Superamento del tasso soglia di usura nel corso del rapporto alla luce della cassazione civile: tra abuso del diritto e limiti dell’autonomia contrattuale parte seconda

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Sommario: 11. Il Caso Fiuggi. 12. Exceptio Doli Generalis. 13. Una prima conclusione. 14. I CONFINI DELL’AUTONOMIA CONTRATTUALE: Inquadramento dogmatico. 15. Art. 2 Cost. i diritti inviolabili dell’uomo. 16. .. Segue i rapporti patrimoniali. 17. Il potere di intervento del Giudice: riduzione equitativa della clausola penale. 18. I limiti. 19. La clausola della correttezza e della buona fede  come strumento di controllo dell’autonomia privata. 20. Casi particolari. 21. La trasparenza nei rapporti negoziali.

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11. Il Caso Fiuggi

Il “Caso Fiuggi”[17], portò la Suprema Corte ad esprimersi sui limiti esterni all’autonomia contrattaule, ma vediamo il caso. Nel sesto motivo di impugnazione veniva rilevatala violazione e falsa applicazione delle norme sulla interpretazione dei contratti (artt. 1362 e segg. c.c.), sulla esecuzione di buonafede (art. 1375 c.c.) e sull’adempimento (artt. 1218 e segg c.c.), omessa e insufficiente motivazione, per avere la Corte di appello ritenuto legittimo il comportamento dell’Ente Fiuggi, benché “contrario alle pattuizioni contrattuali e comunque di malafede”, avendo bloccato, a partire dal 1983, il prezzo di vendita di fabbrica delle bottiglie, malgrado la sopravvenuta svalutazione monetaria e il correlato diritto del Comune (ribadito dal lodo Levi-Sandri del 21 giugno 1982, passato in giudicato) all’adeguamento del canone di affitto (a tale prezzo commisurato), rimasto, invece, fermo, ancorché il prezzo del prodotto fosse stato, nella fase di commercializzazione, corporosamente aumentato dalle società distributrici, appartenenti allo stesso gruppo di cui faceva parte la società affittuaria. Il motivo fu ritenuto fondato.

            Ma, ammesso che la legge pattizia attribuisse davvero l’Ente Fiuggi “piena libertà” nel determinare il prezzo in fabbrica delle bottiglie, essa non potrebbe, comunque, ritenersi svincolata dall’osservanza del dovere di correttezza (art. 1175 c.c.), che si porge nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo, quindi, alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l’ossequi alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 12 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina intergativamente il contenuto agli effetti (art. 1374 c.c.) e deve, ad un tempo, orientare l’interpretazione (art. 1366 c.c.) e l’esecuzione (art. 1375), nel rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l’interesse dell’altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio.

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12. Exceptio Doli Generalis

In conclusione, la continua ricerca dei limiti all’autonomia contrattuale ha consentito di individuare, in concreto, le ipotesi in cui  il diritto viene esercitato in modo abusivo, ovvero oltre i suoi limiti naturali, oltre le finalità per le quali tale diritto esiste e trova una sua garanzia costituzionale. Il divieto di abuso del diritto consente dunque di ricondurre l’agere entro il diritto stesso, perché solo in esso potrà produrre effetti giuridici.

La dottrina dell’abuso, basata sul principio di buona fede, che ha una portata decisamente più ampia rispetto alla dottrina dell’abuso basata sulla exceptio doli generalis del diritto comune ha spianato la strada alla giurisprudenza tedesca che ha specificato la figura in esame in diversi sottogruppi[18]:

a) esercizio di una situazione giuridica formalmente garantita ma contrastante con gli usi del traffico;

b) venire contra factum proprium: il titolare non può esercitare il diritto quando ciò risulta in contrasto con un comportamento — sia pure lecito — tenuto in precedenza;

c) Verwirkung: il titolare che non esercita il diritto o non reagisce alla sua violazione commette un abuso facendolo valere dopo avere determinato con il suo comportamento un affidamento degno di tutela nella controparte, e pertanto decade dal diritto;

d) ricorrendo determinate circostanze, è abusivo il richiamo a vizi di forma.

