Tutela e limiti dell’attivita’ sindacale

Redazione 26/10/06
Scarica PDF Stampa
(i) Introduzione
 
Fulcro del sistema delle relazioni sindacali è rappresentato dal principio della libertà di organizzazione sindacale solennemente espresso dall’art. 39 della Costituzione della Repubblica che al 1° comma sancisce: «l’organizzazione sindacale è libera».
Si tratta di un principio che segna una storica virata poiché, contrariamente a quanto avveniva nell’ordinamento corporativo, l’organizzazione sindacale diventa portatrice esclusivamente di interessi privati, sia pur collettivi, e non già di interessi pubblici.
Il principio, ha trovato conferma in numerose norme di carattere internazionale ed alla ulteriore tutela non si è sottratto il legislatore ordinario che, alla libertà sindacale nei luoghi di lavoro, ha dedicato il Titolo II ed il Titolo III (che andremo ad analizzare) della Legge 20 maggio 1970 n. 300.
Il tema della tutela e dei limiti dell’attività sindacale e del connesso ruolo dei soggetti coinvolti con particolare riferimento al momento della gestione delle trattative sindacali, è tema di quotidiana attualità che non coinvolge solo le parti interessate e gli addetti ai lavori ma, inevitabilmente, tutta la collettività quand’anche estranea alla singola trattativa.
Poiché libertà di organizzazione sindacale significa, anche, libertà dei singoli lavoratori e datori di lavoro di costituire organizzazioni sindacali, ed anche libertà di costituire una pluralità di organizzazioni sindacali all’interno di una medesima categoria professionale, o meglio di uno stesso settore di produzione, sarà interessante approfondire l’aspetto della tutela e dei limiti dell’attività sindacale cercando di verificare, in concreto, quale sia il ruolo effettivo dei soggetti coinvolti nelle singole trattative e quali le problematiche ed esse connesse.
 
(ii) Il Titolo III dello Statuto dei Lavoratori. Rappresentanze sindacali. Organizzazioni sindacali. Associazioni sul luogo di lavoro
 
Il punto di partenza per l’analisi che ci occupa in questa sede non può che essere lo Statuto dei Lavoratori.
Esso contiene un coacervo di norme che mirano a tutelare la libertà e l’attività sindacale all’interno di ciascuna impresa.
Mi riferisco alle norme contenute nel titolo II (Della libertà sindacale) che, in particolare, si occupano di garantire l’effettività del principio di rango costituzionale (art. 39 cost.) e delle norme contenute nel Titolo III della medesima legge (Dell’attività sindacale) che, invece, attribuiscono una serie di diritti alle organizzazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva ed in particolare alle forme di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro.
In definitiva, il Titolo III rappresenta una sorta di estensione del principio costituzionale ovvero la sua articolazione nei diritti di indire le assemblee, nel diritto di affissione, nel diritto di ottenere permessi, retribuiti e non, del diritto di percepire contributi sindacali mediante trattenuta sul salario.
Ai fini dell’attribuzione di tali diritti, l’art. 19 dello Statuto, individua, introducendole nel nostro Ordinamento, le cosiddette Rappresentanze Sindacali Aziendali (R.S.A.).
Si tratta di forme di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro alle quali si giunge al termine di un lungo percorso che passa attraverso le Commissioni Interne ed i Consigli di Fabbrica.
Le prime, sorte agli inizi del secolo (è storico il primo accordo sindacale stipulato tra la FIOM e l’impresa ITALA di Torino), furono subito soppresse durante il regime fascista e, successivamente, ricostituite nel 1943, rappresentarono fino alla fine degli anni ’60 la forma tipica di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro.
I Consigli di Fabbrica, invece, presero il posto delle Commissioni Interne affermandosi nel corso degli anni ’60 come nuove forme di rappresentanza unitaria di tutti i lavoratori dell’azienda che prescindevano dalla loro iscrizione o meno al sindacato.
Il declino di questa forma rappresentativa, è per lo più legato alla incapacità di saper interpretare e, quindi, rappresentare, le nuove figure professionali che alla fine degli anni ’70 andavano sorgendo.
Siamo così giunti alla «istituzionalizzazione» dell’organizzazione a livello aziendale, introdotta con la Legge 300/1970 che, proprio all’art. 19, consente ai lavoratori di costituire rappresentanze sindacali in ogni unità produttiva, sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo.
Si può dire che con l’art. 19 viene soddisfatta – per legge – l’ambizione dei sindacati ad essere presenti nei luoghi di lavoro.
 
