Tra l’articolo 18 e l’incalzante necessità di attirare più investimenti stranieri

Bettoli Nicola 17/05/12
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Una disamina approfondita merita la situazione economica e lavoristica italiana in questo drammatico momento. Ora che il mattino inzia con i telegiornali che strillano di suicidi causati da debiti, giovani perennemente disoccupati e di persone senza piuù speranza, urgono le tanto acclamate e mai realizzate riforme, ben sapendo, che il momento è capitale. Dopo quasi trent’anni di immobilità, il Bel Paese sperimenta una frattura tra generazioni profonda e sempre puù insanabile. Le cifre dicono che circa due milioni di persone comprese tra i 15 e i 34 anni non studiano, non lavorano, né cercano lavoro, immerse in un limbo di inattività. Quindi, nel periodo più fertile e produttivo milioni di ragazzi restano fuori dal mercato del lavoro dipendente stabile e ben remunerato1. Un’energia frenata che rallenta e indebolisce il paese, lo frena e gli tarpa le ali, in cui l’unico vero, efficace ed efficente sistema di welfare per giovani costretti spesso a prestare lavoro gratuitamente risultano le famiglie. Per diversi anni è stata occultata la problematica del lavoro precario, si sa che in periodi di crescita serpeggia l’ottimismo e si tende a sminuire e sottovalutare le falle del sistema, ma la crisi economica ha fatto esplodere la questione sbattendo fuori dal mondo del lavoro gli unici che potevano essere licenziati nel breve termine e senza gravare sui bilanci, ossia i titolari di contratti non garantiti dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Milioni di giovani sono ora disorientate, dovendosi ormai ritenere vetusta la dicitura di “generazione 1000 Euro”, in quanto obiettivo ormai tristemente irrangiungibile per un “semplice” neolaureato. Ci si avvia verso il tramonto del mito del “posto fisso”, che pure troppi continuano strumentalmente ad evocare, senza offrire la creazione di opportunità, eliminando le barriere e superando il dualismo del mercato del lavoro. Opposti a questi, sono i lavoratori a tempo indeterminato, rappresentati inefficacemente da sindacati che prestano attenzione solo a coloro che versano loro la quota annuale e non hai giovani fuori dal mercato lavorativo, dando vita ad un circolo vizioso2. Unica difficile soluzione è rappresentata da un sacrificio di chi oggi gode di molte garanzie a vantaggio di chi non ne ha, aprendo il mercato del lavoro per renderlo coerente con una società altrettanto aperta, evoluta e civile. Partendo dalle partite Iva, la linea intrapresa dal Governo Monti è quella di disincentivarle, presumendo nascondano rapporti di lavoro subordinato, tuttavia, si  potrebbe determinare un carattere di illegittimità su tutto il lavoro autonomo, che sarebbe un grave errore criminalizzare, dovendo prendere atto del fatto che il modo di lavorare nonchè il mondo del lavoro sono cambiati. Tale trasformazione avverrebbe convertendole, secondo determinati criteri, in lavori a progetti, specificando il divieto di progetti che coincidano con l’oggetto sociale dell’impresa. Questa stretta, laddove suddetta forma di collaborazione mascheri di lavoro dipendente, sarà operativa decorsi dodici mesi dall’entrata in vigore della legge3. I requisiti per la regolarizzazione sono tre, ossia una collaborazione che dura più di sei mesi nell’arco dell’anno, che determini più dei settantacinque punti percentuali dei ricavi del lavoratore e la postazione del lavoro presso una delle sedi del committente4. Se ricorrono almeno due di questi presupposti, si presume un rapporto di collaborazione coordinato e continuativo e non autonomo e occasionale, come dovrebbe essere. Altra annosa e determinante questione nel dibattito in corso è la nuova disciplina sui licenziamenti, visto che l’attuale stesura dell’art. 18 è tutto fuorchè un norma chiara e limpida. In particolare, la reintroduzione dell’ipotesi reintegrativa per il licenziamento oggettivo ci restituisce, ipso facto, una situazione simile a quella precedente, però, notevolmente più complessa5. Dunque si è rivoluzionato l’intero assetto senza in realtà cambiare sostanzialmente tutto, non dando seguito ai funambolici propositi partitici. Cuore della riforma