Nell’esperienza italiana il principio dell’abuso del diritto ha avuto trascorsi molto turbolenti a causa del fatto che e nel progetto del codice italo-francese delle obbligazioni[19], e nel progetto definitivo del codice civile del 1942[20] tale istituto era previsto, fu tuttavia eliminata la norma sull’abuso dal testo vigente del codice dimostrando, secondo alcuni, che il legislatore non volesse tale istituto vigente nel nostro ordinamento in quanto lesivo del principio della certezza del diritto[21]. In realtà la mancata enunciazione dell’abuso del diritto nell’ordinamento positivo non esclude la sua implicita presenza nel sistema giuridico[22]. Nel nostro ordinamento sono senza dubbio rinvenibili norme che limitano l’esercizio dei diritti e clausole generali riferibili ad intere categorie di diritti soggettivi, quali gli artt. 1175 e 833 c.c. la cui portata coprirebbe l’area delle situazioni giuridiche patrimoniali[23]. È innegabile che al  tradizionale rifiuto della giurisprudenza hanno fatto seguito negli anni applicazioni in diversi settori del diritto civile e del diritto commerciale, affermando la configurabilità del principio in termini generali[24]. Anche nel nostro ordinamento come nell’esperienza francese l’abuso del diritto nasce sul terreno della proprietà con la regola sugli atti emulativi (art. 833 c.c.), per cui il proprietario non può compiere atti che non abbiano altro scopo se non quello di nuocere o recare molestia ad altri.

Tale limite collima perfettamente con il precetto  costituzionale che ha stabilito il principio della funzione sociale della proprietà (art. 42, 2° co., Cost.) anche se  per la sua stessa struttura e formulazione, non è del tutto condiviso che tale norma costituzionale, ovvero i suoi principi possano essere utilmente invocati quando risultano lesi gli interessi di un singolo. Da un punto di vista etico e sociale oggi si rileva l’abuso del proprietario quando si riscontra una notevole sproporzione tra l’utilità a lui arrecata dall’atto di esercizio ed i danni provocati a terzi. Tuttavia sono risultati vani tentativi sia da parte della giurisprudenza che della dottrina di ricavare un principio generale di divieto di abuso del diritto dalla normativa sulla proprietà.  Diversa è la sorte dell’operatività del principio dell’abuso del diritto nell’ordinamento italiano derivante dalle obbligazioni attraverso i principi della correttezza e buona fede che consentano un controllo dell’esercizio abusivo del diritto di credito. La stessa esperienza si è avuto nel diritto tedesco nel quale il principio dell’abuso del diritto ha ricevuto innumerevoli applicazioni sulla base del principio di buona fede (§ 242 BGB). La giurisprudenza dell’ultimo decennio dimostra come nel nostro ordinamento è avvertita l’esigenza di avere a disposizione lo strumento dell’abuso del diritto al fine di garantire un esercizio normale del diritto soggettivo anche alla luce del fatto che in dottrina è stato osservato[25] che abuso del diritto ed exceptio doli generalis, per le radici franco-germaniche del codice civile del 1942[26] sono principi che fanno parte della nostra cultura giuridica  e del nostro diritto positivo. Dalla breve analisi storica dell’istituto dell’abuso del diritto emerge come sin dall’entrata in vigore del vigente codice civile terreno di scontro tra giuristi dividendo chi lo ritiene  un mero concetto di natura etica, con la conseguenza  che  colui che abusa di un diritto non può essere colpito da una sanzione giuridica, da chi rinviene tale istituto nell’art. 833 c.c.. Tale ultimo orientamento individua nell’art. 833 c.c. l’espressione di un principio generale che vieta, al titolare di un diritto, di abusarne. Tale conclusione, tuttavia se da un lato consente di ricondurre l’istituto ad una norma di diritto positivo, dall’altro ha dato sostegno  a coloro che vedono nell’istituto una minaccia al principio della certezza del diritto secondo i quali lo stesso art. 833 c.c. esprimerebbe la volontà del legislatore del 1942 di non introdurre una siffatta clausola generale. Tra questi orientamenti se ne è, tuttavia, affermato uno ulteriore che qualifica il divieto di abuso del diritto, quale corollario dell’obbligo generale di comportarsi secondo buona fede, ovvero, con lealtà e correttezza, principi espressi negli artt.  1175, 1337, 1358, 1366, 1375 c.c.. obbligo di comportarsi secondo  buona fede trova inoltre una copertura più generale, di rango costituzionale,  ovvero nel dovere inderogabile di solidarietà sociale sancito dall’ art. 2 Cost. [27]. E’, inoltre ravvisabile una ulteriore espressione nell’art. 2058, secondo comma, a norma del quale il risarcimento in forma specifica, ancorché richiesto dal creditore e materialmente possibile, può essere escluso dal giudice qualora risulti eccessivamente oneroso per il debitore. Il divieto di abuso del diritto è divenuto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione,  valore di norma di principio applicabile non solo  nei rapporti di natura contrattuale. In effetti,  la Cassazione Civile  Sez. I   16/10/2003  n°15482 ( che si esprime in tema di recesso, in particolare, con riferimento alla c.d. interruzione brutale del credito) nel censurare la corte di merito, che implicitamente esclude l’ammissibilità della figura dell’abuso del diritto, ritenendo il recesso legittimo poiché contrattualmente previsto e correttamente esercitato (sula piano della forma) riconosce nel nostro sistema legislativo una norma implicita che reprime ogni forza di abuso del diritto, sia questo il diritto di proprietà o altro diritto soggettivo, reale o di credito. [28] Prima di arrivare all’attuale inquadramento dell’istituto appare utile ricordare come negli anni sessanta la S.C rilevava che: in singoli casi ed in riferimento ai fondamentali precetti della buona fede (come regola di condotta) e della rispondenza dell’esercizio del diritto agli scopi etici e sociali per cui il diritto stesso viene riconosciuto e concesso dall’ordinamento giuridico positivo, l’uso anormale del diritto possa condurre il comportamento del singolo (nel caso concreto) fuori della sfera del diritto soggettivo medesimo e che quindi tale comportamento possa costituire un illecito, secondo le norme generali di diritto in materia[29] 

