Tar Catania, I, n. 2380/06 , sentenza in tema di elezioni, definizione dogmatica di “inesistenza” e di persone giuridiche.

sentenza 29/03/07
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Principi fondamentali (per esteso)
 
 
Sulla questione dei poteri della CEC quando viene contestata la titolarità della lista:
 
1) se viene sollevata una oggettiva contestazione sull’uso del simbolo o del nome del partito “speso” dal presentatore della lista, da parte di chi rivendica l’uso o il possesso o la titolarità di tale simbolo, la C.E.C. deve utilizzare i suoi poteri di indagine fino al limite per questi previsto dall’Ordinamento, ossia accertare se tale questione è risolvibile alla luce della documentazione offerta dalle parti nel procedimento elettorale di esame delle liste presentate. Se, con l’uso di tali poteri (comunque formali) e nei termini previsti dall’Ordinamento, non è possibile risolvere la contestazione e dunque persiste il dubbio sull’uso del simbolo, allora la C.E.C. deve necessariamente escludere la lista.
 
 
 
2) L’esclusione deriva dal fatto che, appunto nei casi in cui è dubbia la legittimazione a proporre la lista, non è tanto rilevante il fatto che sia controversa o meno la legittimazione di chi contesta detta presentazione e quindi non sarà questo aspetto a formare oggetto di accertamento da parte della C.E.C., ma, al contrario, diviene centrale e rilevante il fatto che non è certa la legittimazione di chi propone la lista. Su quest’ultimo, infatti, grava l’onere di fornire la prova in proposito.
 
 
 
 
3) il dubbio sulla legittimazione del “rappresentante” del partito a delegare la presentazione della lista, incide su un elemento di legge che è condizione di validità della stessa ammissione della lista. L’accertamento della capacità rappresentativa del delegante, infatti, è necessario a presidio della libertà di voto degli elettori, che non può sussistere senza una corretta informazione sui candidati e sulle liste, né senza la certezza della “provenienza” politica del simbolo che contraddistingue la lista.       Ne consegue che l’ammissione di una lista, in presenza di una contestazione sulla legittimazione del delegante, non risolvibile con l’uso dei poteri della Commissione elettorale, influisce in via immediata e diretta sulla sincerità e sulla libertà del voto e quindi sull’affidabilità del risultato finale ed è pertanto illegittima per violazione dei diritti fondamentali di cui agli artt. 48 e 51 della Costituzione e per violazione del citato art. 18 comma 1 lett. “c” del D.Pres.Reg. 1/1960. 
 
 
 
 
4) laddove si creino situazioni di incertezza, all’interno delle formazioni politiche o dei partiti politici, circa la rispettiva leadership, tali situazioni dovranno essere risolte (in via di autonomia organizzativa avvalendosi degli ordinari strumenti associativi oppure mediante il ricorso al giudice ordinario) prima della partecipazione ad una competizione elettorale (ovviamente se a partecipare alla competizione sarà una lista con il simbolo ed il nome del partito), perché è prevalente l’interesse pubblico alla tutela della sincerità del voto ed alla stabilità del risultato, che non possono essere messi in forse da dissidi interni alle formazioni politiche che vi partecipano senza avere la necessaria coerenza e stabilità organizzativa (esponendo così l’espressione della sovranità popolare ad inammissibili condizioni di validità e di effettività esterne al voto). In assenza di tale “stabilità” organizzativo-associativa, il “rischio” della esclusione dalle competizioni rimane (ed è giusto che rimanga, a tutela dell’interesse degli elettori) a carico di quei suoi organi rappresentativi che non sono riconosciuti tali nella loro carica dagli stessi associati che dovrebbero rappresentare.
 
 
 
 
Sulla inesistenza;
 
 
5) la inesistenza è una forma di invalidità del negozio che postula la sua completa irriconducibilità al tipo o allo schema almeno formale che per quel “tipo” è legalmente o socialmente tipizzato, e che le parti, interessate agli effetti che il negozio dovrebbe produrre, invocano. Si tratta quindi di un caso di “irrilevanza” giuridica di un fatto, storicamente avvenuto o meno, che, ai fini della tutela che l’Ordinamento astrattamente assicura per quel tipo di negozio sulla cui esistenza o inesistenza verte il giudizio, si riconosce come non riconducibile, neppure formalmente, a quel concreto tipo di negozio.
 
 
 
sulla legittimazione a proporre il ricorso nei casi in esame
 
 
6) la esistenza di una (efficace) elezione assembleare, è condizione sufficiente di legittimazione ad adire il Giudice Amministrativo da parte di colui che, in base ad essa, afferma essere il rappresentante del Partito, laddove l’Amministrazione, senza averne il potere, pone in essere un atto che (esplicitamente) riconosce e dunque afferma la legittimazione di altra parte (che tale elezione non riconosce) a presentare la lista a nome del Partito.
 
 
 
 
 
 rapporto tra decreto cautelare e pronuncia collegiale ex art. 21 l. TAR
 
 
7) l’art. 21 comma 9 della l. 1034/71 …..omississ ……. contempla due elementi strutturali che qualificano in un senso ben preciso l’istituto ed il rapporto tra il decreto monocratico e la decisione collegiale. Il primo di essi è la predeterminazione legale dell’efficacia del decreto monocratico. Quest’ultimo produce i suoi effetti fino alla “pronuncia” del Collegio sulla domanda cautelare, quindi NON fino alla data (e non oltre) della camera di consiglio fissata dal decreto presidenziale ai fini della trattazione collegiale, ed a prescindere dall’evenienza che, in tale udienza camerale, la fase cautelare del processo amministrativo possa definitivamente concludersi con una pronuncia decisoria o che, al contrario (come spesso risulta necessario per imprescindibili esigenze processuali), non sia assolutamente possibile definire la lite cautelare, occorrendo previamente disporre l’integrazione del contraddittorio e/o l’assunzione di mezzi istruttori e rinviando così la decisione sulla domanda cautelare ad una camera di consiglio successiva all’effettivo e completo espletamento dei cennati incombenti istruttori (cfr. per un accenno in tal senso, TAR Catania, II, ord. nr. 1079/2004). In altre parole, il decreto ha efficacia ex lege fino alla pronuncia con cui si accoglie o si respinge la domanda cautelare. Il secondo elemento, preordinato ad assicurare che il giudizio cautelare si radichi di fronte al Collegio senza dilazione, è che la domanda cautelare è portata al Collegio alla prima camera di consiglio “utile”.
 
8) la prima camera di consiglio “utile” è quella ove la decisione sulla domanda cautelare può essere emanata dal Collegio
 
9) le misure cautelari derivanti dal decreto presidenziale monocratico assicurano la tutela cautelare fino a quando il Collegio non è in grado di provvedere sulla domanda e quindi fino all’adozione di una cautela “definitiva”.
 
10) la pronuncia cautelare del Collegio ha ad oggetto la “domanda” cautelare e non il decreto, come invece avviene nel procedimento cautelare civile di cui agli artt. 669 e ss. c.p.c. Pertanto, la misura cautelare, che può essere disposta in accoglimento della domanda, prescinde da quanto già disposto dal Presidente del Tribunale, non essendo chiamato il Collegio ad esprimere una valutazione del provvedimento di quest’ultimo (come se si trattasse di una sorta di doppio grado cautelare, secondo il meccanismo tipico della cautela civile). Naturalmente, una volta emanato il Decreto Presidenziale, il Collegio ne valuterà anche gli effetti medio tempore prodottisi (confermandoli, modificandoli o revocandoli), in uno all’esame della domanda cautelare. Questi ultimi, infatti, integrano la concreta fattispecie cautelare, così come “portata” alla decisione del Collegio, divenendo parte del “fatto” che viene dedotto nel processo per giustificare la perdurante necessità della domanda cautelare (i cui presupposti di periculum in mora devono sussistere dal momento della domanda e sino alla pronuncia).
 
11) per “prima camera di consiglio utile” si intende, quindi, non già la prima camera di consiglio immediatamente successiva, sotto il profilo temporale, all’emanazione del decreto cautelare presidenziale, ma la prima camera di consiglio ove la domanda cautelare sia suscettibile di essere decisa, il che comporta la previa realizzazione di tutti i presupposti processuali per poterla esaminare, fino al cui avveramento l’effetto cautelare è assicurato dal decreto presidenziale. Quest’ultimo, come accennato prima, non è un “minus quam” dell’ordinanza, ma un provvedimento giudiziale tipico, con pari dignità e valenza della misura cautelare “definitiva” approntata dal Collegio. Tra i presupposti processuali per la definizione della domanda cautelare (e che quindi condizionano la “utilità” della camera di consiglio), assume particolare evidenza l’integrità del contraddittorio, il cui difetto è sicura causa di invalidità processuale della eventuale decisione (condizione che non ricorre, invece, per il decreto monocratico presidenziale che la legge prevede possa essere emanato anche inaudita altera parte avendo evidenti finalità di assoluta improcrastinabilità). Anche le necessità istruttorie (ad esempio esigenze di produzione documentale o verificazioni) possono rendere ancora non matura la lite cautelare per la decisione ed anche in questo caso, affinchè il collegio possa statuire in ordine all’erogazione di tutela cautelare, si deve attendere il risultato di tali adempimenti, con la conseguenza che la prima camera di consiglio “utile” sarà quella in cui tali adempimenti saranno stati effettuati.
 
Sul rapporto tra il giudice e gli avvocati e sugli obblighi di leale comportamento di questi ultimi
 
12) se è vero che il Giudice ha il governo del processo, è del pari vero che tale potere egli lo esercita assieme alle parti in esso costituite (le quali sono chiamate con responsabilità a collaborare lealmente con il decidente a tali fini); le ragioni di buon andamento del processo, preordinate alla celere e compiuta definizione delle questioni in esso proposte, unite all’ ovvio e predominante interesse delle parti ad una decisione completa del petitum, nel mentre ammettono, com’è ovvio, le più disparate “strategie” processuali da parte dei difensori, sono da ritenersi invece assolutamente incompatibili con comportamenti inconferenti e pretestuosamente dilatori quando essi sono privi di risultato utile e di qualsiasi effetto pratico e si rivelano, quindi, suscettibili solo di incidere negativamente nella “completa” e “celere” decisione della lite.
 
 
 