era il modello c.d. tedesco, prevedente il mantenimento del reintegro nel caso in cui si licenzi un lavoratore per motivi che in giudizio vengano accertati come discriminatori, affiancata alla scelta giudiziale tra reintegro e un indennizzo qualora il licenziamento venga assunto per motivi disciplinari rivelatisi inconsistenti, contrapposti alla corresponsione del solo indennizzo per i licenziamenti assunti per motivi economici, e quindi accampando ragioni produttive e organizzative dell’azienda non dimostrate in sede giudiziale, ossiasi tratta di quei licenziamenti che oggi si dicono sforniti di giusta causa oggettiva e per i quali è prevista sempre la reintegrazione del lavoratore6. La proposta risulta quantomeno complessa e sicuramente piena di criticità, ma a seconda delle diverse letture del mondo del lavoro, predirigenti la tra difesa della stabilità del posto di lavoro piuttosto che la ricerca della flessibilità e viceversa, va sottolineato che la suddetta aveva per lo meno un suo senso ben preciso. In tale sistema la gravosità dell’indennizzo dovrebbe essere quantificata in maniera sufficente a dissuadere le imprese dal procedere senza pensieri comunque con licenziamenti ingiustificati. Purtroppo ora tutto è nuovamente cambiato tornando ad un forma ibrida e più complessa di quella passata. In sostanza, le ultime proposte tolgono alla modifica dell’articolo 18 una sua ratio specifica. Infatti, anche in caso di licenziamenti per motivi economici, viene prevista la scelta del giudice se riconoscere l’indennizzo oppure il reintegro in caso di manifesta insussistenza dei motivi addotti. In buona sostanza, anche nell’ipotesi di licenziamento per motivi economici, sarà il giudice a scegliere tra indennizzo e reintegrazione, discriminando i casi in cui sussiste una manifesta insussistenza dei motiva da quelli in cui ciò non è presente. Sennonché, la vicenda si complica con riguardo alla c.d. manifesta insussistenza, visto che sembra di difficile probatio in alcuni casi e comunque va sottolineato come non ci troviamo nel campo del licenziamento disciplinare, caratterizzato da una gradualità di situazioni, qui il motivo economico che legittima la soppressione del posto di lavoro o è presente, o non lo è. Inoltre, reintroducendo la possibilità di procedure alla reintegrazione, diventa decisivo sapere a chi spetti l’onere di provare l’insussistenza del motivo7. Sinora tale onere spettava al datore di lavoro ed, in assenza di un nuove dettato normative, tutto lascerebbe pensare che la situazione rimanga immutata8. Con riguardo altresì alla molteplicità dei contratti lavoristici presenti nel panorama italiano, l’idea della Riforma è quella di sostituirli con un unico contratto, nominato Contratto unico d’ingresso. Tale frammentazione nel mercato del lavoro penalizza soprattutto donne e giovani portando il salario medio lordo di un lavoratore italiano trentadue punti percentuali sotto la media degli altri Paesi dell’Euro-zona. Esso avrà due fasi, di cui una una d’ingresso, che potrà durare, a seconda dei tipi di lavoro, fino a tre anni, ed una seconda c.d. di stabilità, in cui il lavoratore godrà di tutte le tutele che oggi sono riservate ai contratti a tempo indeterminato. Durante la fase definita d’ingresso, in caso di licenziamento con motivazioni che non siano di tipo disciplinare, il datore di lavoro non avrà l’obbligo di reintegrare il dipendente ma potrà risarcirlo pagando un indennizzo. Dunque sarà presente la possibilità di allungare fino a tre anni ditto periodo di prova prevedendo che il contratto di ingresso si trasformi automaticamente, al termine della prova, a tempo indeterminato. L’automatismo dovrebbe evitare al lavoratore il succedersi di decine di minicontratti precari. Questa quindi, attulamente, la situazione in Italia, mentre in tutta Europa si dibatte di temi simili, essendo i sopra citati problemi comuni nella zona meridionale della Comunità9. Alcuni spunti potrebbero essere presi non solo dai già citati ed acclamati modelli tedesco e danese, ma anche guardando a quello che è appena accaduto in Spagna. Qui la riforma del mercato del lavoro, pur non risolvendo tutti i problemi, mira a contribuire a porre fine alla distruzione dei posti di lavoro e favorire la