L’abuso del diritto consiste,  oggi (Cassazione Civile  Sez. I   16/10/2003  n°15482; ex multis: Cons. Stato, sez. III, 17 maggio 2012, n. 2857), nell’esercitare il diritto per realizzare interessi diversi da quelli per i quali esso è riconosciuto dall’ordinamento giuridico,  rappresenta quindi,  una specifica ipotesi di violazione dell’obbligo della buona fede esecutiva (art. 1375 c.c.) e come tale costituisce inadempimento contrattuale. Ecco dunque che l’abuso del diritto viene individuato nel comportamento del contraente che esercita verso l’altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati.  In tema di c.d. interruzione brutale del credito, la S.C. ha precisato che il Giudice, deve verificare la rispondenza tra il diritto di recedere da un contratto  di apertura di credito per un tempo determinato, ed il principio della buona fede esecutiva, e dunque che tale esercizio  non sia imprevisto ed arbitrario, tale da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto e che non può pretendersi essere pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate[30].

La S.C. va oltre  chiarendo che  la clausola generale di buona fede e correttezza opera sia sul piano comportamentale del debitore e del creditore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), sia sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione di un contratto (art. 1375 cod. civ.), che si estrinseca nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte e ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto[31].

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza 15 novembre 2007, n. 23726) e l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (decisione 23 marzo 2011, n. 3) hanno, ormai, riconosciuto la vigenza, del divieto di abuso del diritto, ovvero di ogni posizione soggettiva, divieto che, ai sensi dell’art. 2 Cost. e dell’art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali e processuali.

Gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto ravvisati dalla S.C.[32], sono i seguenti:

1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto;

2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate;

3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico;

4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.

La Cass., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, precisa che:  l’abuso del diritto, lungi dall’integrare una violazione in senso formale, delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E’ ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenza di tale, eventuale abuso, l’ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti – ed i diritti connessi – attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l’ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.

L’attuale indirizzo interpretativo, inquadra il divieto di abuso del diritto, in un principio generale direttamente connesso al canone costituzionale di solidarietà, principio che si applica anche in ambito processuale. Viene dunque elaborata la figura dell’abuso del processo in correlazione agli artt. 24, 111 e 113 Cost. nonché ai principi del diritto europeo[33] quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa[34]

Sul punto appare decisiva la decisione n. 3/2011 dell’Adunanza Plenaria, che sulla base del disposto del comma 3 dell’art. 34 del codice del processo amministrativo,  ha considerato sindacabile, ai fini dell’ esclusione o della riduzione dal danno ex art. 1227, comma 2 c.c., le condotte processuali opportunistiche che, in violazione del duty to mitigate che grava sul creditore, abbiano prodotto o dilatato un danno che, more probably that not, sarebbe stato evitato in caso di tempestiva impugnazione del provvedimento dannoso o di esperimento degli altri strumenti di tutela previsti.

Così pure le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 23726/2007, hanno affermato il principio secondo cui  il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario integra condotta contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui allart. 2 della Costituzione, e si risolve in abuso del processo ostativo all’esame della domanda.

