Uno sguardo al c.d. tempo-tuta

Russo Marianna 10/07/14
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1.Premesse sull’orario di lavoro – 2. Gli indici dell’eterodirezione nel tempo-tuta – 2.1. Segue: a) L’obbligo di indossare la tuta nel luogo di lavoro – 2.2. Segue: b): La scelta datoriale dell’ubicazione degli spogliatoi – 2.3. Segue: c) La rilevazione della presenza – 3. La retribuibilità del tempo-tuta

 

  1. 1.             Premesse sull’orario di lavoro 

Il c.d. tempo-tuta, cioè il tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa da lavoro, è una mera attività preparatoria – e, pertanto, rientrante tra gli atti di diligenza di cui all’art. 2104 c.c. – oppure rientra a tutti gli effetti nell’orario lavorativo da retribuire?

È evidente quanto la questione sia rilevante per le ricadute economiche nei confronti dei lavoratori e dei datori di lavoro ed è per tale ragione che il contenzioso in materia è piuttosto elevato, dando vita a una variegata gamma di pronunce di merito e di legittimità, non sempre concordanti tra loro.

Per fare un po’ di ordine e chiarezza è necessario partire dal dato normativo: cosa si intende per orario di lavoro?

Nel R.D.L. 15 marzo 1023, n. 692, viene definito lavoro effettivo “ogni lavoro che richieda un’applicazione assidua e continuativa”[1], ma tale espressione non sembra sufficiente a fugare tutti i dubbi al riguardo. Il D. Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, focalizza, invece, l’attenzione sull’orario di lavoro, circoscrivendo il campo a “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”[2].

Alla luce della normativa vigente, dunque, il discrimen tra ciò che è orario di lavoro e ciò che non lo è consiste nell’eterodirezione, cioè nell’assoggettamento del lavoratore all’esercizio del potere organizzativo, direttivo e di controllo da parte del datore di lavoro, conformemente a quanto già individuato dal consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinale in materia[3]. Fin dalla pronuncia n. 3763 del 14 Aprile 1998, infatti, la Corte di Cassazione afferma che il tempo-tuta rientri nell’orario effettivo di lavoro “ove tale operazione sia eterodiretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione”[4].

 

 

 

  1. 2.             Gli indici dell’eterodirezione nel tempo-tuta

Se è ormai pacifico che per qualificare il tempo-tuta come orario di lavoro sia indispensabile la soggezione del lavoratore ai poteri del datore, ciò che divide la giurisprudenza è l’effettiva configurabilità dell’eterodirezione nelle varie ipotesi sottoposte al vaglio giudiziale[5].

Quali sono gli indici per individuare l’eterodirezione nella fase della vestizione/dismissione dell’abito da lavoro?

La Corte di Cassazione, nella pronuncia 21 ottobre 2003, n. 15734, ne delinea le principali caterristiche: “occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo dove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo necessario deve essere retribuito”.

Ovviamente, gli elementi utili a formare il convincimento del giudice sulla sussistenza dell’eterodirezione devono essere diligentemente e tempestivamente allegati dai lavoratori ricorrenti[6].

 

2.1.         Segue: a) L’obbligo di indossare la tuta nel luogo di lavoro

In base all’orientamento maggioritario, un indice rilevante dell’eterodirezione consiste nell’obbligo di indossare la tuta all’interno del luogo di lavoro[7]. A maggior ragione, la predisposizione –  all’interno dell’ambiente di lavoro – di appositi spogliatoi risulta una conferma dell’assoggettamento del lavoratore ai poteri datoriali anche nella fase preliminare della vestizione, come evidenziato da alcune recenti pronunce[8]. Di avviso contrario, però, è il Tribunale di Milano nella pronuncia dell’8 ottobre 2010: l’obbligo di indossare la tuta presso il luogo di lavoro sarebbe soltanto un’imposizione derivante dalla normativa legale in materia di salute e sicurezza, diretta ad assicurare la salubrità delle sostanze trattate, e, pertanto, non costituirebbe l’esercizio del potere datoriale. Lo stesso Tribunale, il 15 Aprile 2011, afferma come non sia il datore di lavoro ad imporre ai propri dipendenti di indossare la divisa, in quanto tale obbligo risponde ad un’esigenza – di ordine pubblico – di protezione della salute dei lavoratori. E la Corte di Cassazione, con la sentenza del 21 ottobre 2003, assimila addirittura il tempo-tuta ad “una serie di obblighi comportamentali di matrice culturale e sociale”.