In ordine alle modalità di costituzione, alla struttura organizzativa e alle regole di funzionamento delle R.S.A., la legge nulla dispone, rimettendo il tutto alla completa libertà di organizzazione sindacale così che, essa, può assumere svariate forme associative scevre da vincoli circa i metodi elettivi di scelta.
Unici requisiti strutturali che si desumono dalla lettura dell’art. 19 sono fondamentalmente due:
 
1. occorre che le R.S.A. siano costituite ad iniziativa dei lavoratori all’interno di ogni unità produttiva (art. 19, comma 1);
2. occorre che le R.S.A. siano costituite nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva (art. 19, comma 1, lett. b). 
 
E’ appena il caso di rammentare le modifiche (di non poco conto) introdotte all’articolo in esame dal referendum abrogativo dell’11 giugno 1995 che ha espressamente abrogato la lettera a) che si richiamava alle confederazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale e le parole «nazionali o provinciali» contenute nella lettera b).
Le conseguenze sono di particolare rilevanza poiché l’abrogazione di cui sopra – di fatto – elimina un indice presuntivo di rappresentatività a favore di CGIL, CISL e UIL, con la conseguenza che alle R.S.A. viene riconosciuto un potere di contrattazione collettiva anche limitatamente al solo ambito aziendale.
Non a torto, quindi, con riferimento alla legislazione introdotta dalla L. n. 300/1970, e segnatamente al Titolo III del medesimo impianto normativo, si è parlato di legislazione di sostegno.
Con riferimento al primo dei requisiti strutturali sopra indicati (costituzione delle R.S.A. ad iniziativa dei lavoratori) è da ritenere che la previsione normativa affermi il carattere necessario dell’iniziativa dei lavoratori proprio al fine di garantire che le R.S.A. siano la genuina espressione dei lavoratori occupati in azienda.
Con particolare riferimento al numero minimo di aderenti per la costituzione di una R.S.A. appare condivisibile il maggioritario orientamento giurisprudenziale di legittimità che – anche al fine di evitare che all’interno di una medesima unità produttiva possano proliferare associazioni che piuttosto che favorire possano intralciare od ostacolare l’iniziativa sindacale – è favorevole a quelle norme collettive contenenti una siffatta previsione di sbarramento.
Chiarificatrice oltre che significativa, appare una pronuncia della Suprema Corte di Cassazione del 1999 n. 14686 che così ha disposto: «Le rappresentanze sindacali aziendali sono costituite per iniziativa dei lavoratori dell’azienda e non delle associazioni sindacali di cui all’art. 19 della legge n. 300 del 1970; hanno una propria soggettività giuridica (rispetto alla quale appare appropriato il riferimento alle norme in materia di associazioni non riconosciute) come si evince dalle varie disposizioni dello statuto dei lavoratori prevedenti una loro legittimazione propria e specifica all’esercizio di diritti e facoltà (art. 9, 20, 21, 22, 25 e 27); in particolare, esse non sono organi dei sindacati, né come sono con gli stessi in una relazione, di immedesimazione organica o di altro tipo che determini l’imputabilità giuridica degli atti da loro compiuti ai sindacati, con i quali le stesse sono invece in un rapporto, di natura politica, di parziale coincidenza di interessi collettivi e di obiettivi di tutela […]».
 