Le Sezioni Unite, hanno poi prestato attenzione alla ipotesi della  disarticolazione, da parte del creditore, dell’unità sostanziale del rapporto,  ritenendo che tale condotta  oltre a violare il generale dovere di correttezza e buona fede, in quanto attuata nel processo e tramite il processo, si risolve anche in abuso dello stesso ed in una violazione del canone del giusto processo.   Le SS.UU. rilevano come una tale condotta, pur formalmente conforme al dettato normativo,  disattende il limite modale che impone al titolare di ogni situazione soggettiva di non azionarla con strumenti processuali, che infliggano all’interlocutore un sacrificio non comparativamente giustificato dal perseguimento di un lecito e ragionevole interesse. Così anche la parcellizzazione giudiziale del credito,  non è in linea con il precetto inderogabile del processo giusto cui l’interpretazione della normativa processuale deve viceversa uniformarsi e rischia di sortire la formazione di giudicati praticamente contraddittori cui potrebbe dar luogo la pluralità di iniziative giudiziarie collegate allo stesso rapporto. L’effetto inflattivo riconducibile ad una siffatta moltiplicazione di giudizi delinea altresì la frustrazione dell’obiettivo, fissato nell’art. 111 Cost., della ragionevole durata del processo, per l’evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata del giudizio.

Lo stesso dicasi nell’ipotesi di contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che ha optato per tale scelta e che, soccombente nel merito, abbia proposto appello sollevando autoeccezione al fine di ottenere l’annullamento della sentenza. Una tale condotta è infatti una violazione  del divieto di venire contra factum proprium, oltre ad essere in contrasto con il canone costituzionale della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost,  condotta paralizzabile con l’exceptio doli generalis seu presentis.

Il divieto di abuso del diritto ha interessato anche altre materie. Così, ad esempio, le S.U.[35] hanno sancito il divieto di elusione dei tributi affermando che non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale

Anche in materia di  intermediazione finanziaria l’istituto si adatta efficacemente. Appare degna di nota la sentenza del Trib. Torino, 7 marzo 2011 che ha respinto la domanda proposta dall’investitore tendente ad ottenere la ripetizione degli investimenti svantaggiosi stante la nullità del contratto quadro, senza richiedere invece anche la ripetizione degli investimenti risultati forieri di guadagni,  proprio in applicazione del generale canone che vieta di abusare del diritto alla domanda.

Gli interventi più frequenti da parte della giurisprudenza sono invero riscontrabili nella materia commerciale, ed in particolar modo in relazione alle procedure concorsuali. Non vi sono dubbi che la crisi economica abbia generato il default di molte aziende incapaci di sostenere l’indebitamento a fronte della forte riduzione dei volumi d’affari. Tale scompenso non sempre riconducibile alla mala gestio a spinto il legislatore ad intervenire in più riprese a riformare l’istituto delle procedure concorsuali, in particolar modo del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione del debito al fine di consentire un ridimensionamento delle aziende in crisi e facilitare la sopravvivenza di almeno parte di esse. Non sono tuttavia mancati usi improprio delle procedure finalizzate a rimandare l’esito infausto ed è proprio su tali condotte che il giudice è dovuto intervenire per  riportare l’uso di tali istituti nei termini dei principi ispiratori., Il d.lg. 12 settembre 2007 n. 169, ha precluso al giudice, in ambito di omologazione del concordato preventivo il giudizio sulla convenienza economica della proposta. Tale riforma sembrava aver ridotto il compito del giudice ad una nera finalità i controllo formale salvo il potere di intervenire d’ufficio ed in difetto di opposizione ex art. 180 l. fall., per sollevare eccezioni di merito, quale quella di nullità, ex art. 1421 c.c.. tuttavia se il giudizio prognostico sul piano è rimasta prerogativa dei creditori, resta invece in capo ai tribunali il compito di verificare  se sussiste  un vizio genetico della causa, poichè trattasi  di vizio non sanabile dal consenso dei creditori. Tale controllo da parte del tribunale gli deriva dalla  funzione di tutela dell’interesse pubblico a cui è preordinato al fine di evitare  forme di abuso del diritto nella utilizzazione impropria della procedura. in tal senso si richiama la Cass., sez. 1^, 23 Giugno 2011, n. 13817 Entro i confini fin qui tracciati, non v’è ragione, in ultima analisi, di ridurre la cognizione della proposta e del piano concordatari ad una mera funzione notarile di regolarità formale, svolta da un giudice costretto nel ruolo ancillare di convitato di pietra: in tal modo, inibendo la tutela anche dell’interesse pubblico a che il governo della crisi d’impresa – tutt’altro che privo di costi per la collettività – non sia piegato ad utilizzazioni improprie, con abuso del diritto