 

2.2.         Segue: b): La scelta datoriale dell’ubicazione degli spogliatoi

Una parte della giurisprudenza indica come elemento di eterodirezione la scelta imprenditoriale di individuare sia l’ubicazione degli spogliatoi e dei reparti sia gli eventuali mezzi per raggiungerli[9].

Sul punto, è interessante la soluzione prospettata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: “ove l’accesso al punto di raccolta” per prelevare e riporre la divisa e i dispositivi di protezione individuale “costituisca una mera comodità per il lavoratore, l’orario di lavoro decorre dal momento in cui il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività presso il cantiere. Viceversa, se è richiesto al lavoratore di recarsi al punto di raccolta per utilizzare un particolare mezzo di trasporto o per reperire la strumentazione necessaria o, comunque, di porsi a disposizione del datore di lavoro presso detto punto raccolta entro un determinato momento, è a partire da quest’ultimo che deve computarsi l’orario di lavoro” [10].

 

2.3.         Segue: c) La rilevazione della presenza

Un altro indice di eterodirezione può essere ravvisato nella rilevazione – tramite badge elettronico, cartellini marca-tempo o tornelli – dell’ingresso del lavoratore all’interno dello stabilimento: fin da tale momento il dipendente risulterebbe a disposizione del datore di lavoro[11] e sottoposto al suo coordinamento spaziale e temporale, in una sorta di “assoggettabilità astratta”[12].

In tale ottica, la nozione di orario di lavoro non comprende solo la prestazione in senso stretto, ma “un concetto più flessibile ed esteso, che sicuramente integra operazioni strettamente funzionali alla prestazione” e a nulla rileva che “l’impresa non abbia adottato prescrizioni sui tempi entro i quali compiere tali operazioni, perché avrebbe potuto dare direttive sul punto”[13].

 

  1. 3.             La retribuibilità del tempo-tuta

Una volta accertata l’eterodirezione, il tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa viene considerato a tutti gli effetti orario di lavoro e, pertanto, come tale deve essere retribuito.

Non è semplice, però, la quantificazione del tempo-tuta e il contrasto giurisprudenziale sull’argomento ne è la conferma. Secondo il Tribunale di Gorizia[14], “il riconoscimento della retribuibilità del tempo impiegato non può essere rimesso ad una mera scelta discrezionale del lavoratore, ma deve essere parametrato al tempo strettamente indispensabile per eseguire le operazioni in questione secondo la normale diligenza”. Inoltre, la retribuzione deve essere corrisposta soltanto per le giornate di effettiva prestazione lavorativa[15]. Di diverso avviso è una recente pronuncia della Corte di Cassazione[16]: “la determinazione della durata del tempo in questione (e conseguentemente della correlativa controprestazione retributiva) è stata operata in via equitativa e con prudente apprezzamento, stante la difficoltà di accertare con precisione il quantum della domanda”. Analogamente, il Tribunale di Taranto[17] riconosce per il tempo-tuta soltanto una somma forfettaria, svincolata sia dalla quantificazione del tempo impiegato sia dalle giornate di effettiva prestazione lavorativa.

Infine, una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione affronta un punto piuttosto dibattuto, cioè se i costi per la manutenzione e il lavaggio della divisa spettino al lavoratore oppure al datore di lavoro. Nella sentenza 17 giugno 2014, n. 13745, la Corte esclude l’esistenza di un obbligo di carattere generale del datore di lavoro, limitandolo alle sole ipotesi in cui gli indumenti forniti possano essere considerati dispositivi di protezione individuale, “perché solo in tal caso sorgerebbe in capo all’amministratore l’obbligo di tenere indenni i lavoratori dai costi e di disagi del loro frequente lavaggio”.

Russo Marianna

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