La disamina del Titolo III dello Statuto dei lavoratori e, segnatamente, delle Rappresentanze Sindacali Aziendali, mi permette ora di approfondire quell’importante passaggio sindacale che è rappresentato dall’Accordo Interconfederale «per la costituzione delle Rappresentanze Sindacali Unitarie» siglato il 20 dicembre 1993 con il quale si sancisce che «rappresentanze sindacali unitarie possono essere costituite nelle unità produttive nelle quali l’azienda occupi più di 15 dipendenti, ad iniziativa delle associazioni sindacali firmatarie del protocollo 23 luglio 1993» (art. 1, comma 1 dell’Accordo).
La linea ispiratrice del nuovo organismo sindacale appare quello di superare il modello organizzativo creato dall’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori con le R.S.A. che, come si è già detto, aveva istituzionalizzato la presenza presso una stessa unità produttiva, di una pluralità di rappresentanze, poiché, come consentito dall’art. 19 ogni sindacato che possegga i requisiti prescritti può costituirne una.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti poiché la convivenza di molteplici R.S.A. producono un’inevitabile frammentazione della rappresentanza talché, il datore di lavoro non avendo un proprio interlocutore di riferimento, spesso sottoscrive accordi separati con le singole R.S.A.
Il primario intento dell’Accordo Interconfederale del dicembre 1993 è apparso immediatamente il superamento di questi limiti, per giungere, attraverso la Rappresentanza Sindacale Unitaria, alla realizzazione di un organismo di tipo unico che prefiguri lo stesso modello di rappresentanza valido per tutte le realtà lavorative e per tutti i settori produttivi.
 
In una parola: la partecipazione unitaria alla trattativa sindacale.
 
Le R.S.U., che si pongono come obiettivo la partecipazione unitaria dei lavoratori alla gestione del CCNL ed alle quali sono devolute molte delle prerogative tipiche delle R.S.A., vengono elette a suffragio universale, con voto segreto, su liste concorrenti i cui risultati definiscono la rappresentatività ovvero il peso sul tavolo negoziale delle organizzazioni sindacali che costituisce il presupposto per la partecipazione alle trattative nazionali e per l’esercizio delle libertà sindacali.
Per effetto di disposizione di legge, come espressamente previsto all’articolo 5 dell’Accordo Interconfederale, le R.S.U. subentrano alle R.S.A. ed ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni ad essi spettanti.
In definitiva, le R.S.U. che possono essere costituita all’interno di tutte le unità produttive in cui siano occupati più di 15 dipendenti, rappresentano oggi la risposta alla richiesta di omogeneizzazione delle molteplici sigle sindacali che erano presenti nel mondo sindacale degli anni ’80.
 
(iii) Diritto di Assemblea. Sogetti legittimati a partecipare e procedure da rispettare. Il diritto di controllo datoriale sull’ordine del giorno
 
Tra i diritti riconosciuti alle R.S.A., rileva innanzitutto il diritto di assemblea di cui all’art. 20 dello Statuto, che espressamente recita: «I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva in cui prestano la loro opera, fuori dell’orario di lavoro, nonché durante l’orario di lavoro, nei limiti di dieci ore annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione. Migliori condizioni possono essere stabilite dalla contrattazione collettiva.
Le riunioni – che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi – sono indette, singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali nell’unità produttiva, con ordine del giorno su materie di interesse sindacale e del lavoro e secondo l’ordine di precedenza delle convocazioni, comunicate al datore di lavoro.
Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti esterni del sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale.
Ulteriori modalità per l’esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro, anche aziendali».
 