Così anche,     E’ stato d’altronde chiarito che l’utilizzazione del concordato non è sottratta al divieto di abuso del diritto, la cui applicazione, ormai ampiamente diffusa in riferimento sia agl’istituti di diritto sostanziale che a quelli di diritto processuale, trova fondamento nel principio generale secondo cui l’ordinamento tutela il ricorso agli strumenti che esso stesso predispone nei limiti in cui essi vengano impiegati per il fine per cui sono stati istituiti, senza procurare a chi li utilizza un vantaggio ulteriore rispetto alla tutela del diritto presidiato dallo strumento e a chi li subisce un danno maggiore rispetto a quello strettamente necessario per la realizzazione del diritto dell’agente. (Cassazione civile, sez. I 29/07/2011 n. 16738).

13. Una prima conclusione

Ogni ordinamento giuridico deve fare i conti con la necessità, tempo per tempo, di contemperare le interferenze, coesistenze e conflitti tra diritti interpretando quella che è anche la funzione sociale dei diritti soggettivi. È innegabile che oggi si faccia un maggior uso dello strumento dell’abuso del diritto, e non è un caso. La crescente asimmetria dei protagonisti del mercato globale che vede da un lato poteri economici e dall’altro una utenza incapace di fronteggiare le imposizioni del mercato, la scomparsa (nella sostanza ma non nella forma) della trattativa nelle transazioni commerciali, hanno reso necessario lo sviluppo dell’istituto dell’abuso del diritto per poter ripristinare quell’equilibrio nei rapporti contrattuali e garantire la liceità della causa e dell’oggetto del contratto. A conferma dello stretto rapporto causa effetto degli interessi in gioco, o possiamo vedere come la tutela del consumatore si divenuto di interesse sempre crescente, che nel caso italiano è prima di tutto di adozione comunitaria; è evidente la necessità di porre rimedi ad un mercato oramai caratterizzato da contratti precostituiti e da condizioni imposte. Le stesse teorie della volontà e della dichiarazione necessitano una rilettura a causa della drammatica erosione della fase precontrattuale nella quale la volontà si forma prima di divenire dichiarazione. C’è infatti da chiedersi quanto la libertà, che connota la volontà, sia stata sacrificata alla speditezza delle transazioni commerciali, e se ciò non stia o non abbia già, alterato la struttura stessa del contratto, degradando la volontà in dichiarazione confondendone le rispettive dimensioni. L’auspicio è che la giurisprudenza operi in modo sempre coerente i correttivi necessari a garantire l’equilibrio tra libertà contrattuale e la funzione che il contratto ha nella società.

14. I CONFINI DELL’AUTONOMIA CONTRATTUALE: Inquadramento dogmatico

Il principio della libertà di contratto, codificato nell’art. 1322 c.c., non è specificamente garantito per se stesso dalla Costituzione italiana[36]. Infatti, se da un lato gli artt. 41 e 42 della Costituzione, garantiscono la libertà dell’iniziativa economica privata ed il libero godimento della proprietà privata, dall’altro consentono che a tali libertà siano imposti limiti, al fine di farli armonizzare con l’utilità sociale e render possibile l’adempimento di quella funzione sociale che non può dissociarsi dal godimento dei beni di produzione o, più generalmente, dall’esercizio di ogni attività produttiva. È così giustificata l’imposizione di condizioni restrittive per lo svolgimento dell’autonomia contrattuale, mediante la modifica o l’eliminazione di clausole di contratti in corso quando esse si rivelino contrastanti con l’utilità sociale.( Corte Cost., 27 febbraio 1962, n. 7).

La Corte Costituzionale ha in più occasioni affermato che il carattere particolare o limitato della categoria economica considerata dalla legge non è, in linea di principio, sufficiente ad escludere che venga perseguita una finalità sociale (cfr. sentenza n. 54 del 1962); ed ecco ancora una volta che la Corte delle leggi ribadisce il principio per cui rientra nei poteri conferiti al legislatore dall’art. 41 della Costituzione la riduzione ad equità di rapporti che appaiano sperequati a danno della parte più debole (sentenza n. 7 del 1962).(Corte Cost., 23 aprile 1965, n. 30). La Corte Costituzionale esprime un parere di non sufficienza dei  principi di correttezza e buona fede nelle trattative e nella formazione ed esecuzione del contratto (artt. 1175, 1337, 1366, 1375 cod. civ.), delle regole della correttezza professionale (art. 2598, n. 3, cod. civ.) e dei doveri correlati alla responsabilità extracontrattuale (art. 2043 cod. civ.) ad arginare la libertà di scelta del contraente nonché la determinazione del contenuto del contratto che caratterizzano l’autonomia contrattuale, e non sono perciò idonei a sopperire alterazione dell’equilibrio tra le parti che consegue all’essere una di esse in posizione di supremazia. (Corte cost., 15 maggio 1990, n. 241)