                    
                                                   REPUBBLICA ITALIANA               N. 2380/06 Reg. Sent.
                                        IN NOME DEL POPOLO ITALIANO       N. 3049/05 Reg. Gen.
                                                                                                                  N. 0100/06 – 0103/06
                                                                                                                       0110/06 – 0124/06
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, **************** di Catania, Sezione Prima, composto dai ******************:
Dott. *****************          Presidente
Dott. ***************            Giudice
Dott. **************************, Giudice rel. est.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sui ricorsi riuniti:
…omissis…
In Diritto
       Con il primo dei ricorsi in epigrafe, il ricorrente è insorto contro l’ammissione della lista in esame alle consultazioni elettorali del Comune di Messina del 27 e 28 novembre 2005. Disposta l’esclusione di questa con le misure cautelari monocratiche e celebratesi le elezioni, hanno poi impugnato il relativo esito di queste ultime (rispettivamente): due gruppi di ricorrenti che lamentano l’irregolare svolgimento delle elezioni per l’assenza della lista esclusa; ed altri due gruppi di ricorrenti che lamentano l’irregolare ammissione iniziale della lista poi esclusa, tutti rivolgendo le proprie censure sia contro il primo atto della C.E.C., sia contro la proclamazione degli eletti. Nei ricorsi rivolti contro la proclamazione degli eletti proposti dal primo dei due gruppi (ossia laddove si lamenta l’illegittima esclusione della lista), si sono costituiti – proponendo a loro volta ricorso incidentale – alcuni dei consiglieri comunali eletti, i quali chiedono l’annullamento della ammissione della lista in contestazione e quindi la conferma del risultato elettorale così come determinatosi per effetto della proclamazione impugnata in via principale.
       Ritiene il Collegio che è opportuno chiarire senza equivoci, sin da subito, che oggetto dei presenti ricorsi NON E’ l’accertamento e la verifica del diritto dell’*********** o dell’***************** ad usare il simbolo ed il nome del Partito Socialista: su questo aspetto, come si vedrà, è precluso al giudice amministrativo ogni giudizio o decisione avente effetto inter partes.
       Invece, con le domande oggi trattenute in decisione, le parti censurano (variamente) il comportamento e l’operato della Commissione Elettorale e pertanto al Collegio è sottoposta, affinchè sia decisa, una precisa questione di diritto: ossia la individuazione della regola di comportamento e di giudizio che le Commissioni Elettorali devono osservare per il caso in cui sorga una contestazione che comporta un oggettivo dubbio sulla titolarità del simbolo politico da parte del presentatore della lista e/o del delegante
       Come si vedrà, il Collegio ritiene, a tale scopo, che se viene sollevata una oggettiva contestazione sull’uso del simbolo o del nome del partito “speso” dal presentatore della lista, da parte di chi rivendica l’uso o il possesso o la titolarità di tale simbolo, la C.E.C. deve utilizzare i suoi poteri di indagine fino al limite per questi previsto dall’Ordinamento, ossia accertare se tale questione è risolvibile alla luce della documentazione offerta dalle parti nel procedimento elettorale di esame delle liste presentate. Se, con l’uso di tali poteri (comunque formali) e nei termini previsti dall’Ordinamento, non è possibile risolvere la contestazione e dunque persiste il dubbio sull’uso del simbolo, allora la C.E.C. deve necessariamente escludere la lista.
       Il senso e la ratio di tale regola sono da individuarsi nella esigenza di tutela dell’elettore e della efficacia ed efficienza del procedimento elettorale.
       Infatti, l’Ordinamento ha apprestato un preciso meccanismo di filtro che presiede alla presentazione delle liste, avendo di mira lo scopo di assicurare che a detta competizione prendano parte solamente soggetti dotati di effettiva capacità rappresentativa e quindi in possesso di una precisa legittimazione (derivante cioè: dall’essere appartenenti a formazioni politiche già “riconosciute” in quanto presenti in altri organismi elettivi, come in Parlamento, o, in Sicilia, nell’Assemblea regionale; oppure derivante dalla sottoscrizione di un numero predeterminato e rilevante di cittadini elettori), altrimenti si rischierebbe di chiamare i cittadini ad esprimere le proprie preferenze in ordine a candidati di cui non è certa la collocazione, l’appartenenza ed addirittura l’identità politica, con ovvie conseguenze di sviamento delle preferenze e di alterazione dei risultati elettorali.
       Pertanto, quando tale legittimazione “d’ingresso” appare dubbia, o meglio, è contestata per ragioni afferenti la titolarità del nome e del simbolo del partito, l’esigenza di tutelare l’affidamento degli elettori deve essere tutelata al massimo grado e quindi deve impedirsi l’accesso alle competizioni elettorali da parte di quelle formazioni politiche “in forse”, fino a quando il conflitto interno non sia risolto con gli ordinari strumenti, anche qui, chiaramente previsti dall’Ordinamento (ossia tutele endoassociative oppure una pronuncia del giudice civile, che, come si vedrà, è pure soggetta a precisi limiti).  
       Ciò premesso, ancora in via preliminare e sotto il profilo più strettamente processuale, si osserva quanto segue.
       Essendo tutti riferiti alla medesima vicenda sostanziale, i cinque giudizi, attesa la loro evidente connessione oggettiva e soggettiva, sono stati riuniti nella udienza pubblica del 06 aprile 2006 e tale riunione è stata confermata e mantenuta alla Udienza Pubblica/Camera di Consiglio del 12 ottobre 2006, per le ragioni ampiamente esposte nelle ordinanze nn. 400/06 e 1606/06, la cui motivazione è riportata per esteso nella parte narrativa della presente sentenza ed ovviamente si ha qui per riportata.
       Tuttavia, sulla motivazione della riunione, nonché sul rigetto della domanda di separazione/stralcio del giudizio nr. 3049/05 proposta il 12 ottobre 2006 (e reiterata con la memoria depositata il 30 successivo) dall’Avv. *******, difensore del sig. ************** (1966), il Collegio tornerà, più diffusamente, al termine della parte motiva.
       Il collegio può quindi decidere in ordine alla domanda cautelare, ed, in merito a ciò, deve dichiararsi che non vi è luogo a procedere al’esame, srparato e preventivo, di tale domanda (ancora pendente nel ricorso nr. 3049/05), atteso il fatto che il predetto ricorso viene deciso nel merito: sul punto si richiama il precedente costituito dalla Sentenza del TAR Piemonte, I, 12 febbraio 2003 nr. 202/03 che, in copia, è stata depositata dalla difesa dell’interveniente sig. *******. Anche sulla domanda cautelare il collegio si riserva alcune osservazioni afferenti essenzialmente il rapporto tra il decreto monocratico e la decisione collegiale, nel presente giudizio, in ordine alle quali si tornerà, dunque, al termine della esposizione in diritto. 
       Sempre in via preliminare, per ragioni di ordine logico ed espositivo, deve qui osservarsi che l’atto di intervento adesivo e costituzione del terzo sig. Rodi Giuseppe, non notificato ad alcuna parte, solleva censure contro l’ammissione della lista presentata dal sig. ******* autonome e distinte rispetto a quelle proposte nel ricorso introduttivo e, pertanto, è inammissibile.
       Si può adesso passare all’esame dei ricorsi riuniti e delle censure variamente in essi proposte.
*******
       Ia) per esigenze di ordine concettuale ed espositivo, il Collegio deve prendere in esame prima di tutto la questione principale dell’odierna decisione: come già anticipato ed accennato prima, quest’ultima dipende interamente dalla valutazione dell’operato della C.E.C. nelle sedute ove essa ha dapprima ignorato l’avvenuta contestazione da parte dell’*********** della legittimazione dell’***************** a delegare il sig. ******* alla presentazione della lista; e poi, espletati gli ulteriori accertamenti e verifiche derivanti dai menzionati decreti cautelari inibitori e propulsivi del Presidente di questo Tribunale, ha concluso il suo esame ritenendo “inesistente” l’elezione del ricorrente a Segretario Nazionale del Nuovo Partito Socialista Italiano e, di conseguenza, confermando l’ammissione alle elezioni della lista presentata dal sig. *******.
       Secondo i ricorrenti nei giudizi nr. 3049/05, 103/06 e 110/06 (questi ultimi due, per brevità, da ora in poi saranno indicati come “solidali”) ed i ricorrenti incidentali nei giudizi nr. 100/06 e 124/06, la CEC avrebbe errato ad ammettere la lista presentata dal sig. ******* in quanto nel ritenere la “inesistenza” dell’atto di elezione dell’odierno ricorrente ***********, avrebbe espresso un giudizio di merito sul Congresso del Partito Socialista, che le sarebbe stato inibito in assenza di alcuna previa pronuncia del giudice a ciò competente.
       Le difese dell’Amministrazione e dei controinteressati nei giudizi nn. 3049/05 e solidali, a loro volta parti ricorrenti nei ricorsi nn. 100/06 e 124/06, affermano, invece, che tale elezione:
a)         non è mai avvenuta, in quanto il Congresso non si è mai realmente aperto, mancando il numero necessario dei delegati regionali del partito;
b)         i documenti prodotti dall’*********** di fronte alla CEC, con cui ha affermato di comprovare l’avvenuta propria elezione a Segretario Nazionale del Partito (estratto del verbale del Congresso) sarebbero privi di validità, in quanto non sarebbe esistita, nel Congresso, alcuna attività di verbalizzazione, né sarebbe esistito un “brogliaccio” della seduta;
c)         comunque alla votazione avrebbero preso parte solo i rappresentanti favorevoli a *****, posto che l’*****************, convocante la seduta del Congresso e Presidente della stessa, aveva dichiarato che i lavori non si erano aperti.
      In punto di fatto, osserva il Collegio che, dall’esame degli atti impugnati, si evince che la CEC, dovendo decidere in ordine alla legittimazione del presentatore di lista, ha preso in esame le “prove” offerte da chi pretendeva di essere il legittimo rappresentante del partito, contestando la analoga legittimazione del delegante il presentatore e la lista. All’esito di tale esame, ha ritenuto di non poter riconoscere validità all’estratto del verbale del Congresso del Partito, considerando l’elezione ivi riportata come atto “inesistente”.
       Inoltre, si osserva che, dai documenti offerti in visione alla CEC, emerge che nello stralcio del “verbale” prodotto dall’*********** è riportata l’affermazione di un componente della Commissione per la verifica dei poteri il quale dichiara che il numero legale si è raggiunto e che la seduta è valida; detto “verbale” riporta, poi, l’avvenuta elezione dell’***********, per acclamazione.
       Dalla lettura integrale del medesimo documento, così come invece offerto, in seguito, agli atti del giudizio, si evince che, per i primi due giorni, il Congresso si è svolto alla presenza di tutte le parti (oggi in conflitto) e le discussioni tra loro venivano condotte “sotto riserva” di verifica della presenza dei delegati regionali, verifica che, nel frattempo, veniva condotta dall’apposita Commissione per la verifica dei poteri. Più precisamente, mentre quest’ultima tardava a giungere ad una effettiva conclusione dei lavori, la Presidenza del Congresso, nell’attesa dei relativi risultati di riscontro, procedeva al dibattito tra i presenti ed a regolare il confronto tra i vari oratori.
       Al terzo giorno di dibattito, come risulta anche nel testo offerto all’esame della CEC, i lavori registravano l’intervento del primo componente della Commissione di verifica dei poteri, che affermava l’avvenuto positivo riscontro dei presupposti del numero legale del Congresso. Successivamente, però, altro componente della medesima Commissione prendeva la parola per contestare la “comunicazione” del collega, affermando, con altre argomentazioni, che le deleghe erano invece insufficienti e che non si era raggiunto il numero legale. Tale ultima parte del verbale non risulta essere compresa nello stralcio che è stato offerto in copia alla C.E.C.
       Continuando con la “verbalizzazione”, emerge che seguiva a ciò vivace dibattito e, dopo altri interventi, l’***************** abbandonava l’aula congressuale, contestando la regolarità della seduta; i rimanenti delegati, assunta l’*********** la presidenza, procedevano, per acclamazione, alla elezione di quest’ultimo alla massima carica del partito.
       In punto di diritto, appare utile adesso rilevare che la C.E.C. aveva il dovere di verificare i titoli di legittimazione dei due contendenti (e quindi, nella prima fase del procedimento, ha errato ritenendo di non potere entrare nel merito della contestazione), ma nel farlo ha ecceduto il limite – pur sempre formale – dei suoi poteri (in quanto ha espresso un giudizio di merito sulla legittimazione del delegante ***************** e del contestatore, ***********). Si potrebbe dire, quindi, con espressione avente ovviamente puro valore descrittivo, che la C.E.C. ha errato due volte, in quanto, negandosi dapprima il potere di verifica l’ha poi esercitato con eccesso, mediante “giudizi di valore”; e quindi ha omesso di osservare quella sorta di “giusto mezzo” tra gli estremi, il cui contenuto, doveroso, sarà a breve esaminato.
       In effetti, la complessa vicenda della titolarità della carica di Segretario del Nuovo Partito Socialista Italiano, è stata sottoposta all’esame della CEC in maniera non completa, posto che l’intero “documento” qui in esame, che i ricorrenti considerano “verbale” della seduta, mentre le parti resistenti lo contestano come tale, è stato solamente acquisito agli atti del giudizio e si è visto contenere una pluralità di informazioni tutte da valutare attentamente. Tuttavia, la conclusione della C.E.C. – seguendo l’iter logico dalla stessa fatto proprio e contestato dal ricorrente nel giudizio nr. 3049/05 e negli altri solidali – non sarebbe certamente mutato se essa avesse potuto esaminare l’intero documento comprese le sue parti contenenti le contestazioni sulla “ritenuta” positiva conclusione dei lavori della Commissione per la verifica dei poteri, operate dalla corrente “pro” *****************.
       Come accennato prima, il Collegio è investito della questione di accertare se tale valutazione, nella parte in cui si riferisce alla documentazione prodotta, possa effettivamente ritenersi corretta.
       Si osserva che, a tali fini, non rilevano, ovviamente, le “sopravvenienze” storiche, ossia le decisioni del giudice ordinario variamente susseguitesi o le scelte politiche che, in seguito, sono state poste in essere tra le parti. Tali eventi, infatti, cui i controinteressati sostanziali nei ricorsi 3049/05, 103/06 e 110/06 si richiamano per comprovare l’”inesistenza” dell’elezione dell’*********** e per contestarne anche la legittimazione a proporre ricorso giurisdizionale, non possono condizionare il giudizio sull’operato della C.E.C. che deve essere condotto con riferimento al tempo dell’atto, essendo un giudizio sul provvedimento e non sul rapporto sostanziale sottostante.
       Altresì, come si vedrà oltre, le medesime vicende non sono sufficienti a fondare la eccezione di carenza di legittimazione a ricorrere al T.A.R. in capo allo stesso *********** quale “rappresentante” del Partito o, sotto altro angolo visuale, a determinare una cessazione dell’interesse dello stesso *********** alla pronuncia (su queste ultime eccezioni si tornerà più specificatamente oltre, sub IIA).
       Come vedremo, se i fatti successivi avessero rilievo, confermerebbero che è stato necessario ricorrere a pronuncie giurisdizionali per decidere sulla validità o meno della contestata elezione così come era stato ritenuto, sia pure ai limitati fini della tutela monocratica, nel D.P. nr. 1790/05; e tale considerazione priva di alcun rilievo processuale la proposta sospensione del giudizio in attesa della pronuncia del giudice civile sull’accertamento della titolarità della carica di ******************** del Partito proposta dall’*********** nei confronti dell’***************** di fronte al giudice civile, proposta dalla difesa del sig. ************* (anche su questo aspetto si tornerà oltre sub IIA).