E’ ben noto che l’assemblea, in quanto strumento di democrazia diretta, consente a tutti i lavoratori di partecipare alle problematiche sindacali e del lavoro che si sviluppano all’interno di una determinata unità produttiva.
In effetti, salvo casi specifici, le assemblee non hanno poteri deliberativi con riferimento all’azione sindacale vera e propria (non hanno potere contrattuale né competenza per una negoziazione a livello nazionale) ma si limitano ad esprimere una valutazione di politica sindacale.
Il diritto di assemblea costituisce una prerogativa dei singoli lavoratori e non della R.S.A. in quanto tale.
Del resto, la formulazione dell’art. 20 non sembra lasciare spazio ad equivoci laddove afferma che «i lavoratori hanno diritto di riunirsi» benché al successivo comma, affidi il potere di convocazione dell’assemblea alle R.S.A. («le riunioni […] sono indette, singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali»).
E’ da ritenere che, questa formulazione, a prima vista contraddittoria, sia ispirata dall’esigenza di conseguire il necessario raccordo tra i detentori del diritto (i lavoratori) e le organizzazioni sindacali di cui le R.S.A. ne sono espressione.
In relazione ai soggetti che possono partecipare all’assemblea, alcun dubbio si pone in ordine alla partecipazione dei lavoratori addetti all’unità produttiva.
Resta salvo, tuttavia, il diritto delle R.S.A. che hanno convocato l’assemblea di restringere la partecipazione ai lavoratori strettamente interessati alla trattazione dell’ordine del giorno.
Sul punto, il pur risalente ma ormai consolidato orientamento giurisprudenziale non sembra mutato ed appare tutt’oggi, assolutamente condivisibile, infatti «ai sensi del comma 2 dell’art. 20 della legge n. 300 del 1970, le rappresentanze sindacali aziendali possono, singolarmente o congiuntamente, indire nell’ambito dell’unità produttiva riunioni riguardanti sia la generalità dei lavoratori sia gruppi di essi, restando escluso che la determinazione di tali gruppi debba essere legata alla struttura organizzativa adottata dall’imprenditore all’interno dell’unità produttiva o dipendere da altro prefissato criterio, alla cui osservanza sia tenuto il soggetto legittimato ad indire l’assemblea. Tale soggetto, pertanto, potrà determinare l’insieme dei lavoratori chiamati a partecipare all’assemblea secondo un’autonoma valutazione discrezionale e senza che il datore di lavoro possa sottoporre a critiche e a controlli le determinazioni in proposito adottate, purché siano rispettate, per l’esercizio del relativo diritto, le condizioni stabilite dalla norma di legge nonché le ulteriori modalità eventualmente concordate al riguardo in sede di contrattazione collettiva» (Cass. 3 Luglio 1984, n. 3894)
E’ da escludere che si ponga un problema di legittimazione alla partecipazione all’assemblea per il lavoratori posti in cassa integrazione guadagni, anche a zero ore, poiché, questa circostanza se da un lato sospende le rispettive obbligazioni (la prestazione lavorativa la corresponsione della retribuzione) dall’altro non incide sull’esercizio dei diritti sindacali.
 
Le stesse valutazioni devono farsi con riferimento ai lavoratori in ferie.
 
Una curiosità, riguarda il neonato contratto di lavoro ripartito, introdotto con la Legge Biagi che all’art. 44, comma 3, del D.Lgs. 276/2003, consente la partecipazione alle assemblee sindacali ad entrambi i lavoratori ripartiti: «Ciascuno dei lavoratori coobbligati ha diritto di partecipare alle riunioni assembleari di cui all’art. 20 L. 20 maggio 1970 n. 300, entro il previsto limite complessivo di dieci ore annue, il cui trattamento economico verrà ripartito fra i coobbligati proporzionalmente alla prestazione lavorativa effettivamente eseguita».
Infine, è consentita la partecipazione all’assemblea, espressamente prevista dal 3° comma dell’articolo in esame anche ai dirigenti esterni del sindacato al quale fa capo la R.S.A., con l’unico vincolo di preavvisare il datore di lavoro di tale partecipazione.
La stessa legittimazione non viene riconosciuta al datore di lavoro il quale non ha titolo per partecipare all’assemblea convocata dalle R.S.A. neppure a mezzo di propri incaricati.
La ratio essendi di tale delegittimazione è facilmente rinvenibile nella esigenza di far si che l’assemblea, in quanto momento di espressione della libertà di pensiero dei singoli lavoratori, non possa risultare viziata dalla presenza del datore di lavoro che inevitabilmente condizionerebbe il libero svolgimento della riunione.
Deve desumersi da tale esclusione anche l’impossibilità per il datore di lavoro di esercitare un qualsivoglia controllo sull’ordine del giorno dell’assemblea.
 