 15. Art. 2 Cost. i diritti inviolabili dell’uomo

Non sono mancati tentativi di ricondurre all’art. 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo , una garanzia implicita, tuttavia invani per ragioni storico e ideologiche.

Tuttavia non si può ignorare il principio di solidarietà espresso nell’art. 2 della Cost.. se è vero che parte in dottrina, taluni hanno rilevato che, Il principio generale del sistema è la liceità e la libertà, e non anche la doverosità e l’obbligo[37], la connotazione dell’uomo uti socius ha reso necessario l’intervento del legislatore, ma anche dell’interprete, di porre, da un lato,  limiti all’esercizio dei propri diritti al fine di costituire uno sbarramento all’individualismo esasperato[38], dall’altro dei doveri ed obblighi finalizzati alla vita e allo sviluppo della società.

            Esso è, in altre parole, la più diretta realizzazione del principio di solidarietà sociale, per il quale la persona è chiamata ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un’autorità, ma per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona stessa. Si tratta di un principio che, comportando l’originaria connotazione dell’uomo uti socius, è posto dalla Costituzione tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, dall’art. 2 della Carta costituzionale come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente. Della natura di tali diritti fondamentali il volontariato partecipa: e vi partecipa come istanza dialettica volta al superamento del limite atomistico della libertà individuale, nel senso che di tale libertà è una manifestazione che conduce il singolo sulla via della costruzione dei rapporti sociali e dei legami tra gli uomini, al di là di vincoli derivanti da doveri pubblici o da comandi dell’autorità[39].

L’art. 2 si riferisce dunque ai diritti inviolabili originari della persona umana, preesistenti all’ordinamento positivo.

A questa categoria sono riconducibili soltanto le manifestazioni concrete dell’autonomia privata che sono all’origine di alcune delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2, nelle quali si svolge la personalità dei singoli: la famiglia fondata sul matrimonio e le associazioni liberamente costituite per scopi leciti[40].

16. .. Segue i rapporti patrimoniali

Nel campo dei rapporti patrimoniali la libertà individuale di contratto fruisce soltanto di una tutela costituzionale indiretta, in quanto strumento di esercizio della libertà di iniziativa economica e del diritto di proprietà.

            Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, l’autonomia contrattuale dei singoli é tutelata a livello di Costituzione solo indirettamente, in quanto strumento di esercizio di libertà costituzionalmente garantite (Corte cost., 30 giugno 1994, n. 268).

Non vi sono dubbi che il legislatore italiano abbia affrontato l’intervento pubblico nell’economia nell’ambito delle funzioni di controllo e di regolazione del mercato[41], in modo non troppo deciso da qui la mancata costituzionalizzazione della libertà di contratto. L’orientamento ideologico  dominante nell’Assemblea costituente eletta nel 1946 non era in senso liberistico. Seppur ripudiava  l’indirizzo corporativistico e autarchico del precedente regime autoritario, i costituenti, di fatto ne hanno  mantenuto la finalità positivizzando  la funzione di programmazione economica democratica, strumentario dirigistico, funzionalizzato da organi preposti alla fissazione dei prezzi di determinati beni e servizi, inseriti  ope legis nei contratti tra privati anche in sostituzione delle clausole difformi pattuite dalle parti (artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c.). La difficoltà dei costituenti ad assumere una posizione marcata  sula rapporto tra autonomia e libertà privata e l’interesse pubblico ad una funzione sociale della condotta umana la si rileva altresì dall’inserimento nell’art. 41 cost., di un terzo comma che riserva alla legge il compito di “determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata sia indirizzata e coordinata a fini sociali”. La garanzia delle libertà economiche (artt. 41[42] e 42 cost.) e l’obbligo che ne deriva al legislatore di riconoscerle e di determinarne i limiti destinati ad armonizzarne l’esercizio con l’utilità sociale e col rispetto della sicurezza, della libertà, della dignità umana, si riflettono sull’autonomia negoziale. Fino agli anni ’80 la citata norma veniva fondava il principio dello stato interventista  ovvero  l’intervento pubblico nell’economia, sovrapposto al sistema del mercato quale modello giuridico di sviluppo deciso dalla volontà politica realizzato con imprese pubbliche sottratte alle leggi del mercato. Dalla metà degli anni ’80, dietro la spinta esercitata sull’Italia dall’Atto Unico Europeo del 1986 viene riqualificato l’intervento pubblico indirizzandolo esclusivamente  a dettare regole al mercato per garantirne correttezza ed efficienza. Il primato del mercato ha portato ad una rilettura della Costituzione spostando l’intervento pubblico, dalla funzione programmatica a quella di rimuovere gli ostacoli al funzionamento del mercato. Il nuovo fine proposto, è quindi, quello di promuovere l’utilità sociale valorizzare i diversi settori ed attitudini del mercato, produrre ricchezza e benessere, Ma non solo: lo Stato dovrà intervenire per correggere le disparità di potere contrattuale che ostano alla libertà delle scelte economiche individuali. La nuova lettura dell’art. 41 Cost. identifica dunque i fini sociali oggetto della riserva di legge prevista nel terzo comma con i limiti della libertà di iniziativa economica indicati nel comma secondo.