       La qualificazione del “fatto”, ossia di come si è tenuto il Congresso in esame, “attualizzata” al momento dell’adozione dei provvedimenti impugnati, è invece necessaria al fine di chiarire se tale accadimento possa essere considerato – alla luce del giudizio della C.E.C. – come un evento giuridico avente una propria rilevanza, ai fini del funzionamento del Partito come organismo-associazione non riconosciuta (art. 36 codice civile), oppure resti un mero “fatto” (ancora prima che privo di effetti) privo di rilevanza giuridica.
       Solo nell’ultimo caso il giudizio di ammissione della lista da parte della C.E.C. si rivelerebbe legittimo; nel primo caso, invece, la C.E.C. avrebbe errato perché, come sostenuto dai ricorrenti, essa avrebbe sostituito il proprio giudizio alla pronuncia giurisdizionale, necessaria a dichiarare la invalidità di una delibera assembleare (art. 23 codice civile).
       Come si è visto, il nucleo essenziale della motivazione del provvedimento della C.E.C. di ammissione della lista (e di reiezione della contestazione dell’***********) sta nell’aver ritenuto (e quindi qualificato) “inesistente” l’elezione di quest’ultimo.
       Di conseguenza, la prima valutazione che deve effettuare il Collegio è se effettivamente la contestata elezione sia o meno “inesistente”.
       Tale analisi va scissa in due aspetti. Il primo, di carattere prevalentemente dogmatico, ha ad oggetto propriamente la qualificazione di “inesistenza” del “fatto” – “evento giuridico” introdotto nel procedimento elettorale, ai fini del quale è opportuno che il Collegio richiami le più autorevoli conclusioni della dottrina sul tema della invalidità delle delibere assembleari e sul tema, più generale, del rapporto tra inesistenza e invalidità nell’ambito del diritto civile; quanto al secondo aspetto, si valuteranno più avanti (cfr. sub “Id”) le capacità e le idoneità probatorie riconoscibili al materiale prodotto di fronte alla C.E.C. al momento della valutazione che quest’ultima ha effettuato dei titoli di legittimazione del presentatore della lista.
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       Ib) Sul tema della invalidità delle delibere assembleari e sul tema, più generale, del rapporto tra inesistenza e invalidità nell’ambito del diritto civile.
       Si osserva che a norma dell’ art. 23 cc. (applicabile analogicamente alle associazioni non riconosciute, cfr. Corte appello Torino, 10 gennaio 2003; Tribunale di Roma, 18 agosto 2001; Tribunale di Padova, 29 giugno 1995) “Le deliberazioni dell’assemblea contrarie alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto possono essere annullate su istanza degli organi dell’ente, di qualunque associato o del pubblico ministero. L’annullamento della deliberazione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima . Il presidente del tribunale o il giudice istruttore, sentiti gli amministratori dell’associazione, può sospendere, su istanza di colui che ha proposto l’impugnazione, la esecuzione della deliberazione impugnata, quando sussistono gravi motivi. Il decreto di sospensione deve essere motivato ed è notificato agli amministratori. L’esecuzione delle deliberazioni contrarie all’ordine pubblico o al buon costume può essere sospesa anche dall’autorità governativa”.
       Quindi, dallo schema normativo dell’art. 23, si evince che la invalidità delle delibere assembleari deve sempre essere oggetto di una pronuncia giurisdizionale, ad eccezione del caso di radicale inesistenza, categoria questa coniata dalla dottrina ed utilizzata da alcune pronuncie della giurisprudenza, divisa peraltro tra posizioni affatto univoche.
       Relativamente a quest’ultimo aspetto, infatti, secondo Cass. 17 marzo 1975 nr. 1018, l’art. 23 cod.civ., poiché non prevede espressamente le cause di nullità, avrebbe di fatto recepito queste ultime nella più generale disciplina dell’annullabilità (e per poter agire ai fini dell’annullabilità è necessario avere la qualità di socio); secondo Cass. 04 febbraio 1993 nr. 1408, invece, non si deve poter agire ex art. 23 cc per le associazioni non riconosciute (cui esso è applicabile per analogia) in casi di nullità o inesistenza poiché questi sono casi diversi dalla annullabilità e quindi sono vizi denunciabili in ogni tempo da qualsiasi interessato (e si adduce, quale esempio di inesistenza o di radicale nullità, il caso della maggioranza di voti insufficiente rispetto alla legge o allo statuto).
       Esaminando adesso le elaborazioni della migliore dottrina, la creazione della categoria dogmatica della inesistenza si fa risalire alla teorizzazione francese di fine secolo che, per superare il rigido principio «pas de nullité sans texte», la introdusse per l’ipotesi di scuola della unione matrimoniale tra persone di egual sesso. Dinanzi alla mancanza di un requisito essenziale per la stessa esistenza dell’atto si affermò così che non poteva considerarsi nullo ciò che non esisteva, aprendo la strada alla contrapposizione tra nullità ed inesistenza al punto che questa seconda figura si è andata consolidando nel tempo fino a rendere sempre più difficile una sua esclusione dal quadro della patologia negoziale, soprattutto in quanto essa è stata estesa alle ipotesi di difetto assoluto di elementi costitutivi (ivi incluso il difetto di forma), invadendo così il campo tradizionale della nullità in senso proprio.
       Tuttavia viene osservato in dottrina che le varie proposte per fondare dogmaticamente la distinzione accusano un comune errore di base, dovuto alla confusione tra due diversi e inconfondibili piani della realtà: quello della realtà pregiuridica (naturalistica, sociologica) e quello della realtà giuridica (delle situazioni qualificate giuridicamente).
       A tale proposito, premesso che ogni categoria euristica o comunque scientifico-classificatoria è ammissibile se fatta in relazione al medesimo piano di realtà, con la conseguenza specifica che una distinzione giuridica va posta esclusivamente in funzione della realtà giuridica, ne deriva che se la inesistenza si intende come mancanza di giuridicità, essa non è una categoria giuridica e non può confrontarsi con la nullità che resta pur sempre una qualifica operante entro l’ambito del diritto.
       Infatti, le teorie che più hanno sostenuto la rilevanza della categoria della inesistenza sono state costrette a configurarla come una sorta di nullità rafforzata o di grado superiore differenziando così le componenti della fattispecie negoziale secondo un loro peso specifico differenziato, che, nel loro difetto, ne ordinerebbe le conseguenze in scala decrescente che parte dalla inesistenza, passa alla nullità ed infine perviene alla annullabilità.
       A tali teorie si obietta che la contrapposizione tra elementi essenziali ed elementi inessenziali o secondari è già problematica e in ogni caso arbitraria di per sè, poiché gli indici normativi in proposito sono del tutto insufficienti; di conseguenza altrettanto problematico e arbitrario diverrebbe il criterio che operasse tra mancanza e vizio degli elementi ritenuti essenziali, così come quello alternativo, pure sostenuto, che riferisce la essenzialità soprattutto in funzione della identificazione del negozio e quindi dell’autonomo “tipo” contrattuale (nelle differenti versioni di esso che sono riferibili, a seconda delle impostazioni, all’oggetto o alla causa).
       Eppure, nonostante tali perplessità e difficoltà ricostruttive, si riconosce pacificamente tra gli studiosi del diritto che le conseguenze che si vogliono trarre dalla distinzione tra nullità ed inesistenza sono importanti: infatti la distinzione, sfuggente sul piano teorico, diviene netta e gravida di conseguenze su quello pratico, così come la fattispecie oggi all’esame del Collegio dimostra.
       Infatti, la esistenza giuridica del negozio nullo implica che esso può produrre effetti giuridici anche se diversi da quelli dello schema tipico; che esso, anche se eccezionalmente, può essere suscettibile di conferma (art. 590 e 799 c.c.); che, sempre eccezionalmente, fino alla dichiarazione della nullità, può produrre gli effetti normali del negozio valido (art. 128 e 2126 c.c.); che è suscettibile di conversione (art. 1424 codice civile). Al negozio inesistente, invece, nessun effetto giuridico sarebbe riconducibile neanche in via indiretta e nessuno strumento di recupero applicabile. Infatti, nel caso oggi in esame, la C.E.C. ha ritenuto di negare legittimazione al ricorrente, riconoscendola invece nella parte resistente, proprio alla luce di questa riconosciuta diversità di effetti tra le due categorie e considerando inesistente l’atto di elezione e la relativa assemblea congressuale del partito socialista.
       A tacere del fatto che in dottrina si è contestata anche tale differenza di effetti (secondo alcuni,da un lato, anche negozi definiti inesistenti possono produrre effetti e in proposito si fa l’esempio di scuola del “mandato ad uccidere” e si adduce anche l’ipotesi contemplata dall’art. 1328 c.c. –revoca della proposta e dell’accettazione-; mentre, per altro verso, si esclude che negozi definiti come nulli siano in quanto tali produttivi di effetti giuridici posto che la loro eventuale efficacia andrebbe riportata ad un fatto diverso integrante una diversa fattispecie legale), per un corretto orientamento nel dibattito occorre puntualizzare i momenti fondamentali delle due opposte tesi.
       Seguendo ancora la migliore dottrina, si evidenzia che:
a) nullo sarebbe il negozio esistente come situazione di fatto e per ciò stesso in grado di spiegare un qualche effetto giuridico; inesistente il negozio inidoneo ad integrare anche la situazione di fatto e per il quale pertanto non è ipotizzabile un qualunque effetto negoziale. Quindi, la fattispecie nulla avrebbe possibilità di generare effetti, integrando una diversa struttura normativa, mentre al negozio inesistente mancherebbe in assoluto questa possibilità, non potendosi utilizzare qualcosa che non esiste;
b) riconosciuta la necessità di riportate la inesistenza sul piano della giuridicità, da altri si ritiene che anche questa figura riguarderebbe negozi giuridici i quali storicamente esistono, ma giuridicamente vengono considerati tamquam non essent, per una causa di natura formale, derivante cioè dall’ordinamento giuridico. Sicché un negozio sarebbe giuridicamente nullo o inesistente quando è ab initio e ipso iure inidoneo ad una qualsiasi funzione, come se non fosse mai stato posto in essere. È evidente la identificazione delle due figure, ma è tuttavia postulata la qualificazione della fattispecie nulla come giuridicamente irrilevante.
       Tra le suddette posizioni, è stato così autorevolmente proposto di considerare che la inesistenza per nessun verso è indice di qualificazione nell’ambito della patologia degli atti dichiarativi; non mette in giuoco alcun meccanismo riferibile al mondo del diritto e non è necessario né possibile operare una differenziazione rispetto alla nullità. Se una differenza è ipotizzabile essa è di fondo: risponde a tutte le esigenze in campo riportare la distinzione tra le due figure semmai al profilo (non della efficacia ma) della rilevanza, configurando la inesistenza come una forma di irrilevanza e la nullità come una forma di rilevanza giuridica (negativa). Pertanto, l’atto inesistente resta fuori dal diritto, e dello spettro di sensibilità dei valori del sistema, mentre invece, l’atto nullo presuppone una fattispecie giuridica, anche se viziata e qualificata negativamente. Secondo questa impostazione, dunque, è possibile affermare che la nullità presuppone sempre una fattispecie negoziale come dato materiale idoneo a sensibilizzare i meccanismi di qualificazione giuridica, perché evidenzia, anche se in forma inadeguata, un interesse che l’ordinamento giuridico deve valutare. Né assumerebbe rilievo il comune dato della inefficacia, di per sé troppo generico per potere identificare una qualunque categoria giuridica (non produce effetti il negozio inesistente, ma non li produce neppure il negozio nullo e persino il negozio valido ma sospensivamente condizionato). Secondo questa teoria, dunque, almeno sul piano negoziale, non vi sarebbe spazio per l’inesistenza come categoria giuridica, perché il cosiddetto negozio inesistente non prospetterebbe, né rispetto allo schema tipico né ad altri schemi del sistema, alcun problema pratico da risolvere mediante effetti giuridici, mentre il negozio nullo invece fa insorgere un problema pratico che il diritto risolve con la negazione della efficacia negoziale.
       Questo risultato sarebbe confortato anche dalla prospettiva che assimila la nullità ad una sorta di sanzione: che è, appunto, un tipo di efficacia di una fattispecie giuridicamente rilevante. Sotto questo aspetto la nullità costituirebbe quindi l’applicazione di un congegno particolare di causalità giuridica: la nullità, a differenza della inesistenza, sta dentro il diritto.
       Quella distinzione, che per il negozio giuridico non trova ingresso, presenterebbe così una sua legittimità solo per i fatti non negoziali, in particolare per gli eventi e gli atti non dichiarativi, che interessano la fattispecie oggi in esame in quanto la effettiva tenuta del Congresso del Partito potrebbe qualificarsi come un fatto, più che come un momento qualificante la fattispecie normativa. Anche per essi, secondo l’impostazione che si sta esponendo, la presa di posizione del diritto è valutazione; solo che essa è rigida e presuppone sempre ed in ogni caso la intera verificazione del fatto secondo lo schema della previsione normativa. Dei fatti di questo tipo si può dire allora che essi si sono verificati o non si sono verificati sicché rispetto ad essi, è possibile ragionare in termini di pura esistenza o inesistenza. Per questi eventi e comportamenti il giudizio di valore ha a che fare con la avvenuta realizzazione o la avvenuta lesione e al diritto non resta che proteggere per il futuro la situazione realizzata ovvero reagire contro di essa per la restaurazione della preesistente situazione violata. Al contrario, per le dichiarazioni negoziali il giudizio di valore si traduce nella concessione o nel diniego dell’assistenza giuridica al programma prospettato dalle parti. Ed è per questo che la validità e la invalidità entrano in giuoco quando si guarda all’elemento immateriale, al contenuto della dichiarazione che costituisce il necessario punto di riferimento per la qualificazione dell’interesse giuridico e per la predisposizione dei correlati effetti giuridici. La valutazione di questo programma – tipico in via esclusiva dei comportamenti dichiarativi – si traduce nelle qualificazioni giuridiche in termini di validità o di invalidità rispetto agli interessi della comunità, più precisamente di validità e di nullità o di annullabilità, essendo queste le figure in cui la invalidità si può atteggiare.
       In questa ottica, il Collegio, senza voler ovviamente prendere posizione in ordine al dibattito dottrinale in corso, deve osservare che risulta di palese evidenza che tra le tutte differenti posizioni ciò che non è messo in discussione è che la inesistenza è una forma di invalidità del negozio che postula la sua completa irriconducibilità al tipo o allo schema almeno formale che per quel “tipo” è legalmente o socialmente tipizzato, e che le parti, interessate agli effetti che il negozio dovrebbe produrre, invocano.
       Si tratta quindi di un caso di “irrilevanza” giuridica di un fatto, storicamente avvenuto o meno, che, ai fini della tutela che l’Ordinamento astrattamente assicura per quel tipo di negozio sulla cui esistenza o inesistenza verte il giudizio, si riconosce come non riconducibile, neppure formalmente, a quel concreto tipo di negozio.