Con particolare riferimento alle procedure da rispettare in tema di convocazione di assemblee sindacali, va subito detto che esse non sono soggette ad alcuna autorizzazione da parte del datore di lavoro.
Tuttavia, il legittimo esercizio del diritto è soggetto all’onere del preavviso della sua convocazione al datore di lavoro che, ovviamente, non può vedere sacrificato (secondo un principio di tutela paritaria) il proprio diritto al libero esercizio dell’attività economica così come deve tenersi conto di altri interessi dialetticamente contrapposti ed elevati dall’ordinamento al rango di diritti dotati di uguale o superiore tutela come quello dei cittadini alla fruizione dei servizi pubblici essenziali (Cass. 15 giugno 1994 n. 5799).
 
Per quanto attiene alle modalità di esercizio del diritto di assemblea, esse, normalmente, sono regolamentate dalla contrattazione collettive che, comunque, non può prevedere, ad esempio, clausole contrattuali che escludano il diritto di riunione durante l’orario di lavoro.
Del resto la norma posta a tutela, prevede al primo comma che la riunione possa svolgersi sia fuori del normale orario di lavoro sia durante l’orario di lavoro.
In quest’ultimo caso, l’assemblea è retribuita ad ogni lavoratore nel limite di dieci ore nel corso dell’anno.
 
Infine, per quanto riguarda il luogo di svolgimento delle assemblee, normalmente, è il datore stesso che ne offre la disponibilità.
Nel caso in cui non siano stati previsti specifici locali all’interno dell’azienda, i lavoratori possono discrezionalmente scegliere l’ambiente nel quale riunirsi a condizione che la scelta non leda (il paritario) interesse del datore di lavoro al libero svolgimento dell’attività produttiva. 
 
(iv) Il potere disciplinare nei confronti dei rappresentanti sindacali
 
Le peculiarità che connotano l’attività dei rappresentanti sindacali nei luoghi di lavoro, non poteva non indurre il Legislatore del 1970 a prevedere un sistema di garanzie che potesse consentire il libero ed incondizionato svolgimento dell’attività stessa.
Così, ad esempio, gli artt. 23 e 24 dello Statuto, prevedono che i dirigenti sindacali possano usufruire di permessi (sindacali) retribuiti e non retribuiti.
In particolare i primi possono senza dubbio rientrare nel concetto di legislazione di sostegno all’attività sindacale, consentendo al lavoratore di adempiere ai propri impegni sindacali «senza quel disincentivo che sarebbe oggettivamente rappresentato dalla perdita della retribuzione per le ore impiegate nello svolgimento del mandato sindacale; in questo senso la norma si pone come puntuale realizzazione del principio di libertà sindacale, che ha come necessario corollario la possibilità del libero svolgimento di attività sindacale lato sensu intesa anche durante l’orario e all’interno dei luoghi di lavoro» (così Del Punta in “Permessi e aspettative” – Giuffrè).
In effetti, solo attraverso il riconoscimento di tali garanzie il rappresentante sindacale è libero di svolgere il proprio mandato rappresentativo.
 