Necessita in questa sede ricordare come anche la rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto[43]  rappresenti uno strumento per la tutela di valori costituzionalmente rilevanti Cassazione civile   sez. un.   12 dicembre 2014   n. 26242: Si è detto “indiscutibile” lo scopo della nullità relativa volto anche alla protezione di un interesse generale tipico della società di massa, così che la legittimazione ristretta non comporterebbe alcuna riqualificazione in termini soltanto privatistici e personalistici dell’interesse (pubblicistico) tutelato dalla norma attraverso la previsione della invalidità. Il potere del giudice di rilevare la nullità, anche in tali casi, è essenziale al perseguimento di interessi che possono addirittura coincidere con valori costituzionalmente rilevanti, quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza quantomeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.: si pensi alla disciplina antitrust, alle norme sulla subfornitura che sanzionano con la nullità i contratti stipulati con abuso di dipendenza economica, alle disposizioni sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, che stabiliscono la nullità di ogni accordo sulla data del pagamento che risulti gravemente iniquo in danno del creditore, ex D.Lgs. n. 231 del 2002), poichè lo squilibrio contrattuale tra le parti altera non soltanto i presupposti dell’autonomia negoziale, ma anche le dinamiche concorrenziali tra imprese. La pretesa contraddizione fra legittimazione riservata e rilevabilità d’ufficio risulta soltanto apparente, se l’analisi resta circoscritta al profilo della rilevazione della causa di nullità.

Di norma non hanno efficacia immediata nei rapporti privati, i diritti fondamentali corrispondenti ai valori della sicurezza, della libertà, della dignità umana, diritti, che devono trovare un equilibrio con quello di iniziativa economica[44]. La Corte Costituzionale con sentenza del 9 marzo 1989 n. 103 ricorda i limiti convenzionali e legali posti dalla Costituzione,  proprio in virtù del precetto costituzionale di cui all’art. 41 della Costituzione, il potere di iniziativa dell’imprenditore non può esprimersi in termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento, e in specie non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

Conclude la sentenza che: è demandato al giudice l’accertamento e il controllo dell’inquadramento dei lavoratori nelle categorie e nei livelli retributivi in base alle mansioni effettivamente svolte, con osservanza della regolamentazione apprestata sia dalla legge, sia dalla contrattazione collettiva ed aziendale, e con il rispetto dei richiamati precetti costituzionali e dei principi posti in via generale dall’ordinamento giuridico vigente, ispirato, come si è detto, anche ai principi contenuti nelle convenzioni e negli atti internazionali regolarmente ratificati. Il giudice deve provvedere alle necessarie verifiche ed ha il potere di correggere eventuali errori, più o meno volontari, perché il lavoratore riceva l’inquadramento che gli spetta nella categoria o nel livello cui ha diritto.

È il legislatore il primo protagonista nella gestione (discrezionale) dello spazio che esiste tra autonomia privata e funzione sociale[45], gestione comunque vincolata ai valori costituzionali, quali e dal il principio di ragionevolezza, congruità e proporzione (allo scopo)[46]: così si espresse la Corte Costituzionale  il  23 aprile 1965, con la sentenza n. 30.

