere la possibilità di una libera scelta mai compiuta.

Essendo la ragione dentro l’orizzonte della violenza, la decisione per la ragione contro la violenza può essere sempre revocata essendo la violenza alla radice dell’uomo, tanto da presupporre l’uso della violenza per contenere la stessa violenza, questo comporta che la forza della ragionevolezza si trasformi nell’uso di una forza ragionevole per combattere la violenza e, nel limitarla, creare una volontà di dialogo che può essere anche “violenza del discorso” non potendo l’individuo identificarsi completamente nell’astrattezza del discorso stesso.

L’uomo si comprende attraverso il suo operare, vi è in questo una stretta connessione tra pensiero e storia nell’unità dello stesso, questi tuttavia agisce quale riflesso del linguaggio e del pensiero conoscitivo della comunità in cui è immerso, vi è quindi una molteplicità logica e storica di discorsi coerenti nell’intersoggettività in cui l’individuo pensa e sceglie sulla violenza oggettivizzandola nel suo tempo, ma l’individuo deve assumere la stessa violenza per contrastare e contenere la violenza, in questo vi sono le radici delle istituzioni repressive quali i tribunali, in quanto il passaggio dalla violenza al discorso è sempre contingente e individuale.

L’uso della violenza, comunque sia, lascia sempre una traccia, la capacità dei riformatori, di coloro che hanno abbracciato il discorso quale antitesi alla violenza, è quello di trasformare tale traccia nel fondamento avvaloriale, testimonianza del nuovo discorso, la non-violenza presuppone l’uso traumatico del discorso che nel manifestarsi provoca la violenza della reazione, la quale è diffusa trasversalmente dalle elités al popolo, è il venire meno di una certezza che pretende di riaffermarsi con un contro-trauma, la testimonianza suprema, come nel caso di Socrate, Gesù, Gandi, rinsalda definitivamente il discorso come pietra di paragone a cui volontariamente raffrontarsi, il passaggio dagli atti al contenuto del discorso, al riaffermarsi del principio, ne stabilisce la condanna che “democraticamente” la collettività accoglie e conferma, una condanna ampia che supera i dubbi di una parte dell’elité, la riaffermazione della violenza sul discorso ragionevole deve avvenire in luogo pubblico, che sia un tribunale o una piazza, ed è dal riformatore volutamente superato con un atto traumatico in cui la violenza è pubblicamente subita, richiesta, quale testimonianza della non-violenza e della richiesta rivolta agli altri del prendersi cura di sé attraverso il discorso.

Se prenderete cura di voi stessi, qualsiasi cosa facciate sarà gradita a me, ai miei e a voi medesimi, anche se ora non vi impegnate a nulla. Ma se invece non avrete cura di voi stessi e non vorrete vivere in modo conforme a ciò che ora e in passato vi ho detto, il farmi ora molte e solenni promesse non gioverà a nulla” (Fed., 115b – N. Abbagnano, Storia della Filosofia, Vol. I, 73, UTET, 1974).

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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