creazione di nuova occupazione. Ciò perché dà la priorità agli accordi a livello di impresa, permette riduzioni temporanee dell’orario di lavoro e facilita la flessibilità interna. La riforma del governo Rajoy è stata posta in essere al fine di ridurre il problema principale della Spagna, ossia la flessibilità interna. Si è proseguito nell’incrementare gli strumenti atti a favorire l’adeguamento interno dando priorità agli accordi a livello aziendali. Questo, in primis, facilita enormemente la flessibilità interna, permettendo a imprenditori e dipendenti di confrontarsi con la realtà specifica di ogni luogo di lavoro. In secundis, mira a permettere interventi di modifica delle condizioni lavorative e salariali stabilite nei contratti collettivi. In terzis, perché estende anche alle condizioni salariali la procedura che permette all’imprenditore la modifica unilaterale delle condizioni individuali, ove migliorative rispetto all’accordo collettivo. Tutto ciò poi, va sinergizzato con le riduzioni dell’orario di lavoro, ora decidibili dall’azienda. Infine, importante è il tentativo di facilitare la riduzione della durata della giornata lavorativa, col tentativo di scongiurare la distruzione dei posti di lavoro per il prossimo anno, e di spingere i lavoratori ad assumere una posizione realista al fine di salvare la propria azienda e in definitiva, l’economia spagnola. Il rischio maggiore, chiaramente, è che gli elementi di flessibilità interna vengano completamente ignorati e che al loro posto si prospettino mesi di tagli indiscriminati dei posti di lavoro, ma, va sottolineato, vi è ora nel territorio iberico, la convinzione che il messaggio educativo del governo sia cruciale e assimilabile. Quindi, in Italia come in Europa urgono misure concrete e rapide. Tali riforme sono si critiche e decisive ma, allargando il campo visivo, lo è altrettanto la capacità degli Stati di attirare investimenti esteri che contribuirebbe non poco a rilanciare un’economia stagnante10. Purtroppo in questo l’Italia è uno dei peggior paesi dell’Euro-zona. Se il nostro Paese fosse capace di allinearsi con uno medio europeo, avremmo un maggior flusso di investimenti in entrata pari circa a circa 55 miliardi di euro ogni anno che porrebbero fattualmente in secondo piano le discrasie e l’incongruenze del sistema lavorativo italiano. Fra le cause di questa pessima prestazione del Bel Paese nel mercato globale vanno annoverati il malfunzionamento delle amministrazioni pubbliche, tra cui prima fra tutte quella della giustizia, l’eccesso di burocrazia, la complicatezza e invadenza degli adempimenti fiscali e, decisamente in via principale, il basso livello di senso civico diffuso11. A tutto questo si associa una legislazione del lavoro complica, per molti aspetti disallineata rispetto agli standard europei, e un mercato del lavoro opaco, nel quale le imprese attingono gran parte della flessibilità necessaria al processo produttivo da pratiche di evasione o elusione degli standard posti dal diritto del lavoro largamente tollerate al punto da divenire normali. Il sistema regolatorio nel suo complesso, compresi l’inflazione e il disordine normativo, hanno raggiunto livelli intollerabili, incluse le inefficienze e le lentezze della macchina giudiziari. Tutto ciò incide negativamente sulla competitività del sistema produttivo comportando l’aumento dei costi diretti e indiretti che gravano sulle imprese derivanti dall’instabilità e incertezza del quadro normative, portando alla dissuasione di nuovi investimenti da parte di operatori italiani e stranieri che vengono dirottati altrove. La situazione italiana è improntata ad una schizofrenica produzione normativa. Molti rimendi sono stati tentati nel corso degli anni riscontrando scarso successo. La cultura giuridica italiana è poco consapevole che la legge è una risorsa preziosa, una moneta pesante da spendere con parsimonia. La tendenza a disinteressarsi dei costi della regolazione e a concepire la legge solo come una soluzione, e mai come un problema, è ancora frequente. Le leggi dovrebbero essere un prodotto offerto ai cittadini, per migliorare le condizioni del vivere civile e assecondare il loro operare. Naturalmente, l’interesse pubblico impone spesso sacrifici e