Resta, però, da valutare se vi siano strumenti ed, eventualmente quali, per potere reprimere comportamenti malcelati e non secondari di rappresentanti sindacali che utilizzino le garanzie loro predisposte dallo Statuto per fini differenti rispetto a quelli tipici previsti per l’esercizio delle libertà sindacali.
Secondo gran parte della dottrina e della giurisprudenza i rappresentanti godono di veri e propri diritti soggettivi pieni ed incondizionati rispetto ai quali sarebbe escluso ogni potere discrezionale del datore di lavoro.
Così la Corte di Cassazione ha sancito che «In relazione al godimento da parte dei dirigenti di R.S.A. di permessi retribuiti per l’espletamento del loro mandato, ai sensi dell’art. 23 l. 20 maggio 1970 n. 300, non può essere riconosciuto al datore di lavoro alcun diritto a verificare la natura dell’attività che si intende svolgere mediante l’utilizzazione di detti permessi, salva la possibilità di contestare l’uso di questi a fini personali o comunque diversi da quelli per i quali è stata inoltrata la richiesta della R.S.A.; l’esigenza di impedire lo sviamento dell’attività espletata durante i permessi dall’ambito della finalità sindacale non può essere infatti soddisfatta attribuendo al datore di lavoro un potere di controllo intrinseco tale da legittimare nei confronti del dipendente l’adozione di provvedimenti disciplinari, obiettivamente diretti a pregiudicare non tanto la posizione di costui quanto il diritto dell’organizzazione sindacale ad espletare liberamente la propria attività» (Cass. 22 aprile 1992 n. 4839).
In definitiva, è da ritenere inammissibile l’esercizio strumentale del potere disciplinare del datore di lavoro quando sia esercitato con l’unico scopo di ostacolare l’attività sindacale all’interno dell’azienda.
A ben vedere, un tale atteggiamento integra gli estremi della condotta antisindacale ed infatti «E’ antisindacale il licenziamento del rappresentante sindacale unitario posto in essere dal datore di lavoro attraverso l’uso discriminatorio e strumentale del proprio potere disciplinare e con il chiaro scopo di ostacolare l’attività sindacale all’interno dell’azienda» (Trib. Milano, 27 settembre 2001 in Riv. Critica Dir. Lav., 2002, 78).
Ed anche, «costituisce comportamento antisindacale il licenziamento disciplinare di un rappresentante sindacale aziendale, che abbia divulgato, nel corso di una intervista giornalistica, il contenuto di una lettera a lui indirizzata dall’azienda in risposta ad una sua segnalazione circa i problemi di organizzazione del lavoro» (Pret. Milano, in Riv. Critica Dir Lav., 1999, 298 nota di Franceschini).
E’ significativo, sul punto, un intervento della Corte di Cassazione che nel 1995 con la sentenza n. 11436 ha statuito che: «il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale se, quale lavoratore subordinato, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, si pone, in relazione all’attività di sindacalista, su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacchè detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall’art. 39 cost., non può in quanto diretta alla tutela di interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro essere subordinata alla volontà di quest’ultimo. Consegue che la contestazione dell’autorità e della supremazia del datore di lavoro siccome caratteristica della dialettica sindacale, ove posta in essere dal lavoratore sindacalista e sempreché inerisca all’attività di patronato sindacale, non può essere sanzionata disciplinarmente».
 
E’ pur vero che il sempre presente rovescio della medaglia non deve farci dimenticare che l’Ordinamento tutela il paritario interesse del datore al normale e corretto svolgimento della attività economica aziendale.
Così, potrà assumere valenza disciplinare il ridotto impegno lavorativo del rappresentante sindacale che violi i doveri di correttezza e di rispetto che incombono sulla totalità dei dipendenti.
 
(v) Il trasferimento dei Dirigenti o dei componenti le Rappresentanze sindacali Aziendali
 
