Il valore della domanda e la rilevanza delle clausole di stile

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Il principio codificato all’art. 10 cpc, in base al quale il valore della causa è determinato dalla somma

indicata nella domanda, è consacrato all’interno dell’art. 14 cpc in base al quale:“Nelle cause relative a

somme di danaro o a beni mobili, il valore si determina in base alla somma indicata o al valore dichiarato

dall’attore; in mancanza di indicazione o dichiarazione, la causa si presume di competenza del giudice adito.

Il convenuto può contestare, ma soltanto nella prima difesa, il valore come sopra dichiarato o presunto; in

tal caso il giudice decide, ai soli fini della competenza, in base a quello che risulta dagli atti e senza apposita

istruzione .Se il convenuto non contesta il valore dichiarato o presunto, questo rimane fissato, anche agli

effetti del merito, nei limiti della competenza del giudice adito.” Al primo comma, detta norma, prevede

due presunzioni:

– Quella del valore dichiarato

– Quello della competenza del giudice adito

Qualora l’attore non indichi la somma o non dichiari il valore l’art. 14 cpc dispone che la causa si presume di

valore pari al limite massimo della competenza del giudice adito. Da ciò consegue che se accanto alla

domanda in questione ne viene proposta un’altra, si verificherà automaticamente il superamento della

competenza del giudice adito. Questo perché la nuova causa, qualunque valore abbia, supererà per forza

tale competenza in quanto occupata nel suo limite massimo dalla causa di valore indeterminabile. Inoltre,

ove l’attore abbia formulato dinanzi al giudice di pace una domanda di condanna al pagamento di una

somma di denaro inferiore a Euro 1.032,91 e cioè al limite dei giudizi di equità c.d. “necessaria”, ai sensi

dell’articolo 113 c.p.c., comma 2, accompagnandola però con la richiesta della diversa ed eventualmente

maggior somma che “sarà ritenuta di giustizia”, la causa deve ritenersi – in difetto di tempestiva

contestazione ai sensi dell’articolo 14 c.p.c. – di valore indeterminato, e la sentenza che la conclude sarà

anche appellabile senza i limiti prescritti dall’articolo 339 c.p.c. (Cass. n. 9432/12; v. anche Cass. n.

10921/13). In altra occasione, invece, è stato ritenuto che qualora l’attore, oltre a richiedere una somma

specifica non superiore a Euro 1.032,91, abbia anche concluso, in via alternativa o subordinata, per la

condanna del convenuto al pagamento di una somma maggiore o minore da determinarsi nel corso del

giudizio, siffatta ultima indicazione, pur non potendosi reputare mera clausola di stile, non può, tuttavia,

ritenersi di per se’ sola sufficiente a dimostrare la volontà dello stesso attore di chiedere una somma

maggiore – ed ancor meno una somma superiore ad Euro 1032,91 – in assenza di ogni altro indice

interpretativo idoneo ad ingenerare quanto meno il dubbio che le circostanze dedotte siano

potenzialmente idonee a superare il valore espressamente menzionato e, in particolare, quello entro il

quale è ammessa la decisione secondo equità (Cass. n. 24153/10). Principio questo, ribadito e consolidato

dalla Cassazione sezione II civile sentenza 20 marzo 2017, n. 7095.

D’altronde, in materia di interpretazione della domanda e delle clausole comunemente utilizzate negli atti

processuali, dirette a non precludere pronunce attributive di un “quantum” maggiore di quello indicato in

domanda occorre precisare che la formula “o la somma maggiore o minore ovvero altra somma ritenuta

di giustizia” è priva di qualsiasi rilevanza, ed integra clausola di mero stile, qualora la originaria incertezza

sul quantum sia venuta meno, nel corso della fase istruttoria (ad esempio, essendo stata quantificata la

pretesa in esito all’espletamento di prove od alle indagini tecniche svolte nella c.t.u.): ed infatti, una volta

che si è pervenuti, all’esito della istruttoria, alla determinazione del quantum, il reiterato riferimento della

parte alla – non più attuale – originaria situazione di incertezza, si palesa oggettivamente inconferente

rispetto al dato acquisito nel successivo sviluppo dell’attività processuale e, dunque, la invocazione della

medesima clausola non assolve ad alcuna ulteriore esigenza funzionale, venendo a risolversi in una mera

forma stilistica. Cassazione Civile Sez. III 26 settembre 2017 n. 22330.(cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n.

6350 del 16/03/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 12724 del 21/06/2016). Ed ancora, nelle controversie per il

risarcimento dei danni derivanti dalla circolazione stradale accade assai di frequente che, in occasione della

trattativa stragiudiziale che precede la causa, l’assicurazione del responsabile civile versi una somma al

danneggiato, somma che viene trattenuta da quest’ultimo in acconto sul maggior dovuto. Dal principio in

base al quale il valore della causa si determina dalla domanda, discende, inoltre, la necessità che il valore

medesimo sia determinato non in base al decisum, ma al deductum ossia a quanto dedotto nell’atto

introduttivo del giudizio, con la conseguenza ulteriore che ai fini dell’individuazione della competenza per

valore non interessano i limiti entro cui la domanda potrebbe essere accettata. E così, in caso di domanda

di risarcimento dei danni, si è affermato che occorre avere riguardo non già ai limiti entro cui questa

potrebbe essere accolta, bensì alla “somma complessivamente pretesa dall’attore”, sommando con il

capitale gli interessi già scaduti e, limitatamente al periodo tra l’evento dannoso e la domanda stessa,

l’indennizzo del danno da svalutazione monetaria. In sostanza, bisogna considerare la domanda con ogni

suo accessorio al momento della relativa proposizione, cfr. Cassazione, sentenza 08 agosto 1984, n. 4639,

secondo cui “A norma degli art. 5 e 10 c. p. c., il valore della causa, ai fini della competenza, deve essere

determinato in base, non al decisum, ma al deductum e valutando la domanda con ogni suo accessorio al

momento della relativa proposizione, sicché in ipotesi di domanda di risarcimento dei danni, occorre avere

riguardo non già ai limiti entro cui questa potrebbe essere accolta, bensì alla somma complessivamente

pretesa dall’attore, sommando con il capitale gli interessi già scaduti e, limitatamente al periodo tra

l’evento dannoso e la domanda stessa, l’indennizzo del danno da svalutazione monetaria”. Anche la

dottrina afferma la rilevanza di ciò che è stato domandato, e non di ciò che il giudice nel merito accerterà

esistente, cfr. Luiso, Diritto processuale civile, I, 3ª ed., Milano, 2000.

Pertanto, quando il giudice di merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti sancito dall’art. 99

c.p.c., alteri gli elementi obiettivi dell’azione, petitum e causa petendi e, sostituendo i fatti costitutivi della

pretesa, emetta un provvedimento diverso da quello richiesto, cd.petitum immediato ovvero attribuisca o

neghi un bene della vita diverso da quello conteso, cd. petitum mediato configura il vizio di ultrapetizione o

extrapetizione. Più semplicemente, il vizio in questione ricorre quando il giudice pronuncia oltre i limiti

delle pretese o delle eccezioni fatte valere dalle parti, attribuendo alla parte un bene della vita non

richiesto o diverso da quello domandato. Corte di Cassazione – n. 9452 del 30 aprile 2014- Cass. 455/2011.

Avv. Fornaro Pasquale

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