       In tal senso, ad esempio, è stata ritenuta “inesistente” la delibera assembleare di una società di capitali quando la relativa convocazione sia stata formulata da un soggetto privo dei necessari poteri ( Tribunale Milano, 26 maggio 2005); è stato anche ritenuto che “l’art. 2383, ultimo comma, c.c. – a termini del quale le cause di nullità o di annullabilità della nomina degli amministratori che hanno la rappresentanza della società non sono opponibili ai terzi dopo l’adempimento della pubblicità presso il registro delle imprese – attiene a quelle delibere di nomina degli amministratori che, per quanto viziate, siano in qualche modo riferibili alla società; non a quelle, affette da inesistenza, che, adottate in una assemblea solo apparente, provengano da soggetti che, senza avere la qualità di soci, abbiano addirittura fatto assurgere alla massima carica sociale un usurpatore a completa insaputa della società e anzi in frode e contro la volontà di questa e del suo amministratore legittimo e in carica” (Corte d’ appello di Milano, 25 maggio 2002).
       Applicando quindi al caso odierno le superiori considerazioni, si deve osservare che nello Statuto del Partito, nessuna norma di funzionamento è contenuta nella disposizione che prevede la tenuta e la organizzazione del congresso nazionale (art. 30); nessuna norma fa riferimento espresso alle modalità di verifica dei delegati o di tenuta della seduta e verifica del numero legale, e meno che mai attribuisce espressamente tale funzione alla Commissione nazionale di garanzia i cui compiti sono stabiliti all’art. 36 che prevede solamente che essa vigila sull’osservanza dello statuto e dei regolamenti.
       Anche ritenendo assorbiti in detta ultima competenza quella della verifica dei delegati regionali, si deve comunque riferire l’effettivo assolvimento del compito solo a motivi di intuibile oggettività organizzativa e fondati sulla prassi della tenuta delle precedenti Assemblee. Quindi l’esame della “effettività” della seduta dell’Assemblea congressuale deve essere condotta non già alla luce dello Statuto, che non offre sufficienti indici in tal senso, ma in relazione alle regole generali del codice civile ed in relazione al comportamento concreto delle parti, che assume una precisa valenza significativa e consente di interpretare correttamente il contenuto (e quindi prima ancora anche l’esistenza) di un negozio o di una dichiarazione di volontà, quale è da intendersi l’elezione di un socio o un associato ad una carica di un organismo da parte dei rispettivi componenti della persona giuridica.
       Sul piano della prassi e delle concrete modalità osservate dalle parti in concreto, si osserva che l’Assemblea del V° Congresso Nazionale del Nuovo Partito Socialista Italiano è stata regolarmente convocata dal Segretario uscente (della cui legittimazione in quella fase nessuno solleva dubbi); che in detta convocazione si è previsto che la Commissione Nazionale di garanzia avrebbe provveduto alla verifica dei presenti e delle deleghe; che le parti presenti hanno condotto due giorni di dibattito tra di loro, osservando consuete regole di governo della discussione tipiche di una Assemblea di un organismo associativo non riconosciuto quale il Partito politico, nell’attesa dei risultati dell’accertamento della Commissione di garanzia; con ciò rappresentandosi chiaramente che si aderiva collettivamente al conferimento di detto compito di esame della legalità della seduta alla Commissione, ma anche anticipando l’oggetto del dibattito che il Congresso prevedeva, ossia la decisione sulla conferma o meno della linea politica rappresentata dal Segretario uscente ed avversata dal suo collega ***********; nella commissione si è determinata una spaccatura sulla sussistenza o meno dei relativi presupposti per la tenuta dell’Assemblea e questa spaccatura, con le relativi difformi “decisioni” comunicate in Assemblea, ha costituito anche oggetto di ulteriore dibattito, conclusosi con l’”uscita” di una parte di delegati e componenti l’Assemblea e la votazione per acclamazione dei rimanenti.
       Per accertare se la seduta dell’Assemblea è stata legittimamente tenuta o meno, si dovrebbe quindi effettuare una indagine di merito sulla presenza delle deleghe dei relativi rappresentanti regionali di partito, nonché sugli effettivi contenuti dei lavori della Commissione di garanzia; una volta accertato l’effettivo numero di deleghe, si dovrebbe poi formulare un giudizio di merito sulle cause delle assenze e sull’effetto che, comunque, l’espressione del voto da parte di una aliquota dell’Assemblea (che non si può comprendere se maggioranza o minoranza e con quale gradazione) potrebbe avere determinato sulla esistenza stessa dell’Associazione non riconosciuta denominata “Nuovo Partito Socialista Italiano” (potendosi infatti ricavare una implicita volontà di scissione o comunque di estinzione dell’Associazione, rispetto all’originario organismo convocato e riunitosi).
       Alla luce di ciò pare indubbio al Collegio che solo un accertamento sostanziale, precluso ovviamente al giudice amministrativo, potrebbe accertare se l’elezione si sia tenuta regolarmente o meno.
       Da ciò consegue che, richiedendosi necessariamente un accertamento, non possa prescindersi dalla necessità che questo accertamento sia chiesto da parte di colui che vi abbia interesse e vi abbia titolo per farlo, e quindi dalla necessità che in ordine a tale richiesta vi sia una pronuncia; in altre parole, non è possibile alcun giudizio sul “fatto” invocato da chi vi ha interesse senza il processo e quindi l’accertamento giudiziale della esatta natura di quel fatto. Appare chiaro quindi che tutti gli elementi formali e, sicuramente, una parte di quelli sostanziali, concorrono a far ritenere esistente il Congresso, come fatto giuridicamente rilevante ai fini della vita dell’Associazione in esame e, in quella sede, come altrettanto “esistente” l’elezione del ricorrente odierno ***********, come negozio collettivo, di carattere assembleare, di scelta del Segretario nazionale del partito.
       Gli elementi formali sono dati dalla convocazione dell’Assemblea, dalla esistenza di una affermazione di regolare costituzione dell’Assemblea stessa prodotta da un componente della Commissione che aveva ricevuto un mandato espresso a verificare tali presupposti; dalla avvenuta votazione per acclamazione da parte di soggetti che sicuramente avevano titolo ad essere presenti ed a votare, stante il fatto che avevano già condotto un dibattito per oltre due giorni e non è ovviamente credibile che, all’interno di un sodalizio politico del genere di un Partito Nazionale con storica rilevanza come il Partito Socialista, possa avvenire un dibattito politico interamente tra soggetti non legittimati.
       Gli elementi sostanziali sono poi facilmente enucleabili dalle affermazioni dei vari associati che hanno preso la parola durante i due giorni di dibattito portato avanti “prima” della contestata conclusione dei lavori della Commissione di garanzia.
       Solo un esame acritico e forzatamente formalista potrebbe infatti far passare in secondo piano che ciò che è avvenuto in seno all’Assemblea del partito socialista in quei due giorni è stato evidentemente e chiaramente un confronto voluto e consapevole tra due differenti correnti politiche, l’una favorevole all’alleanza del partito con il centro-destra, con a capo il Segretario uscente *********** e l’altra contraria a tale schieramento e favorevole invece ad una differente scelta di campo a favore del centro-sinistra, con a suo capo l’on.le *****.
       Entrambe le parti hanno tentato, evidentemente, di prevalere e/o di trovare un accordo per non determinare la spaccatura del partito, salvo poi – quando tali tentativi sono falliti – ad utilizzare, strumentalmente, la (nel frattempo sospesa) questione del responso sulla presenza delle deleghe regionali, ciascuno a proprio fine, tanto che anche all’interno della “Commissione di garanzia” si è prodotta quella medesima spaccatura che si era già vista durante i giorni del dibattito e non è emersa una univoca decisione sulla questione preliminare della validità della seduta (cosa che appare comprensibile solo in una ottica chiaramente politica e non certo alla luce della valenza meramente “tecnica” che rivestono i poteri conferiti alla commissione).
       Validità che, se l’intento delle parti fosse stato diverso da quello appena esposto, si sarebbe dovuta e potuta logicamente risolvere prima di dare inizio ai lavori veri e propri; ma, poiché il vero problema da risolvere, non era tecnico-formale, ma politico, la decisione sulla validità della seduta doveva dipendere dalla possibilità o meno di trovare un accordo e tale possibilità è stata esplorata nei due giorni di congresso, con il che si conferma che le parti hanno concretamente manifestato un contegno significativo, ai fini della esistenza del Congresso, perché hanno prestato giuridica acquiescenza alla convocazione formale del Segretario uscente, nonostante gli avvisi espressi che il dibattito andava avanti “nell’attesa” del responso della Commissione. Circa la qualificazione della natura dell’”evento” presupposto (ossia la contestata “elezione” del Segretario nazionale), dunque, non può a sua volta negarsi che, come evento, essa sia avvenuta e, in conseguenza, non può non affermarsi l’“esistenza” del “negozio” conseguente.
       Resta, naturalmente, impregiudicata la questione circa la (perdurante e/o permanente) validità o meno dell’”evento” (ossia, lo si ripete, del Congresso e della elezione) e di, conseguenza, della effettiva valenza giuridico-negoziale di esso; ma tale questione deve essere proposta e risolta esclusivamente nella sede istituzionale a ciò deputata, ossia di fronte al giudice civile avente giurisdizione in tal senso (e, fino ad allora, o comunque in assenza di una pronuncia di annullamento del negozio invalido, quest’ultimo continuerà a produrre gli effetti suoi propri; come si vedrà, tale considerazione produce conseguenze ben precise non solo in ordine al giudizio di illegittimità della decisione della C.E.C., ma anche in tema di legittimazione a proporre il ricorso da parte dell’*********** “in quanto” rappresentante del Nuovo Partito Socialista Italiano).
**********
       Ic) A conferma di tale impostazione, depone anche un altro ordine di considerazioni, bene espresse da una, peraltro non recentissima, decisione secondo la quale “L’intervento del giudice ordinario nella vita dei partiti politici è ammissibile solo per il ripristino della legalità interna ed è circoscritto al controllo di legalità e conformità statutaria delle deliberazioni generali ed espulsive ai sensi degli art. 23, 24 e 36 c.c. (Tribunale di Roma 23 marzo 1995 – fattispecie relativa alla causa tra Bianco ed altri contro *********** ed altri, in relazione al Partito Popolare Italiano).
       Con tale decisione è stata affermata una importante limitazione ai poteri del giudice di intervenire nella vita interna di quella particolare associazione che è il Partito politico, nell’attuale quadro costituzionale repubblicano.
       A tale proposito, secondo un primo ordine di pensiero, fondato sull’assunto secondo cui l’art. 18 Cost. pone le associazioni non riconosciute al di fuori di qualsiasi possibilità d’intervento dei pubblici poteri sia sotto forma di divieti e limitazioni sia sotto forma di sorveglianza, qualsiasi forma di ingerenza del giudice ordinario nelle dispute sorte al loro interno non può che essere illegittima.
       Secondo alcuni autori, tali conclusioni varrebbero a fortiori per i partiti politici, peculiari formazioni sociali che, ex art. 49 cost., concorrono alla determinazione della politica nazionale, e che come tali devono esser posti al di fuori di qualsiasi intrusione dei pubblici poteri, ivi compreso quello giurisdizionale; la risoluzione degli eventuali conflitti sorti tra gli associati, o tra questi e il partito, deve essere demandata agli organi di giustizia interna in virtù della clausola compromissoria (per arbitrato irrituale) contenuta nello statuto del partito ed accettata dagli associati al momento della loro adesione. Secondo altri autori, invece, sarebbe da ritenersi ammissibile la possibilità dell’intervento dei tribunali all’interno dei partiti politici e, più in generale, delle associazioni, valorizzando in questi ambiti il momento contrattuale, dato dalla natura negoziale dell’ accordo associativo, che è stabilito tra persone con piena capacità giuridica e con oggetto idoneo e causa lecita che fa sorgere diritti ed obblighi, quindi anche obbligazioni. Orbene, secondo questa impostazione, se rispetto alle dispute che possono nascere in ordine a quanto concordato o pattuito negozialmente il giudice ordinario ha piena cognizione, analogamente, la conoscibilità delle controversie negoziali-associative da parte dall’autorità giudiziaria ordinaria dovrebbe quindi ritenersi del pari ammissibile, seppure con le limitazioni derivanti dal fatto che si tratta di associazioni la cui libertà è costituzionalmente garantita (art. 18 e 19 cost.). In tal senso, l’ingerenza giudiziale, di per sé ammissibile, sarà limitata all’accertamento dell’osservanza da parte degli organi associativi dell’ordinamento interno, considerato alla stregua di un atto di natura contrattuale. E’ su questa base che la dottrina (ed anche la giurisprudenza, come sopra richiamata) ha ritenuto applicabili alle associazioni non riconosciute, ivi compresi i partiti politici, gli art. 23 e 24 c.c. , poiché trattasi di norme che costituiscono una specificazione di principi generali del diritto dei contratti. Questa ricostruzione non contrasterebbe, inoltre, né con l’art. 18 né con l’art. 49 Cost., relativo ai partiti politici. La libertà di associazione, e il ruolo «privilegiato» assegnato ai partiti politici nell’assetto istituzionale, infatti, non potrebbero dirsi menomati da un intervento giudiziale diretto alla tutela di interessi ricavabili dalle regole che il gruppo ha autonomanente e liberamente posto, ma diverrebbe garanzia della libertà associativa e della personalità individuale nei contenuti e nelle dimensioni che i privati associandosi spontaneamente e concretamente vi hanno dato, che non si sovrappone ai rimedi giustiziali endoassociativi previsti dai singoli statuti.
       Alla luce di queste differenti correnti di pensiero, la decisione del Tribunale prima richiamata ha ritenuto che la tutela (in quel caso cautelare ex art. 700 c.p.c.) richiesta da un associato che chiedeva di inibire ad un altro associato l’uso del nome e del simbolo del partito (in quel caso, il Partito Popolare Italiano), essendo contestata la detta qualità, è stata ritenuta non accordabile; da parte di alcuni commentatori si è considerato che tale restrizione dei poteri del giudice fosse giustificabile rispetto alla denuncia di “semplici” violazione statutarie, ma non lo fosse in relazione alla lesione di diritti umani inviolabili, non “coperti” dalla tutela endoassociativa di cui agli artt. 18 e 19 della costituzione.
       Ai fini della odierna decisione, il dibattito di cui si sono appena riportati gli estremi più significativi conferma l’orientamento sopra espresso circa la assoluta non legittimità del giudizio della C.E.C. che ha ritenuto la “inesistenza” della elezione a Segretario del Partito dell’*********** e quindi ha di fatto statuito sulla legittimazione a presentare la lista da parte dell’*****************.
       Infatti, se è addirittura controverso il potere, ed i suoi limiti effettivi, di “ingerenza” del giudice ordinario – potere da esercitarsi, quindi, all’interno di un processo –   rispetto alle vicende interne di un partito politico, tanto più con cautela avrebbe dovuto procedere la C.E.C. nella propria valutazione del valore del materiale documentale che le è stato sottoposto nella vicenda in esame.