Lo Statuto dei Lavoratori prevede espressamente la figura dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali e, nel disegno delle tutele dei diritti sindacali, pur non prevedendo specifiche regole in ordine ai criteri in base ai quali essi debbano essere eletti, stabilisce per gli stessi, una serie di garanzie e di tutele (art. 22, 23 e 24).
Sul tema, la giurisprudenza spesso è stata chiamata a fornire chiarimenti e ancora recentemente, con la sentenza n. 1684 del 5 febbraio 2003, la Cassazione ha stabilito che: «Per dirigenti delle R.S.A. devono intendersi tutti i delegati che compongono la rappresentanza, sicché le prerogative di cui agli articoli 18,22,23 e 24 della Legge n. 300 del 1970 spettano a ciascun componente di essa. Per la nomina dei componenti non è necessaria alcuna formalità, poiché l’art. 19 della Legge n. 300 del 1970 ha un carattere definitorio, volto a identificare i soggetti titolari per legge dei diritti sindacali individuati dagli articoli 20 e seguenti della legge citata; i soli requisiti richiesti perché si produca l’effetto della titolarità dei diritti sindacali sono dati dalla costituzione delle R.S.A. ad “iniziativa dei lavoratori” e che la rappresentanza operi nell’ambito delle organizzazioni che rispondono ai requisiti di cui all’art. 19 della legge stessa, requisiti da intendersi secondo lo spirito del diritto sindacale scevra da formalismi, tanto che il requisito dell’iniziativa dei lavoratori debba essere inteso in senso elastico ed indeterminato, si da potersi esprimere anche in un comportamento concludente dei lavoratori che nei fatti riconoscano e facciano propria la designazione proveniente dal sindacato».
Un problema particolarmente sentito è quello del trasferimento (non nell’accezione di cui all’art. 2103 c.c.) dei dirigenti sindacali o dei componenti delle R.S.A. che trova specifica menzione nell’art. 22 il quale espressamente recita: «Il trasferimento dall’unità produttiva dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui al precedente art. 19, dei candidati e dei membri di commissione interna può essere disposto solo previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza.
Le disposizioni di cui al comma precedente ed ai commi quarto, quinto, sesto e settimo dell’art. 18 si applicano sino alla fine del terzo mese successivo a quello in cui è stata eletta la commissione interna per i candidati nelle elezioni della commissione stessa e sino alla fine dell’anno successivo a quello in cui è cessato l’incarico per tutti gli altri
».
Come è facile intuire, quella approntata dall’articolo in argomento, è una duplice tutela che comprende, da un lato l’ipotesi del trasferimento, dall’altra quella del licenziamento.
Con particolare riferimento all’ipotesi contemplata al primo comma, la disposizione è evidentemente finalizzata alla tutela del preminente interesse sindacale alla inamovibilità del dipendente che svolge attività di natura sindacale nel luogo di lavoro.
La sopra citata sentenza, anche sul concetto di trasferimento, ha specificato che «deve ritenersi compreso nell’ambito applicativo della norma stessa ogni tipo di allontanamento dalla sede lavorativa che, per determinare un distacco, completo e di apprezzabile durata, dal luogo di svolgimento dell’abituale attività sindacale, sia suscettibile di produrre una lesione (anche potenziale) all’azione del rappresentante sindacale, equiparabile in termini fattuali, in ragione cioè dell’interesse leso al trasferimento».
La rigidità e severità della norma non esclude, tuttavia, che una ipotesi di trasferimento possa comunque compiersi, ma ove se ne debba fare ricorso, al fine di non vanificare la tutela approntata, la legge dispone che la richiesta di trasferimento sia sottoposta al nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza.
Restano tuttavia escluse dall’ipotesi di trasferimento condizionate al previo rilascio del nulla osta, i casi di trasferte o missioni dei rappresentanti sindacali disposti dal datore di lavoro trattandosi di allontanamenti meramente temporanei dalla sede lavorativa (Cass. 9 agosto 2002, n. 12121).
 
Sul concetto di unità produttiva, sebbene originariamente la giurisprudenza abbia ritenuto che l’ipotesi di trasferimento fosse integrata anche dallo spostamento interno da reparto a reparto, successivamente si è affermato un orientamento secondo il quale il preventivo nulla osta è richiesto solo in caso di trasferimento all’esterno dell’unità produttiva, poiché è pacifico che il riferimento territoriale sia un dato rilevante che nulla abbia a che vedere con l’articolazione produttiva.
Ciò non di meno, anche il trasferimento nell’ambito della medesima unità produttiva che non richiede il rilascio del nulla osta da parte dell’organizzazione può, in taluni casi, risultare illegittima e, addirittura, integrare l’ipotesi di condotta antisindacale sanzionabile ai sensi dell’art. 28 dello Statuto, qualora il distacco e quindi l’allontanamento dai compagni di lavoro o dalla specifica base rappresentata sia oggettivamente, o quanto meno potenzialmente, idoneo a ledere l’attività e la liberta sindacale.
La speciale protezione approntata non opera solo in presenza di un trasferimento individuale bensì anche nel caso in cui il dirigente di R.S.A. sia trasferito insieme ad altri lavoratori, «restando tuttavia esclusa, nel caso di un trasferimento, cosiddetto collettivo, in cui il trasferimento riguardi l’intera manodopera impiegata nell’unità produttiva» (Trib. Milano 26 giugno 2001).
 
Francesco d’Amora
 
Tonucci & Partners
in association with Mayer Brown Rowe & Maw

Redazione

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento