La Corte di Cassazione, con sentenza n. 16375 (data udienza 20 marzo 2024), ha fornito chiarimenti in merito all’applicazione dell’aggravante della minorata difesa nel reato di truffa quando questa viene posta in essere on line.
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Indice
1. I fatti
La decisione della Corte di Cassazione scaturisce dal ricorso presentato dai due indagati avverso l’ordinanza del Tribunale di Roma che, in accoglimento dell’appello del pubblico ministero, ha riformato la precedente ordinanza, applicando per entrambi la misura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico per i reati di truffa aggravata e ricettazione loro rispettivamente ascritti.
Con il ricorso, gli indagati deducono violazione dell’art. 273 cod. proc. pen. in relazione all’aggravante di cui all’art. 61, comma primo, n. 5, cod. pen. Nello specifico, ritengono sia impossibile configurare l’aggravante della c.d. minorata difesa atteso che, a tal fine, nella vendita on line, è richiesto un particolare affidamento del contraente rispetto alla buona fede dell’altro, dato che le trattative si svolgono integralmente a distanza, senza che sia possibile verificare l’identità e la qualità del prodotto. Si assume, dunque, che tali caratteristiche non emergono nel caso in esame, giacché le trattative, pur iniziate on line, proseguivano con interazioni personali attraverso messaggistica istantanea.
Inoltre, viene dedotta violazione dell’art. 274 cod. proc. pen. per essere venuto meno il requisito dell’attualità per la richiesta di applicazione della misura cautelare a causa della distanza temporale decorsa tra il compimento delle condotte e la richiesta stessa (circa due anni).
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2.Truffa on line e aggravante della minorata difesa: l’analisi della Cassazione
La Corte di Cassazione, nell’analizzare il ricorso, si sofferma principalmente sui gravi indizi di colpevolezza, riprendendo un consolidato principio di diritto secondo il quale “in tema di truffa on line, è configurabile l’aggravante della minorata difesa, con riferimento all’approfittamento delle condizioni di luogo, solo quando l’autore abbia tratto, consapevolmente e in concreto, specifici vantaggi dall’utilizzazione dello strumento della rete“.
Più nello specifico, “sussiste l’aggravante della minorata difesa, con riferimento alle circostanze di luogo, note all’autore del reato e delle quali egli, ai sensi dell’art. 61, n. 5 cod. pen., abbia approfittato, nell’ipotesi di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti on line, poiché, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece si trova l’agente, determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta“.
Quanto elle esigenze cautelari, il tribunale ha ritenuto il pericolo di recidiva, in considerazione del numero, delle modalità e della professionalità nella perpetrazione delle truffe; in ragione della presenza di una rete di complicità, fatta di soggetti compiacenti nella perpetrazione delle truffe e nell’acquisto dei beni provento delle frodi.
Infine, è stata valorizzata anche la biografia giudiziale degli indagati e, sotto il profilo dell’attualità e della concretezza, il tribunale ha osservato che i due indagati non avevano dimostrato la produzione lecita di profitti, così dovendosi ritenere che le truffe fossero il mezzo attraverso cui gli indagati si procurano i mezzi di sussistenza.
3. La decisione della Cassazione
Alla luce di quanto finora esposto, la Corte di Cassazione afferma che la motivazione del provvedimento impugnato risulta conforme ai principi di diritto sopra enunciati, in quanto emerge come gli indagati abbiano indotto in errore le vittime approfittando della distanza dei luoghi, tale da impedire la verifica dei beni offerti in vendita.
Inoltre, la Corte ricorda che, in tema di misure cautelari, “il ricorso per Cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito“.
Pertanto, la Corte ha dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione cui è seguita, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.
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