        Essa si sarebbe dovuta limitare ad accertare la esistenza o meno di un documento probatorio della carica e dei poteri di rappresentante del Partito di cui era stato utilizzato il simbolo in capo a colui che contestava la sussistenza di tale qualità nei confronti del proponente; analogamente, avrebbe dovuto accertare la esistenza o meno di simile documento in capo al presentatore della lista; e nel caso del permanere del dubbio, ossia mancando prove “certe” a favore del proponente, avrebbe poi dovuto optare per l’esclusione della lista.
       L’esclusione deriva dal fatto che, appunto nei casi in cui è dubbia la legittimazione a proporre la lista, non è tanto rilevante il fatto che sia controversa o meno la legittimazione di chi contesta detta presentazione e quindi non sarà questo aspetto a formare oggetto di accertamento da parte della C.E.C., ma, al contrario, diviene centrale e rilevante il fatto che non è certa la legittimazione di chi propone la lista. Su quest’ultimo, infatti, grava l’onere di fornire la prova in proposito.
       Tale principio di diritto è contenuto già nel D.P. cautelare nr. 1790/05, ed in questa sede può essere adeguatamente sviluppato.
       Si deve premettere che, a norma dell’art. 18, comma 1, lett. “c” del D.Pres.Reg.1/1960, la Commissione: “ricusa i contrassegni di lista che siano identici o che si possano facilmente confondere con quelli di altre liste presentate in precedenza o notoriamente usati da altri partiti o raggruppamenti non politici, nonchè quelli notoriamente usati da partiti o raggruppamenti politici che non siano depositati da persona munita di mandato da parte di uno o più rappresentanti del partito o del gruppo, mediante firma autenticata, assegnando un termine di non oltre 48 ore per la presentazione del nuovo contrassegno o detta autorizzazione”.
       Nello schema della norma, pertanto, sono elementi strutturali (e non solamente condizioni formali) dell’ammissione di liste aventi simboli usati da partiti o raggruppamenti politici: il “mandato” (ossia la delega) e la “rappresentanza” del delegante.
       Ora, seppure è vero che le “le cause di esclusione previste dalle norme in materia elettorale debbono ritenersi tassative, in quanto derogatorie del principio generale di massima partecipazione, riferibile agli elettori ed ai candidati, al procedimento elettorale, che costituisce espressione dei diritti fondamentali previsti dagli artt. 48 e 51, cost” (cfr. TAR Catania, II, 7 novembre 2003, nr. 1854); è del pari vero che il procedimento elettorale è informato al generale principio della “strumentalità delle forme”, secondo cui acquistano rilevanza invalidante – in mancanza di espressa comminatoria di nullità – le irregolarità sostanziali, atte cioè ad influire sulla sincerità e sulla libertà del voto e quindi sull’affidabilità del risultato finale (ex multis, cfr. TAR Trentino Alto Adige, Trento, 15 ottobre 2005, n. 276; TAR Campania, Salerno, I, 20 maggio 2005, n. 815; TAR Lazio, Roma, II, 3 novembre 2004, n. 12362; Consiglio di Stato, IV, 10 novembre 2003, n. 7203 e V, 05 marzo 2003, nr. 1215).
       Combinando tra loro le regulae iuris appena esposte, ne deriva che il dubbio sulla legittimazione del “rappresentante” del partito a delegare la presentazione della lista, incide su un elemento di legge che è condizione di validità della stessa ammissione della lista. L’accertamento della capacità rappresentativa del delegante, infatti, è necessario a presidio della libertà di voto degli elettori, che non può sussistere senza una corretta informazione sui candidati e sulle liste, né senza la certezza della “provenienza” politica del simbolo che contraddistingue la lista.
       Ne consegue che l’ammissione di una lista, in presenza di una contestazione sulla legittimazione del delegante, non risolvibile con l’uso dei poteri della Commissione elettorale, influisce in via immediata e diretta sulla sincerità e sulla libertà del voto e quindi sull’affidabilità del risultato finale ed è pertanto illegittima per violazione dei diritti fondamentali di cui agli artt. 48 e 51 della Costituzione e per violazione del citato art. 18 comma 1 lett. “c” del D.Pres.Reg. 1/1960. 
       A tale proposito, in punto di fatto, osserva il Collegio che, in sede di esame dell’ammissione svoltasi davanti alla C.E.C., l’avvocato del ricorrente nel giudizio nr. 3049/05, avv. Virzì, ha espressamente contestato che l’***************** fosse il Segretario del Partito. Lo ha fatto presentando documenti, tra i quali ciò che asseritamente è stato presentato come “verbale” del Congresso e la convocazione.
       A sua volta, l’*****************, affermando che il V° Congresso non si sarebbe mai tenuto, non ha dal canto suo comunque fornito alcuna rituale e valida prova della sua legittimazione (anche se, a tale proposito, poteva supplire il fatto notorio, cosa però che nel provvedimento di ammissione non si afferma), se non l’attestazione del notaio, in calce all’autentica della firma, secondo la quale egli stesso, notaio, era certo delle “qualità personali” del dichiarante. Mentre su quest’ultimo aspetto si tornerà a breve, si deve qui osservare che alla luce delle argomentazioni fornite di fronte alla C.E.C. da parte degli *********** e ***********, la migliore delle valutazioni che quest’ultima avrebbe potuto fare era che, come accennato sopra, non era certa alcuna legittimazione a proporre il simbolo: si vedrà, inoltre, tra breve, come sia rilevante l’assenza di una prova di legittimazione dell’***************** alla delega della presentazione della lista, sotto l’altro e diverso aspetto che riguarda le differenze tra il simbolo oggetto della delega e quello concretamente utilizzato dal presentatore sig. ******* (vedasi infra, sub II).
       Ora, quando, una volta espletati gli accertamenti, nei tempi e nei limiti, anche sostanziali, concessi dall’Ordinamento nella misura necessaria a garantire il rispetto delle competizioni elettorali nella successione delle fasi del rispettivo procedimento, si perviene ad una situazione come quella in esame, nella quale solo una pronuncia del giudice ordinario può determinare chi avesse, a quel momento, la legittimazione a proporre la lista, non può che conseguirne la esclusione della lista, per le ragioni esposte sopra e che implicano significative conseguenze.
       Manca, infatti, la condizione formale per la sua presentazione, ossia la “certezza” documentale del possesso del titolo di rappresentante del Partito, che, a sua volta, è il presupposto sostanziale al quale la norma di cui all’art. 18 comma 1 lett. “c” del D.pres.reg. 1/1960 condiziona la ammissione della lista.
       Quindi, laddove si creino situazioni di incertezza, all’interno delle formazioni politiche o dei partiti politici, circa la rispettiva leadership, tali situazioni dovranno essere risolte (in via di autonomia organizzativa avvalendosi degli ordinari strumenti associativi oppure mediante il ricorso al giudice ordinario) prima della partecipazione ad una competizione elettorale (ovviamente se a partecipare alla competizione sarà una lista con il simbolo ed il nome del partito), perché è prevalente l’interesse pubblico alla tutela della sincerità del voto ed alla stabilità del risultato, che non possono essere messi in forse da dissidi interni alle formazioni politiche che vi partecipano senza avere la necessaria coerenza e stabilità organizzativa (esponendo così l’espressione della sovranità popolare ad inammissibili condizioni di validità e di effettività esterne al voto).
       In assenza di tale “stabilità” organizzativo-associativa, il “rischio” della esclusione dalle competizioni rimane (ed è giusto che rimanga, a tutela dell’interesse degli elettori) a carico di quei suoi organi rappresentativi che non sono riconosciuti tali nella loro carica dagli stessi associati che dovrebbero rappresentare.
       D’altronde, la stessa Commissione Elettorale era ben consapevole che la contestazione sulla legittimazione del rappresentante del partito politico “delegante” il simbolo avrebbe implicato l’esclusione della lista.
       Infatti, per superare l’empasse (costituito da una situazione certamente nuova ed imprevista), essa ha inteso fare ricorso all’uso della (come si è già visto, discussa e comunque del tutto inappropriata per il caso di specie) categoria della “inesistenza” al fine di poter trattare la contestazione medesima come un caso di abnormità o di infondatezza manifesta e così pervenire alla risoluzione della questione senza esorbitare dall’alveo dei poteri di indagine previsti dall’Ordinamento in capo alle Commissioni elettorali.
       Quindi, la Commissione ha, di fatto, svolto un giudizio di merito tra gli interessi contrapposti, entrambi costituzionalmente tutelati: quello del presentatore della lista, che è l’interesse all’esercizio del diritto politico di elettorato passivo ed il favor admissionis; quello dell’odierno ricorrente, che è l’interesse alla libertà di associazione e di manifestazione del pensiero.   
       Tuttavia, nell’assetto normativo che è quello emergente dal citato art. 18 del D.pres reg. 1/1960 (coerente, d’altronde, con quello vigente a livello nazionale per effetto dell’art. 33 del DPR 570/1960) non sussistono spazi per una comparazione di questi contrapposti interessi, perché questa scelta è già stata fatta dal legislatore che ha inteso tutelare un terzo genere di interessi, rispetto a quelli appena esaminati, costituito dalla tutela della libertà di espressione del voto, ossia la tutela dei cittadini elettori, poiché ha previsto un meccanismo che impone l’accertamento della provenienza della lista, al fine di consentire il formarsi di un libero, consapevole e, quindi, responsabile convincimento da parte di questi ultimi. 
       Pertanto, alla luce delle suddette ragioni, la C.E.C. ha errato nell’ammettere alle competizioni elettorali in esame la lista presentata dal sig. ******* su delega dell’*****************.
********
       Id) Sulla capacità e idoneità probatorie riconoscibili al materiale prodotto di fronte alla CEC e sulle deduzioni ed eccezioni proposte dalle parti controinteressate e resistenti nei ricorsi nn. 3049/05 (e gli altri solidali) e ricorrenti nei ricorsi 100/06 e 124/06
       In contrario a quanto finora esposto non valgono le eccezioni, obiezioni e difese dei controinteressati e della P.A. resistente nei giudizi nn. 3049/05 e solidali e che si esamineranno a seguire, come pure le censure sollevate contro la proclamazione degli eletti nei ricorsi nn. 100/06 e 124/06.
       1) In primo luogo, va esaminata la questione, cui si è già fatto cenno, a conclusione della parte “Ia”, del valore del “verbale” del V° Congresso del Partito. Secondo la tesi favorevole all’ammissione della lista del sig. *******, e quindi sulla scorta della teoria della “inesistenza” del Congresso, il documento prodotto dall’*********** non avrebbe alcun valore documentale e né, tantomeno, probatorio, in quanto nessuna operazione di verbalizzazione si era tenuta nel corso dei lavori, né era prevista la tenuta di un “brogliaccio” dell’Assemblea.
       Alla luce di quanto esposto prima, appare evidente che la questione è in realtà mal posta ed è meramente strumentale alla teoria della “inesistenza” del Congresso e della relativa elezione.
       Intanto si osserva che è stato depositato agli atti, da parte del ricorrente nel ricorso nr. 3049/05, un documento espressamente qualificato come “copia composta di settantatrè fogli” ..conforme.. “alle pagine….del Libro Verbali Assemblee Congresso Nazionale Partito Socialista – Nuovo P.S.I.” esibito in originale dall’ *********** (autentica notaio ********************** in Roma). Tale produzione smentirebbe, in fatto, l’affermazione della inesistenza della verbalizzazione durante il Congresso. Eppure, secondo il collegio, tale argomento non è rilevante ai fini della decisione.
       Infatti, ciò che rende illegittima la decisione della C.E.C. di ammettere la lista presentata dal sig. *******, è, come detto, la esistenza della oggettiva incertezza sulla titolarità della carica di Segretario nazionale del Partito.
       Rispetto a tale incertezza, tutte le “prove” offerte da entrambe le parti (compresa la attestazione del notaio circa le qualità del delegante ***************** e la copia del verbale) sono, per così dire, “indiziarie”, ossia servono solamente ad introdurre nel procedimento amministrativo un supporto alle tesi, rispettivamente, favorevoli e contrarie all’ammissione della lista. In questo senso, il c.d. “verbale” ha il valore oggettivo di un resoconto, che equivale ad una fonte di cognizione e non di prova “autentica” dei fatti affermati. Quindi i fatti, le affermazioni, i comportamenti che gli associati hanno prodotto e/o tenuto durante il Congresso, non sono stati assolutamente contestati tra le parti nei loro accadimenti materiali, ma sono stati contestati solo nel loro valore e qualificazione giuridica.
       Sicchè, ciascuna delle parti ha tratto da quegli avvenimenti titoli di prova a favore ed a sostegno delle proprie tesi.
       Pertanto, il documento presentato è più che sufficiente a far sorgere un legittimo affidamento sulla sua veridicità e come tale sorregge le ricostruzioni del “fatto” negoziale (ossia l’avvenuta o contestata elezione) per entrambe le parti contrapposte nel procedimento elettorale.
       Si deve considerare che, in quanto organo associativo, l’assemblea del partito non necessita ai fini della validità delle decisioni e delle delibere in essa adottate, di un verbale facente piena prova fino a querela di falso, ossia di un atto pubblico, se ciò non è richiesto dallo Statuto o da scelte autonome degli associati. In sua mancanza può quindi essere data la prova dei fatti affermati in qualsiasi modo idoneo con la produzione di un documento avente quantomeno l’esteriorità di un resoconto dell’accaduto (a tacere, poi, delle notizie di stampa che pure sono state prodotte nel procedimento amministrativo; vedasi, in proposito quanto ritenuto ed esposto al successivo punto 4 in ordine alla questione del “fatto notorio”).
       Devono quindi essere esaminate le altre eccezioni o difese proposte a favore dell’ammissione della lista e quindi contro l’esclusione di quest’ultima.
       2) Secondo il provvedimento impugnato e le difese dei controinteressati sostanziali, la C.E.C. sarebbe stata “obbligata” all’ammissione per effetto della autentica contenuta nella delega proveniente dal Notaio, secondo la quale è certa la provenienza e “le qualità personali” del delegante.
       In proposito, rileva il Collegio che a norma dell’art. 2700 c.c. “L’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti.
       Il notaio che ha redatto l’atto e che ha attestato di essere certo delle “qualità personali” del delegante *****************, non ha fornito alcuna prova di tale qualità e, precisamente, della sua titolarità di Segretario del Partito e ciò sia perché tale attestazione non rientra in quelle appena previste quale oggetto di prova da parte di un atto pubblico, a mente dell’art. 2700 cod.civ. cit., e sia perché tale giudizio, presupponendo una valutazione di merito su un fatto giuridicamente rilevante quale la tenuta del V° Congresso del Partito, si è già visto quali limiti incontra ed a quali garanzie è sottoposto. Ne consegue che non ha alcun valore la suddetta attestazione riportata nell’atto di autenticazione della delega dell’***************** alla presentazione della lista da parte del sig. *******.
       Pertanto, l’accertamento basato sulla delega autenticata, come operato dalla C.E.C., risente dei limiti espressi nella disposizione del codice civile indicata e riportata sopra e come tale poteva al più costituire la base della prima decisione favorevole all’ammissione; ma, in presenza di una formale contestazione, quale quella che è stata sollevata di fronte alla CEC dall’***********, la medesima autenticazione poteva solamente fondare o indurre un mero stato di convincimento soggettivo nei componenti della C.E.C., non certamente costituire elemento vincolante per la decisione.
       3) Affermano le parti controinteressate e, con ciò si affronta anche la censura contenuta nei ricorsi da loro proposti contro la proclamazione degli eletti, sub condicione della esclusione della lista, che la C.E.C. avrebbe operato al di fuori dei tempi contingentati dal procedimento.