vincoli a carico dei privati. L’ammontare eccessivo di norme non riguarda solo lo stock, ma anche il flusso. In Italia anche ai problemi di natura temporanea si risponde con leggi che rimangono in vigore a tempo indeterminato, discorso estensibile anche alla legislazione regionale. Il modo caotico ed estemporaneo in cui le leggi vengono elaborate va anche a scapito della loro fattura essendo spesso scritte in cattivo italiano alimentando per questo le zone grigie su cui poi prolifera il contenzioso. Questo perchè le leggi possono essere troppe, ma ben scritte, o poche, ma mal scritte12. In questa categorizzazione l’Italia si colloca purtroppo nel settore in cui le legge sono molte e mal scritte, in quanto abbiamo una produzione legislativa impetuosa e disordinata segnata dal sacrificio della qualità delle leggi stesse. Con riguardo agli abusi normativi e all’aumento degli oneri, i difetti della legislazione statale spesso si riproducono al livello locale, moltiplicati dalla maggiore debolezza delle amministrazioni locali. L’esigenza di snellire le procedure può essere soddisfatta solo attraverso una paziente opera di riforma dei singoli settori della legislazione, volta a eliminare le norme in eccesso e a renderle meno costose per le istituzioni pubbliche e per gli operatori privati. Un caso eclatante di disordine e frammentazione normativa è offerto dalle società partecipate dallo Stato e dagli enti locali, che negli ultimi anni sono state oggetto di decine di interventi normativi, sparsi tra molte leggi, che disciplinano aspetti diversi del loro regime giuridico. Dunque bisognerebbe legiferare solo quando serve, limitandosi al necessario e, proprio qui invece, il Governo Monti sta errando, avendo messo al varo una Riforma nel campo del diritto del lavoro composta da una moltitudine di articoli e di temi, spesso non necessari. Da tutta la situazione precedentemente esposta derivano molte conseguenze negative. In primo luogo, l’incertezza del diritto e l’arbitrarietà nella sua applicazione. Se è difficile individuare la norma da applicare al caso concreto, c’è sempre il rischio di commettere errori e compiere atti illegali. Amministrazioni pubbliche e giudici possono scegliere le norme da applicare, in relazione all’eventuale intento di favorire o sfavorire gli interessati. Il disordine legislativo, dunque, alimenta il contenzioso, tutte le decisioni amministrative più importanti sono in ultima analisi rimesse ai giudici. La legislazione può essere resa amichevole per gli operatori, agevolandoli e limitando i costi a loro carico. Ma i problemi dipendono spesso anche dalla sua attuazione da parte delle pubbliche amministrazioni. L’attuazione amichevole della legge presuppone dunque un’amministrazione ben organizzata e essa stessa disponibile verso i cittadini , in grado di prospettare soluzioni piuttosto che propensa a frapporre ostacoli e che sia capace di assumere la piena responsabilità delle proprie decisioni13. Ciò apre l’annosa questione delle riforme amministrative che stenta a trovare soluzioni efficaci. Quindi molti i temi trattati e da trattare dall’attuale Esecutivo, contrapposti ai pochi margini di manovra, il tutto in un contesto sociale difficile e disilluso da anni di mancate riforme che non può far altro che sperare o agire.

1 Guida pratica Frizzera. Lavoro all’estero, Pirola – Sole 24 ore, 2012

2 Formulario del lavoro. di Emanuele Montemarano Pirola – Sole 24 ore, I libri di guida al lavoro, 2012

3 A cosa serve l’articolo 18, di Luigi Cavallaro, Manifestolibri, 2012.

4 Guida pratica Frizzera. Lavoro all’estero, Pirola – Sole 24 ore, 2012

5 I nuovi contratti di lavoro, di Staiano Rocchina, Maggioli Editore, 2012

6 A cosa serve l’articolo 18, di Luigi Cavallaro, Manifestolibri, 2012.

7 Diritto del lavoro e della previdenza sociale, di Antonio Di Stasi, Giuffre, 2012

8 Nuove tendenze nel diritto del lavoro, Vita e Pensiero Edizioni, 2012

9 Istituzioni di diritto del Lavoro, Biagi Marco, Giuffrè, 2012.

10 Formulario del lavoro. di Emanuele Montemarano Pirola – Sole 24 ore, I libri di guida al lavoro, 2012

12 Diritto del lavoro e della previdenza sociale, di Antonio Di Stasi, Giuffre, 2012

Bettoli Nicola

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