       Sul punto basti qui richiamare intanto quanto il Tribunale ha già avuto modo di affermare sulla possibilità della C.E.C. di superare i limiti previsti, salvo l’effetto utile ossia decidendo sui ricorsi o le opposizioni entro i tempi strettamente necessari a consentire di fatto la partecipazione alla competizione elettorale (TAR Catania, II, 25 luglio 2003, nr. 1203). Sul punto si ritornerà oltre, in relazione all’analoga censura proposta contro l’ammissione in seno ai ricorsi nn. 100/06 e 124/06.
       4) Quanto al “fatto notorio” dell’avvenuta elezione dell’***********, richiamato nel decreto presidenziale, si deve rilevare che, sia pure ammettendo con la parte resistente nel giudizio nr. 3049/05 che fosse “notorio” solo l’avvenuto esito del Congresso, come da notizie giornalistiche che sono state prodotte, ne deve comunque derivare una ulteriore ragione di conferma della erroneità della decisione della C.E.C. di ammettere la lista. Per stessa ammissione della parte controinteressata, era infatti “notorio” che l’esito del Congresso era oggetto di palesi contestazioni, con il che si conferma che la stessa ****** avrebbe dovuto attivare i propri poteri di indagine sulla legittimazione del delegante il presentatore di lista e che, pur non avendolo fatto, una volta portata alla sua attenzione la contestazione formale della legittimazione suddetta, avrebbe dovuto escludere la lista, per le ragioni esposte prima che sono relative all’effetto che il “dubbio” sulla legittimazione a proporre la lista produce in ordine al procedimento elettorale. In questa sede si osserva che tale “dubbio” sarebbe stato davvero giustificato anche solo alla luce delle notizie di stampa che ciascuna delle due parti ha portato a sostegno della propria tesi.
**********
       II) L’ammissione è stata poi viziata anche per la differenza sussistente tra il simbolo presentato e quello oggetto della delega. In questa sede si deve osservare che detta censura è stata sollevata nell’ambito dei ricorsi incidentali proposti in seno ai ricorsi nn. 100/06 e 124/06, ma rileva anche ai fini della dimostrazione della carenza di legittimazione in capo all’***************** a delegare la presentazione della lista.
       La delega rilasciata dall’***************** riguardava la presentazione di una lista così denominata: “Socialisti Uniti per l’Europa” Invece, il presentatore ha sottoscritto il seguente simbolo di lista: “Partito Socialista – Nuovo P.S.I.“.
       La suddetta censura, proposta nel ricorso 110/06 è inammissibile in detto contesto, perché contenuta per la prima volta nella memoria depositata il 25 marzo 2006 (pag. 10), non notificata; è comunque utile a sostenere la diversa doglianza di carenza di legittimazione sollevata nel ricorso introduttivo.
       La censura, a sua volta, è contenuta anche nei ricorsi incidentali proposti nei ricorsi nn. 100/06 e 124/06; il Collegio deve, però, ancora valutare la fondatezza e l’ammissibilità di questi ultimi, al cui giudizio resta quindi subordinata la rilevanza processuale dei ricorsi incidentali.
       Pertanto, su tale aspetto si tornerà oltre.
       IIA) Consegue intanto, da quanto esposto prima, che si conferma la contraddittorietà della ritenuta sussistenza della legittimazione dell’***************** a rappresentare il Partito Socialista e si conferma la mancanza di prova della legittimazione di quest’ultimo a rappresentare il partito. Infatti, lo stesso delegante non ha delegato l’uso del simbolo e della denominazione proprie del Partito Socialista, di cui assume di essere ******************** e poi invece concretamente utilizzati dal presentatore: con ciò evidentemente avvalorando i dubbi sulla sua legittimazione e comunque non potendosi avvalere di alcuna presunzione o fatto notorio per affermare la propria legittimazione all’uso di quello speciale simbolo che era oggetto della delega (quindi si deve qui richiamare, in quanto fondata, l’osservazione che il legale dell’*********** ha sollevato nella seduta della C.E.C. circa la mancanza di prova di legittimazione in capo all’***************** e cui si è fatto cenno prima e che è stata sollevata in seno ai ricorsi nn. 3049/05 e 103/06).
       Inoltre, per tali ragioni è anche fondata la specifica censura che il ricorrente nel giudizio nr. 103/06 ha sollevato in relazione all’ammissione della lista deducendo la violazione dell’art. 1 comma 3° della L.R. 35/1997 (cfr. ricorso nr. 103/05 pag. 12/26). Infatti, l’intera verifica disposta dalla C.E.C. della titolarità del diritto a rappresentare il Partito Socialista si è rivelata quantomeno male indirizzata, perché (a tacere del fatto che non si è rilevata la difformità tra il simbolo delegato e quello presentato) tale verifica avrebbe dovuto essere rivolta ad accertare la titolarità dell’***************** ad utilizzare un simbolo “nuovo”, sia pure connesso a quello storico o tradizionale del Partito Socialista dallo stesso rappresentato come Segretario nazionale fino alla contestata elezione; e ciò soprattutto in relazione alla necessità o meno delle sottoscrizioni ai fini della validità della presentazione delle liste (cfr. sull’argomento l’ampia ricostruzione della tematica e dell’istituto contenuta nella sentenza di questa Sezione nr.1357 del 10.08.2006).
       IIB) Sulla legittimazione a ricorrere dell’*********** nei ricorsi nn. 3049/05 e 103/06.
       Può adesso esaminarsi la questione inerente la legittimazione a proporre ricorso da parte del ricorrente nei giudizi nn. 3049/05 e 103/06.
       Tale questione viene esaminata dopo le suesposte questioni sostanziali, sebbene sia logicamente pregiudiziale a queste ultime nei rispettivi giudizi, sia perché per la sua risoluzione è necessario tenere presente il quadro sostanziale della vicenda, sia perché essa rileva solamente ai fini dei ricorsi proposti dal Nuovo Partito Socialista “nella persona” di colui il quale afferma di esserne il Segretario Nazionale e quindi non possiede alcun rilievo nel giudizio nr. 110/06, proposto da cittadini elettori del Comune di Messina e sul quale, quindi, nessun problema di legittimazione a proporlo o di interesse alla pronuncia può essere sollevato.
       In tal senso, quest’ultimo ricorso, in quanto fondato per le ragioni esposte sopra, è già da solo sufficiente a condurre all’annullamento dell’ammissione della lista presentata dal sig. *******; tuttavia, è necessario esaminare egualmente la questione della legittimazione a ricorrere nei giudizi 3049/05 e 103/06 perché, alla stregua dei ben noti e pacifici principi processuali in materia (cfr. ex multis Cons. Stato IV, 14 novembre 1994, n. 896; Cons. di Stato, IV, 25 marzo 1999, n. 339), ciascun ricorso, seppure riunito, conserva la propria distinzione ed autonomia.
       Ed infatti, come si vedrà, gli interessi delle parti ricorrenti nei ricorsi 3049/05 e 103/06, da un lato, e nel ricorso nr. 110/06, dall’altro, sono differenti tra loro ed attengono a situazioni diversamente tutelate dall’Ordinamento; quindi implicano tutti la necessità di una completa pronuncia.
       Intanto si deve osservare che, sub specie di eccezione, viene riproposta la questione che ha costituito oggetto di esame da parte della C.E.C.: ossia se la titolarità della rappresentanza del Partito spetti all’***********, o all’*****************.
       Secondo la difesa del presentatore o dei componenti della lista esclusa, infatti, il giudice civile con pronuncia resa tra le parti avrebbe dimostrato che, al momento delle elezioni e quindi della proposizione dei ricorsi, la titolarità della carica di Segretario del Nuovo P.S.I. era dell’*****************. La pronuncia in esame è l’ordinanza del 25 gennaio 2006 versata in atti, con la quale, ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c., il Tribunale di Roma, III sezione civile, ha revocato “l’ordinanza ex art. 700 c.p.c…….” del30.12.2005 “……..nell’ambito del procedimento cautelare iscritto al n. 79054/2005 R.G.” (e quindi, secondo tale tesi, avrebbe così riconosciuto l’invalidità dell’elezione dell’*********** alla massima carica del partito).
       Ne conseguirebbe, secondo tale tesi, che, in corso di giudizio amministrativo, dovrebbe riconoscersi l’assenza di titolarità del ricorrente a rappresentare il partito e quindi ad agire in giudizio per conto di quest’ultimo; o, in subordine, dovrebbe riconoscersi una sopravvenuta carenza di interesse processuale, essendo stato riconosciuto, dopo la proposizione del giudizio, che il Segretario nazionale del Nuovo P.S.I. è l’***************** e non l’***********.
       Mentre in sede di procedimento elettorale, come si è visto, l’accertamento della titolarità della rappresentanza del partito avrebbe dovuto essere rivolto alla verifica del possesso di tale qualità in capo al soggetto delegante il presentatore di lista, in sede processuale l’eccezione tenderebbe a riproporre la necessità dell’accertamento della suddetta questione (ossia della dimostrazione del possesso della qualità di rappresentante del Nuovo P.S.I.) in relazione all’***********.
       L’eccezione è infondata.
       Come è d’altronde pacificamente affermato in dottrina, si deve ricordare che “nel processo amministrativo, la legittimazione al ricorso va accertata verificando in capo a chi si appunti la titolarità della situazione soggettiva sulla quale si innesta l’interesse legittimo che si vuole far valere in giudizio, e, costituendo un presupposto processuale, deve sussistere al momento della proposizione del ricorso. Diversa verifica è invece da espletarsi per quanto riguarda l’interesse al ricorso, il quale costituendo una condizione dell’azione, deve persistere fino al momento della decisione” (Consiglio Stato , sez. IV, 07 novembre 2002, n. 6113).
       Sotto questo aspetto, al momento della proposizione dei ricorsi, la legittimazione a proporre il ricorso da parte dell’***********, è indubbia per diversi ordini di ragioni.
       A) Al momento della proposizione del ricorso 3049/05 non era ancora pendente nessuna azione civile tra le parti.
       Analogamente deve ritenersi per il ricorso nr. 103/06, quest’ultimo notificato il 21 gennaio 2006 e depositato il 26 successivo, quindi proposto comunque prima della notifica della ordinanza del Tribunale di Roma, che è stata depositata solo il 25 gennaio 2006 (si vedrà, in ogni caso, che anche a prescindere dalla data della notifica della ordinanza civile, quest’ultima non è suscettibile di determinare alcuna carenza di legittimazione a proporre il ricorso nr. 103/06 in capo all’***********).
       Avendo l’*********** allegato, quale dimostrazione della propria legittimazione a ricorrere, la documentazione dell’elezione congressuale, con quest’ultima prova egli ha pienamente adempiuto all’onere di allegazione che incombeva, in quel momento, sul ricorrente, nei limiti in cui ciò era necessario ai fini dell’interesse al ricorso (limiti che si vedranno tra breve). In altre parole, e si ripete quanto già emerso prima, la prova della propria legittimazione, il ricorrente l’ha fornita mediante l’allegazione di un documento, avente valore riproduttivo e probatorio di una avvenuta elezione, ossia di un negozio assembleare ed associativo, allora (e tuttora) efficace, in quanto non annullata e neppure sospesa (né impugnata da chi aveva interesse, tra l’altro) dal giudice ordinario.
       B)   Sotto altro e diverso profilo, mediante i ricorsi nn. 3049/05 e 103/06, l’interesse fatto valere da colui il quale in quel momento ha affermato/dimostrato essere il legittimo rappresentante del Partito Nuovo P.S.I. non è stato (neppur indirettamente) quello di ottenere l’accertamento di tale titolo o di rivendicarne il possesso o la legittimità, ma quello (ben diverso) di tutelare la propria posizione giuridica e quella dell’organismo (nell’interesse del quale ha agito) da un evento lesivo, costituito da un provvedimento dell’Amministrazione.
       Tale, infatti, è, nella prospettiva del ricorrente, l’avvenuta ammissione della lista con il nome ed il simbolo del partito che egli, a quella data, afferma di rappresentare sulla base di un negozio efficace, posto che la presentazione della suddetta lista è avvenuta da parte di colui il quale egli riteneva non essere (più) legittimato a rappresentare il partito medesimo; ed anche tutto questo è stato comprovato in sede di proposizione dei ricorsi.
       Il diritto tutelato oggi azionato in via giudiziale è, quindi, essenzialmente quello alla libera espressione del pensiero e di associazione, il diritto di esplicazione dell’individuo nelle formazioni sociali di cui la Repubblica riconosce la piena tutela e nelle quali la persona umana esplica la sua personalità (art. 2 Cost.), il diritto di esercizio delle scelte politiche, come pure il diritto della tutela del nome e della immagine del Partito (che si assume leso da scelte politiche differenti da quelle propugnate dal ricorrente). Si tratta quindi di situazioni giuridiche direttamente tutelate dalla Costituzione, nonché dalla legislazione codicistica vigente.
       Il diritto azionato è, così, correlato ad una situazione giuridica complessiva che il ricorrente ha dimostrato appartenergli alla data di proposizione del ricorso (per effetto delle vicende del V° Congresso nazionale, come documentate in atti) e che comprende vari poteri, tutti ricollegati alla rivendicazione del possesso della carica derivante da un negozio assembleare che, anche ammettendone l’invalidità (ma non certamente l’inesistenza), è (tutt’ora) efficace, in quanto non annullato dal giudice ordinario. Ciò ha sia un ambito sostanziale (l’affermazione della regolarità dell’elezione a tale carica che potrà essere posta nel nulla solamente da una pronuncia giudiziale nel merito) che un risvolto processuale (il potere di azione in giudizio per la tutela di tale diritto).
       Pertanto, la esistenza di una (efficace) elezione assembleare, è condizione sufficiente di legittimazione ad adire il Giudice Amministrativo da parte di colui che, in base ad essa, afferma essere il rappresentante del Partito, laddove l’Amministrazione, senza averne il potere, pone in essere un atto che (esplicitamente) riconosce e dunque afferma la legittimazione di altra parte (che tale elezione non riconosce) a presentare la lista a nome del Partito.
       C) Le considerazioni appena esposte, comportano che non può configurarsi neppure una carenza di interesse alla pronuncia, ex art. 100, c.p.c., alla luce della ordinanza del Tribunale civile di Roma, III sez. del 25 gennaio 2006.
       A tacere del fatto che tale ordinanza chiude una fase meramente cautelare, sulla cui valenza si tornerà sub 4, si deve considerare che l’interesse alla pronuncia permane comunque in capo al ricorrente, perché egli chiede tutela di un interesse radicato nella circostanza che, a quella data, non sussisteva (e non sussiste in realtà ancora oggi) alcuna statuizione tra le parti sull’appartenenza della carica. A tutto concedere, tale interesse sussiste ancora oggi, quantomeno anche solo sotto l’aspetto morale e come tale implica la necessarietà della pronuncia.
       D) In realtà, come accennato sopra, l’interesse alla pronuncia non è solo morale. Nei provvedimenti cautelari, infatti, come in qualsiasi provvedimento reso dal giudice in forma diversa dalla sentenza, per regolare l’attuazione, la modifica o l’estinzione delle misure cautelari, non è ravvisabile il carattere della decisorietà, attesa la natura strumentale di essi ed attesa la loro insuscettibilità di acquisire efficacia di cosa giudicata, formale e sostanziale (tant’è vero che non sono ricorribili per Cassazione: cfr. Cass. Civ. I, 26 luglio 2000, n. 9808).
       Pertanto, l’ordinanza del 26 gennaio 2006, resa dal Tribunale di Roma, III sezione civile, possedendo solamente valenza cautelare, è come tale inidonea a costituire un efficace titolo di accertamento della titolarità del diritto. Detta ordinanza ha, infatti, solamente revocato il precedente provvedimento di prime cure che, a sua volta, interdiva l’uso del simbolo del partito all’on.le *********** a favore dell’istante ***********.
       Resta quindi impregiudicato l’accertamento del possesso del titolo, che può derivare solamente da una sentenza, da rendere nell’apposito processo di cognizione (e non in sede cautelare), ma che è, per le ragioni espresse sopra, ultroneo rispetto alla legittimazione a ricorrere come esistente al momento delle elezioni, perché quest’ultima sussiste anche solo in relazione alla efficacia che, a quella data, il negozio assembleare di elezione del Segretario del partito rivestiva
       In realtà, quindi, oggi sussiste la medesima situazione giuridica esistente all’atto della proposizione degli odierni ricorsi.
       Dopo le elezioni, infatti, l’*********** ha tentato, senza successo, di ottenere una pronuncia cautelare interdittiva dell’uso del simbolo da parte del suo collega/controparte *****************; ma tale tutela era concorrente ed autonoma rispetto agli odierni ricorsi, in quanto aveva di mira una statuizione contingibile e provvisoria, non certamente sufficiente ad ottenere una definitiva affermazione del diritto; così, sebbene l’ordinanza conclusiva del procedimento civile di urgenza contenga una chiara delibazione di invalidità della contestata elezione, rilevando quest’ultima solo ai fini della tutela cautelare civile concessa in prime cure, e non facendo stato tra le parti, con essa non si impedisce all’*********** di rivendicare la propria legittimazione (e di continuare ad utilizzare a sua volta il simbolo del partito, sulla base degli atti congressuali ancora in corso di validità, che non sono stati ancora oggetto di una pronuncia di invalidazione).
       Quest’ordine di argomenti viene poi confermato se si considera che il provvedimento cautelare, proprio per la sua inattitudine ad acquisire tra le parti efficacia di cosa giudicata, produce effetti solamente ex nunc; ne discende che la decisione cautelare civile, non esplicando in ogni caso effetti in relazione al momento pregresso della presentazione dei ricorsi, non avrebbe potuto avvantaggiare il ricorrente *********** se fosse stata accordata e né lo danneggia, una volta revocata, ai fini della legittimazione a ricorrere. 
       Ovviamente nessun rilievo hanno poi le questioni relative alle scelte politiche successive.
       Per tutte queste ragioni, dunque, va affermata la legittimazione dell’*********** a proporre i ricorsi in esame avverso l’ammissione della lista del sig. ******* alle competizioni elettorali della Città di Messina.
       III) Sulle censure sollevate nei ricorsi nr. 100/06 e 124/06.
       Possono adesso esaminarsi le altre censure sollevate nei ricorsi nr. 100/06 e 124/06 nei confronti della proclamazione degli eletti, in quanto avvenuta senza la partecipazione della lista del sig. ******* alle consultazioni.
       Nella loro parte diretta ad affermare la legittimazione a presentare la lista da parte dell’*****************, i ricorsi sono infondati per le ragioni già ampiamente esposte sopra.
       Nella loro parte diretta a invalidare il provvedimento della C.E.C. per vizi suoi propri, si rileva quanto segue.
       IIIa) I ricorrenti sostengono che la C.E.C. avrebbe errato nel ritenersi vincolata alle disposizioni dei decreti emessi dal Presidente di questo Tribunale. Tale censura è palesemente infondata e, d’altronde, non è supportata da alcuna considerazione di diritto o, quantomeno, di ordine logico. Stante la chiara natura del provvedimento giurisdizionale contemplato dall’art. 21 della l. 1034/71, nessuna possibilità di disattenderne il contenuto aveva la C.E.C. a meno di non voler integrare, tra l’altro, condotte penalmente rilevanti.
       IIIb) I ricorrenti sostengono che la C.E.C. avrebbe operato in carenza di potere, posto che avrebbe escluso la lista, dietro l’ordine del Presidente del TAR, al terzo giorno antecedente le elezioni e quindi fuori dai termini massimi della propria possibilità e competenza a pronunciarsi in merito. Anche tale censura è palesemente infondata in diritto, sia per la natura del provvedimento presidenziale, che essendo pronunciato nell’ambito di un giudizio, non risente certamente dei limiti temporali disciplinati dalla normativa sulla ordinaria scansione procedimentale elettorale, sia perché, comunque, come già affermato da questo T.A.R. nella pronuncia sopra richiamata (TAR Catania, II, 1203/03)) l’essenziale è che i provvedimenti di ammissione o di esclusione intervengano in tempo utile per la partecipazione alla competizione elettorale (si confronti anche, ex multis, T.A.R. Molise, 30 gennaio 1993, n.5; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, Trieste, 25 ottobre 2003, nr. 720; T.A.R. Catania II, 7 novembre 2003, nr. 1854; Consiglio di Stato, V, 18 marzo 2004, nr. 1432).
       IIIc) Quanto alla eccezione di inammissibilità del ricorso nr. 3049/05, sollevata da parte interveniente e dalla difesa dell’Amministrazione, per l’essere stato proposto prima della proclamazione degli eletti ( secondo quanto sostenuto dall’A.P. con la sent. nr. 10/2005), il Collegio deve rilevare che, essendo stata proposta identica ed analoga censura (con in più ulteriori autonomi motivi di doglianza) contro la suddetta proclamazione negli altri ricorsi riuniti nr. 103/06 e 110/06 (nonché nei ricorsi incidentali proposti in seno agli altri due ricorsi riuniti 100/06 e 124/06), ed essendo tali gravami fondati, come si è visto, la decisione sulla ammissibilità del ricorso nr. 3049/05 ha perso rilevanza processuale.
       Ai fini della presente pronuncia, infatti, pur considerando, in ipotesi, come inammissibile il ricorso nr. 3049/05, sopravviverebbe la medesima censura sostanziale contenuta nel ricorso “gemello” nr. 103/06; pertanto quest’ultimo di fatto “assorbe” le censure contenute nel primo, essendo avvinti entrambi dal medesimo interesse sostanziale e processuale fatto valere.
       Pertanto, il ricorso nr. 3049/05, in astratto ed in ipotesi inammissibile secondo la tesi dell’Adunanza Plenaria, è diventato successivamente procedibile in quanto è stato proposto l’autonomo ricorso, da parte del medesimo ricorrente, contro la proclamazione degli eletti, affidato alle identiche censure sollevate nel primo.
       Per la esistenza di una immedesimazione sostanziale tra le azioni proposte, dunque, può essere considerata unitariamente la domanda proposta sia nel ricorso nr. 3049/05 che nel 103/06, con conseguente pronuncia di accoglimento per entrambi.
       In secondo luogo, anche a prescindere da tale rapporto processuale tra i due ricorsi, deve rilevare il Collegio che la censura di inammissibilità del ricorso nr. 3049/05 non coglierebbe comunque nel segno, perché l’odierna vicenda differisce profondamente dai casi esaminati dall’Adunanza Plenaria e dalla giurisprudenza che ne ha seguito l’insegnamento.
       Come bene messo in evidenza dalle difese dei ricorrenti nei ricorsi nn. 3049/05, 103/06 e 110/06, nelle fattispecie prese in esame dalla pronuncia della Plenaria e dalla giurisprudenza che ne ha seguito l’insegnamento si pone pur sempre un problema di ammissibilità di ricorsi che sono proposti, contro l’esclusione o l’ammissione delle liste, da parte di soggetti partecipanti al procedimento elettorale e quindi variamente interessati ad un determinato risultato di esso.
       Invece, come già esposto prima, l’interesse sostanziale del ricorrente nel giudizio iscritto al nr. 3049/05 prescinde completamente dal risultato elettorale, qualsiasi possa essere, in quanto si lamenta un danno derivante dall’ammissione della lista presentata da chi è privo di rappresentanza del Partito il cui simbolo è utilizzato per la presentazione medesima. Questo evento lesivo è immediatamente ed irreversibilmente consumato dal fatto dell’ammissione, per le ragioni su esposte. 
       Più approfonditamente, si consideri come, secondo l’A.P., “il procedimento elettorale di cui si tratta, caratterizzato dalla celerità dei relativi adempimenti – pur se strutturato in una serie di sub procedimenti, nei quali sono chiamati a pronunciarsi vari organi e adottate diverse deliberazioni –  è stato considerato dal legislatore in una prospettiva unitaria, in vista dell’esigenza primaria di consentire lo svolgimento della consultazione della data stabilita. Tale volontà legislativa, chiaramente espressa dalla norma, appare adeguatamente giustificata pure tenendo conto della eventuale lesività di atti intermedi del procedimento, risultando comunque pienamente tutelata, mediante l’impugnazione dell’atto finale del procedimento, la posizione dei soggetti che da tali atti intermedi si ritengano lesi.
       Ora, ad avviso del Collegio, in relazione alla vicenda odierna, è proprio questa ultima affermazione a rivelarsi insufficiente: essa infatti trascura del tutto l’ipotesi in cui a lamentare l’illegittima ammissione di una lista alla competizione elettorale sia un soggetto, il cui nome si assume speso senza titolo, il quale non vuole che la lista “illegittimamente” ammessa, ossia una lista che usi il nome ed il simbolo del proprio partito, partecipi a quella determinata competizione elettorale e in quella sede spenda il nome del partito, a prescindere da qualunque esito finale delle competizioni elettorali, dunque anche nel caso in cui la lista vinca le elezioni.
       In questo caso, una eventuale tutela successiva alla proclamazione degli eletti sarebbe non satisfattiva, perché l’eventuale ripetizione del procedimento elettorale conseguente all’annullamento delle relative operazioni di ammissione, non eliminerebbe il risultato che comunque il candidato (o la lista di candidati) illegittimamente ammesso/i avrebbe conseguito.
       La ripetizione delle elezioni, infatti, non potrebbe mai fare salvo l’interesse del ricorrente a non vedere associato il proprio nome e/o quello del partito e del simbolo di quest’ultimo a determinate posizioni politiche “consacrate” da una decisione di un organo amministrativo (ossia la C.E.C.) e dalla competizione elettorale medesima di fronte all’opinione pubblica ed all’elettorato, e di segno contrario a quelle per la cui affermazione egli ha ottenuto la massima carica del partito.
       L’esperienza comune, d’altronde, insegna che, nel divenire politico degli schieramenti e delle alleanze, il trascorrere anche di un breve lasso di tempo tra una elezione e la sua ripetizione a seguito dell’annullamento non comporta mai la “semplice” ripetizione delle prime operazioni, una volta annullate queste ultime, perché il contesto generale e particolare è ordinariamente soggetto ad un rapido mutare degli eventi, con una capacità di “cristallizzazione” dei risultati precedenti e degli effetti dei diversi schieramenti, potenzialmente irreversibile.
       Nascono dunque, dalle elezioni così come celebratesi in un determinato contesto storico e locale, conseguenze anche rilevanti sulle identità degli aggregati politici (partiti ed alleanze), quale che sia, poi, la sorte di esse in sede giudiziale, con ciò dimostrandosi che il caso odierno appartiene ad un novero di fattispecie per le quali o la tutela è immediata, oppure è (praticamente e potenzialmente) inutile.
       Sotto altro profilo, si consideri che la vicenda odierna dimostra come sia necessario poter approntare una tutela cautelare immediata ante proclamazione degli eletti, ai fini del buon andamento delle stesse competizioni elettorali. Senza la misura cautelare, l’accoglimento del ricorso avverso l’ammissione della lista del sig. *******, che nel frattempo avrebbe partecipato alle elezioni, avrebbe comunque comportato l’annullamento di queste ultime anche se la suddetta lista non avesse raggiunto alcun risultato utile, atteso il concreto interesse alla sua esclusione che, come si è visto prima, è stato fatto valere in giudizio.
       In questo senso, attesa la mancanza di vincolatività delle decisioni dell’Adunanza Plenaria in ordine all’orientamento successivo dei giudici amministrativi di primo e secondo grado, è opinione del Collegio che la questione che con detta pronuncia si voleva risolvere è ben lungi dall’essere chiarita e dovrà essere sicuramente riesaminata, poiché lascia aperte più problematiche di quelle che avrebbe voluto superare (tant’è vero che detto orientamento è già stato disatteso dalla V^ sezione del Consiglio di Stato che, pochi mesi dopo la decisione dell’Adunanza Plenaria, ha espresso un convincimento del tutto differente, ammettendo l’impugnazione degli atti lesivi endoprocedimentali elettorali prima della proclamazione degli eletti – cfr. Consiglio di Stato, V, 16 maggio 2006, n. 2368).
       Il problema di fondo è che la decisione dell’A.P. in commento non riesce a superare il dubbio, che resta, circa la ritenuta “univocità” del testo normativo. Quest’ultimo, infatti, lungi dal prevedere una ipotesi tassativa di disciplina dei termini sia iniziale che finale per la proposizione del ricorso, letteralmente risulta disciplinare solo quest’ultimo.
       E d’altronde, ciò è coerente con la regola processuale generale secondo cui i termini sono sempre termini “finali”, in quanto la decorrenza di essi ha inizio, e dunque sorge, con l’interesse all’azione, ossia con la produzione dell’evento lesivo.
       Inoltre, tale considerazione è confermata dal fatto che una norma di diverso contenuto e di evidente chiarezza era ben presente nell’Ordinamento regionale ed è stata dichiarata costituzionalmente illegittima (Corte Cost. 8 maggio 1995, nr. 154): si tratta dell’art.22 della legge della Regione siciliana 5 aprile 1952, n. 11 (Composizione ed elezione degli organi delle Amministrazioni comunali della Regione siciliana), nella parte riprodotta dall’art. 18, ultimo comma, del decreto del Presidente della Regione siciliana 20 agosto 1960, n. 3, modificato con decreto del Presidente della Regione siciliana 15 aprile 1970, n. 1 (Approvazione del testo unico delle leggi per l’elezione dei consigli comunali nella Regione), a norma della quale “contro le decisioni della commissione” era ammesso il ricorso, anche di merito, al Consiglio di giustizia amministrativa “dopo la proclamazione degli eletti, ma non oltre un mese dalla stessa”.
       Vero è che la pronuncia di incostituzionalità è stata motivata dalla Corte con riferimento al fatto che la norma aveva carattere processuale e come tale era esclusa dalla potestà legislativa regionale; ma nella ordinanza di rimessione della questione di legittimità costituzionale (TAR Sicilia, Palermo, ordinanze nn. 766, 767, 768, 769, 770, 771 dell’11 ottobre 1994, pubbl. su G.U., I°s.s. nr. 3 del 18.01.1995) era espressamente contemplata (a sostegno di quella censura che poi ha trovato ingresso nella pronuncia di accoglimento della questione), la difformità tra la norma regionale e la corrispondente norma nazionale, quest’ultima pacificamente interpretata, in quel periodo, come suscettibile di consentire l’immediata impugnazione degli atti lesivi, anche prima della proclamazione degli eletti.
       Quindi, se la norma regionale siciliana fosse stata esattamente riproduttiva di quella nazionale, come tale avente mero valore ricognitivo di richiamo di quest’ultima e di agevolazione per l’interprete (Corte Cost. 304/1986), non si sarebbe giustificata la decisione di accoglimento della questione proposta dai giudici a quo.
       Si tenga presente, ad ogni modo, che la necessità di una chiara disposizione che fissi espressamente un decorso del termine per la proposizione del ricorso diverso da quello derivante dalla lesione, discende dal fatto che con tale previsione si deroga alla generale possibilità di agire in giudizio a difesa dei propri interessi e diritti la quale si radica, ordinariamente, per effetto dell’atto lesivo. Al contrario, interpretando la norma come recante un precetto relativo solamente al termine “finale” della proposizione del ricorso, si ottiene la conclusione del tutto razionale e nient’affatto illogica di permettere la proposizione suddetta a far data dall’evento lesivo e fino a trenta giorni dopo la proclamazione degli eletti.
      
       Ed, in ogni caso, ove, peraltro, il testo letterale della norma di cui all’art. 83/11 cit. giustificasse l’adesione alla interpretazione della fattispecie normativa che l’A.P. ha reso nella sua formulazione attuale (così come, peraltro, ha ritenuto la Sezione con la sentenza nr. 1357/06, delle cui conclusioni, adesive all’A.P., nei termini suddetti si dubita, pur dandosi atto della plausibilità di esse), allora detta norma non sfuggirebbe ad una chiara censura di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 24, 97 e 113  (che, tuttavia, in questa sede non può ovviamente essere sollevata per mancanza del requisito della rilevanza ai fini della decisione)a causa dell’evidente limitazione dei diritti di difesa (soprattutto cautelare, ma anche sostanziale) che ne deriverebbe.
       Tutte queste considerazioni, quindi, portano a ritenere che, il ricorso nr. 3049/05 è ammissibile e che, essendo anche fondato, deve essere accolto unitamente al ricorso nr. 103/06.
       IV) Sul rapporto tra il decreto monocratico e la decisione cautelare collegiale.
       Il punto deve essere approfondito, a miglior chiarimento di quanto già espresso e ritenuto nelle suddette ordinanze, ma anche per meglio esaminare la questione relativa alla richiesta di decisione della domanda cautelare che è stata proposta il 12 ottobre 2006 dalla difesa del sig. ************** (1966), già respinta con le ordinanze nr. 1606/06 e 400/06 il cui contenuto è stato riportato in parte narrativa, e che è stata poi riproposta con la memoria depositata il 30 ottobre 2006.
       Si consideri, a tale proposito, il chiaro disposto di cui all’art. 21 comma 9 della l. 1034/71 che, per comodità si riporta:
       “Prima della trattazione della domanda cautelare, in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio, il ricorrente può ….. chiedere al Presidente del Tribunale amministrativo regionale…di disporre misure cautelari provvisorie. Il Presidente provvede con decreto motivato, anche in assenza di contraddittorio. Il decreto è efficace sino alla pronuncia del Collegio, cui l’istanza cautelare è sottoposta alla prima camera di consiglio utile.
       Come si vede, la norma contempla due elementi strutturali che qualificano in un senso ben preciso l’istituto ed il rapporto tra il decreto monocratico e la decisione collegiale.
       Il primo di essi è la predeterminazione legale dell’efficacia del decreto monocratico. Quest’ultimo produce i suoi effetti fino alla “pronuncia” del Collegio sulla domanda cautelare, quindi NON fino alla data (e non oltre) della camera di consiglio fissata dal decreto presidenziale ai fini della trattazione collegiale, ed a prescindere dall’evenienza che, in tale udienza camerale, la fase cautelare del processo amministrativo possa definitivamente concludersi con una pronuncia decisoria o che, al contrario (come spesso risulta necessario per imprescindibili esigenze processuali), non sia assolutamente possibile definire la lite cautelare, occorrendo previamente disporre l’integrazione del contraddittorio e/o l’assunzione di mezzi istruttori e rinviando così la decisione sulla domanda cautelare ad una camera di consiglio successiva all’effettivo e completo espletamento dei cennati incombenti istruttori (cfr. per un accenno in tal senso, TAR Catania, II, ord. nr. 1079/2004).
       In altre parole, il decreto ha efficacia ex lege fino alla pronuncia con cui si accoglie o si respinge la domanda cautelare.
       Il secondo elemento, preordinato ad assicurare che il giudizio cautelare si radichi di fronte al Collegio senza dilazione, è che la domanda cautelare è portata al Collegio alla prima camera di consiglio “utile”.
       Come anche precisato nelle ordinanze il cui testo è stato riportato in parte narrativa per esteso, la prima camera di consiglio “utile” è quella ove la decisione sulla domanda cautelare può essere emanata dal Collegio (sull’effettivo significato di “prima camera di consiglio utile” ci si soffermerà con maggiore precisione più avanti).
       Dall’esame di questi due elementi normativi che, come detto, qualificano l’istituto, emerge con assoluta evidenza che le misure cautelari derivanti dal decreto presidenziale monocratico assicurano la tutela cautelare fino a quando il Collegio non è in grado di provvedere sulla domanda e quindi fino all’adozione di una cautela “definitiva”.
       Inoltre, la pronuncia cautelare del Collegio ha ad oggetto la “domanda” cautelare e non il decreto, come invece avviene nel procedimento cautelare civile di cui agli artt. 669 e ss. c.p.c. Pertanto, la misura cautelare, che può essere disposta in accoglimento della domanda, prescinde da quanto già disposto dal Presidente del Tribunale, non essendo chiamato il Collegio ad esprimere una valutazione del provvedimento di quest’ultimo (come se si trattasse di una sorta di doppio grado cautelare, secondo il meccanismo tipico della cautela civile). Naturalmente, una volta emanato il Decreto Presidenziale, il Collegio ne valuterà anche gli effetti medio tempore prodottisi (confermandoli, modificandoli o revocandoli), in uno all’esame della domanda cautelare. Questi ultimi, infatti, integrano la concreta fattispecie cautelare, così come “portata” alla decisione del Collegio, divenendo parte del “fatto” che viene dedotto nel processo per giustificare la perdurante necessità della domanda cautelare (i cui presupposti di periculum in mora devono sussistere dal momento della domanda e sino alla pronuncia).
       Ben può accadere, infatti, che per le misure cautelari monocratiche si sia “consolidata” una situazione che non richiede più, al momento della pronuncia del Collegio, alcuna misura interinale. Ciò avviene quando detti effetti, medio tempore prodottisi, sono (non ancora giuridicamente, ma “fattualmente”) stabili ed immodificabili in quanto la misura cautelare monocratica ha esaurito l’ambito della tutela (cfr. ord. nr. 1405 depositata il 29 settembre 2005, resa nel giudizio nr. 2086/05 proposto dalla ******à Navigazione “Euroline s.r.l.” contro il Comune di Lipari).
       Chiarito che i due provvedimenti giudiziali, quello monocratico e quello collegiale, sono tra loro in un rapporto di equiordinazione e di separazione solo temporale, resta da verificare, con maggiore precisione, cosa si intende per camera di consiglio “utile”.
       Da quanto esposto, per “prima camera di consiglio utile” si intende, quindi, non già la prima camera di consiglio immediatamente successiva, sotto il profilo temporale, all’emanazione del decreto cautelare presidenziale, ma la prima camera di consiglio ove la domanda cautelare sia suscettibile di essere decisa, il che comporta la previa realizzazione di tutti i presupposti processuali per poterla esaminare, fino al cui avveramento l’effetto cautelare è assicurato dal decreto presidenziale.
       Quest’ultimo, come accennato prima, non è un “minus quam” dell’ordinanza, ma un provvedimento giudiziale tipico, con pari dignità e valenza della misura cautelare “definitiva” approntata dal Collegio.
       Tra i presupposti processuali per la definizione della domanda cautelare (e che quindi condizionano la “utilità” della camera di consiglio), assume particolare evidenza l’integrità del contraddittorio, il cui difetto è sicura causa di invalidità processuale della eventuale decisione (condizione che non ricorre, invece, per il decreto monocratico presidenziale che la legge prevede possa essere emanato anche inaudita altera parte avendo evidenti finalità di assoluta improcrastinabilità). Anche le necessità istruttorie (ad esempio esigenze di produzione documentale o verificazioni) possono rendere ancora non matura la lite cautelare per la decisione ed anche in questo caso, affinchè il collegio possa statuire in ordine all’erogazione di tutela cautelare, si deve attendere il risultato di tali adempimenti, con la conseguenza che la prima camera di consiglio “utile” sarà quella in cui tali adempimenti saranno stati effettuati.
       In ultima analisi, dunque, come già affermato da questa Sezione con l’ordinanza n. 638/2006 (sopra testualmente riportata nell’esposizione del “fatto”), il termine della prima camera di consiglio “utile” in quanto ontologicamente mobile e non fisso, non ha e non può avere natura perentoria, ma soltanto ordinatoria, anche perché non espressamente qualificato come tale dalla legge, alla stregua della prescrizione generale in tal senso dell’art. 152, II comma c.p.c. (cfr. ancora, sul punto, la citata ordinanza della II sez. di questo Tribunale nr. 1079/2004).
       Ne deriva, pertanto, che, nella specie, si deve confermare che il decreto cautelare ha prodotto regolarmente i suoi effetti fino a quando la domanda cautelare non è divenuta suscettibile di essere decisa, ossia fino a quando non si è pervenuti alla camera di consiglio “utile” (quella odierna del 9.11.2006), che è coincisa con la fase di trattazione nel merito del ricorso. A questo punto, la statuizione nel merito, definitiva, ha reso inutile provvedere in sede cautelare alla tutela interinale richiesta, perché è venuto meno lo scopo principale dell’istituto, ossia conservare la res adhuc integra. Pertanto, la richiesta di trattazione separata della domanda cautelare si rivela essere stata del tutto inconferente.
***********
       V) La particolare vicenda processuale, che ha conosciuto numerosi rinvii, prima di poter essere decisa, tutti causati dalla impossibilità di notificare gli atti del contraddittorio al domicilio delle parti controinteressate nei ricorsi meglio indicati in parte narrativa, obbliga il Collegio a trasmettere gli atti dei fascicoli e copia della presente sentenza alle competenti Procure della Repubblica di Messina, Napoli e Caserta, affinché accertino se sussistono estremi di reato.
       Ciò dovrà essere verificato in particolare con riferimento alle vicende relative alle dichiarazioni con le quali gli interessati hanno attestato al momento della propria candidatura la residenza che poi è risultata inesatta o, addirittura, sconosciuta (e rispetto alle quali si riscontra, addirittura, l’affermazione di uno dei destinatari delle notifiche del ricorso nr. 3049/05, il sig. **************, il quale ha dichiarato all’Ufficiale ***********: “di non essere lui il destinatario e di non aver mai fatto parte della politica e di non conoscere in alcun modo i contenuti di questo ricorso” – cfr. relata di notifica in calce al ricorso nr. 3049/05 copia depositata il 19 aprile 2006).
       Inoltre, il Collegio osserva che il comportamento dell’ Avv. ******************** è stato processualmente poco corretto e sicuramente non consono alle più elementari regole di lealtà e probità processuale prescritte dall’art. 88 c.p.c. e dall’art. 38, I comma, dell’ordinamento della professione di avvocato (R.D.L. 27.11.1933, nr. 1578, conv. in l. 22.01.1934 n. 36), specificatamente tenendo presente la sua insistenza nel voler rendere dichiarazioni a verbale nella udienza del 12 ottobre 2006 dopo la avvenuta lettura del dispositivo e chiusura della udienza stessa. A verbale è stato in quel contesto precisato che il Presidente non autorizzava le dichiarazioni (così come tassativamente previsto dall’art. 84 comma III c.p.c. e cfr. anche l’art. 58 comma II del R.D. 642/1907); queste ultime sono state in ogni caso annotate, per documentare l’accaduto (a norma dell’art. 126, I comma, c.p.c.). A tale palesemente inammissibile determinazione, ha fatto seguito anche la riproposizione, con memoria depositata il 30 ottobre 2006, di una richiesta (quella di separazione della decisione cautelare nel ricorso nr. 3049/05 rispetto alla decisione nel merito del medesimo ricorso e degli altri riuniti) che, non solo era stata già respinta dal Collegio con le summenzionate ordinanze, ma che, rispetto alla concentrazione delle decisioni di merito e cautelare alla udienza del 9 novembre 2006, si rivelava e si rivela del tutto improduttiva per le ragioni stesse della difesa del cliente dell’Avv. ******* (dal quale, peraltro, l’avvocato ha dichiarato a verbale di “doversi tutelare”).
       Si precisa che se è vero che il Giudice ha il governo del processo, è del pari vero che tale potere egli lo esercita assieme alle parti in esso costituite (le quali sono chiamate con responsabilità a collaborare lealmente con il decidente a tali fini); le ragioni di buon andamento del processo, preordinate alla celere e compiuta definizione delle questioni in esso proposte, unite all’ ovvio e predominante interesse delle parti ad una decisione completa del petitum, nel mentre ammettono, com’è ovvio, le più disparate “strategie” processuali da parte dei difensori, sono da ritenersi invece assolutamente incompatibili con comportamenti inconferenti e pretestuosamente dilatori quando essi sono privi di risultato utile e di qualsiasi effetto pratico e si rivelano, quindi, suscettibili solo di incidere negativamente nella “completa” e “celere” decisione della lite.
       Tale è stata, nella fattispecie, la richiesta di separazione dei processi e, soprattutto, la richiesta di decisione separata della lite cautelare nel giudizio nr.3049/05.                       
       Ne consegue che il Collegio non può assolutamente esimersi – a tutela ed in nome, innanzitutto, della stessa dignità e dello stesso prestigio dell’Amministrazione della Giustizia e quindi, in ultima analisi, della credibilità e serietà delle istituzioni – dal deferire il predetto difensore di parte, come prescritto dall’art. 88, comma II, c.p.c. e dall’art. 38 dell’ordinamento della professione di avvocato (R.D.L. 27.11.1933 nr. 1578 conv.in l. 22.1.1934, n. 36) ai competenti Consigli dell’Ordine degli Avvocati, perché siano valutate ed adottate tutte le necessarie ed appropriate misure sanzionatorie disciplinari che sono previste dalla legge professionale per violazione del codice deontologico della categoria forense.
       Appare opportuno precisare, in proposito, che il I° comma del predetto art. 38 prevede che siano “sottoposti a procedimento disciplinare” gli avvocati “che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità ed al decoro professionale”; mentre il II° comma prevede che “la competenza a procedere disciplinarmente appartiene tanto al Consiglio dell’Ordine che ha la custodia dell’Albo in cui il professionista è iscritto, quanto al Consiglio nella giurisdizione del quale è avvenuto il fatto per cui si procede”.
       VI) Da tutto quanto sopra deriva dunque che gli impugnati provvedimenti di ammissione della lista in esame alle competizioni elettorali per il rinnovo delle cariche elettive del Municipio della Città di Messina sono illegittimi e come tale vanno annullati.
Ne consegue che:
– i ricorsi nr. 3049/2005 con i relativi motivi aggiunti, 103/06 e 110/06 sono fondati e come tali vanno accolti, annullando i provvedimenti impugnati;
– i ricorsi nr. 100/06 e 124/06 sono infondati e come tale da respingersi;
– non sussiste interesse alla decisione dei ricorsi incidentali proposti nei giudizi nr. 100/06 e 124/06 per l’infondatezza del ricorso principale.
       Le spese seguono, come di regola, la soccombenza e si liquidano come segue.
       Nel giudizio nr. 3049/05 e nel giudizio nr. 103/06: le spese si liquidano in euro 8.000,00 per il primo e 4.000 per il secondo, forfetariamente e complessivamente, e sono poste a carico dell’Amministrazione resistente, delle parti controinteressate costituite e degli intervenienti ad opponendum, in solido tra loro. Tali spese saranno corrisposte in favore della parte ricorrente nella misura di tre quarti ed a favore degli intervenienti ad adiuvandum, cumulativamente tra loro, per la parte rimanente. Essendo inammissibile l’intervento ad adiuvandum proposto dal sig. Rodì ********, per quest’ultimo non vi è luogo a provvedere sulle spese.
       Nel giudizio nr. 110/06: le spese si liquidano in euro 3.000, forfetariamente e complessivamente, e sono poste a carico dell’Amministrazione resistente, che dovrà corrisponderle in favore dei ricorrenti, in solido.
       Nei giudizi nn. 100/06 e 124/06 le spese seguono la soccombenza e si liquidano, forfetariamente e complessivamente, per ciascuno dei due giudizi, in euro 8.000, al cui pagamento i ricorrenti sono tenuti in solido tra loro. Le spese, così quantificate, saranno corrisposte a favore dei controinteressati costituiti, ed in solido tra loro.
P.Q.M.
Il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia –Sezione staccata di Catania (Sez.1°):
DICHIARA INAMMISSIBILE l’atto di costituzione di terzo e di intervento “ad adiuvandum” del sig. Rodi Giuseppe nel giudizio nr. 3049/05;
ACCOGLIE il ricorso nr. 3049/2005, con i relativi motivi aggiunti, il ricorso nr. 103/06 ed il ricorso n. 110/06, e, per l’effetto ANNULLA gli atti impugnati meglio indicati in epigrafe e nella parte pure ivi indicata;
RIGETTA il ricorso nr. 100/06 e il ricorso nr. 124/06;
DICHIARA IMPROCEDIBILI per carenza di interesse, i ricorsi incidentali proposti nei ricorsi nr. 100/06 e 124/06.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come segue:
       Nel giudizio nr. 3049/05 e nel giudizio nr. 103/06: le spese sono liquidate in euro 8.000,00 per il primo e 4.000 per il secondo, forfetariamente e complessivamente, e saranno corrisposte in favore della parte ricorrente nella misura di tre quarti ed a favore degli intervenienti ad adiuvandum, cumulativamente tra loro, per la parte rimanente.
       Non vi è luogo a provvedere sulle spese quanto all’intervento ad adiuvandum proposto dal sig. Rodì ********.
       Nel giudizio nr. 110/06: le spese si liquidano in euro 3.000, forfetariamente e complessivamente, e sono poste a carico dell’Amministrazione resistente, che dovrà corrisponderle in favore dei ricorrenti, in solido.
       Nei giudizi nn. 100/06 e 124/06 le spese seguono la soccombenza e si liquidano, forfetariamente e complessivamente, per ciascuno dei due giudizi, in euro 8.000, che i ricorrenti saranno tenuti a corrispondere in solido tra loro a favore dei controinteressati costituiti, in solido tra questi ultimi.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Amministrazione.
Manda alla Segreteria di comunicare la presente Sentenza alle parti, al Sindaco del Comune di Messina ed al Prefetto di Messina, e di effettuare gli ulteriori adempimenti e comunicazioni di cui in parte motiva.
Così deciso in CATANIA , nella camera di consiglio del
9 novembre 2006
                   L’ESTENSORE                                     IL PRESIDENTE
        ********************************                ***********************
 
Depositata in Segreteria il 28 novembre 2006
 

sentenza

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