            Non è infatti contestabile che la garanzia posta nel primo comma di quest’articolo nell’ambito circoscritto dai successivi due capoversi riguarda non soltanto la fase iniziale di scelta dell’attività, ma anche i successivi momenti del suo svolgimento; ed è ugualmente certo che, poiché l’autonomia contrattuale in materia commerciale è strumentale rispetto all’iniziativa economica, ogni limite posto alla prima si risolve in un limite della seconda, ed è legittimo, perciò, solo se preordinato al raggiungimento degli scopi previsti o consentiti dalla Costituzione. Ciò posto, è da rilevare che l’unico quesito dedotto nell’ordinanza riguarda la sussistenza nel presente caso di quel fine di utilità sociale che, alla stregua della richiamata norma costituzionale, condiziona il potere del legislatore ordinario. Si appalesa, pertanto, superfluo indagare, a questi limitati effetti, se la legge impugnata debba inquadrarsi nella previsione del secondo o del terzo comma dell’art. 41: si tratti, infatti, di limitazioni imposte dal secondo o di indirizzo, coordinamento e controlli consentiti dal terzo, l’utilità sociale deve pur sempre presiedere alle une ed agli altri.

17. Il potere di intervento del Giudice: riduzione equitativa della clausola penale

Sono pochi i casi previsti nel codice civile in cui è rinvenibile un potere di intervento del Giudice volto a ripristinare un equilibrio equo del rapporto: art. 1384 (riduzione equitativa della clausola penale), art. 1526 (riduzione equitativa dell’indennità convenuta in favore del venditore in caso di risoluzione della vendita a rate), art. 1934 (riduzione della posta eccessiva in caso di gioco autorizzato dalla legge).

In tal senso si è espresso il Tribunale Torre Annunziata sez. II 04 settembre 2014 n. 2328 (in tal senso anche Corte Appello Napoli sez. I  29 gennaio 2014 n. 360)    in relazione al potere di riduzione ad equità, ex art. 1384 c.c.: In tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità ex art. 1384 c.c. è posto a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento e può essere esercitato d’ufficio per ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all’ipotesi in cui la riduzione avviene perché l’obbligazione principale è stata in parte eseguita, giacché in quest’ultimo caso la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell’obbligazione si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta.

La Corte Costituzionale con sentenza n. 103 del 9 marzo 1989[47], ha ritenuto di poter trarre dal principio espresso nell’art. 3 Cost. — coordinato con i principi di equa retribuzione (art. 36) e della dignità umana (art. 41, comma 2) — il potere del giudice di sindacare la razionalità delle clausole del contratto collettivo che comportano disparità di trattamento tra lavoratori adibiti a mansioni uguali o analoghe, con l’effetto, in caso di valutazione negativa, dell’annullamento dell’accordo[48]. Questa interpretazione non è stata tuttavia accolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in quanto essendo il contratto un modo di composizione di interessi in conflitto ed esplicazione dell’autonomia contrattuale, il giudice non può procedere ad un esame sulla ragionevolezza. In effetti,  il giudizio di ragionevolezza, in relazione all’autonomia contrattuale,  sul contenuto del singolo contratto è già implicito nel giudizio di meritevolezza degli interessi che quel tipo di contratto è diretto a realizzare, ovvero  l’idoneità del contratto a realizzare la funzione socialmente rilevante (causa astratta),  giudizio già precostituito dalla legge per i contratti nominati,  o formulato dal giudice negli altri casi.

18. I limiti

Lo studio sin qui sviluppato, rivela che Costituzione e l’ Autonomia Privata sono due fronti collegati solo dalla legge e dalle sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale di leggi che non rispettano i limiti costituzionali della libertà di contratto.

Diversamente non è possibile interferire  nei rapporti negoziali privati fatta eccezione, naturalmente, per l’ermeneutica che dovrà ispirarsi sempre ai principi costituzionali. Ne è un caso il diritto alla salute, garantito dall’art. 32 cost., che ha portato ad  una interpretazione estensiva l’art. 2110 c.c. (sospensione del rapporto di lavoro per malattia del lavoratore) includendo nella fattispecie legale le patologie psico-fisiche derivanti da stati di nevrosi o di stress, designate col nome di eccessiva morbilità [49] . Così pure il caso dell’art. 1105 cod. nav. relativamente al reato di ammutinamento, che letto in guisa con l’art. 40 Cost. ha escluso tale reato in caso di sciopero dell’equipaggio quando la nave non si trova in navigazione [50] .

I diritti fondamentali, costituiscono poi strumenti ineludibili per una corretta interpretazione  dei precetti normativi in materia di autonomia negoziale che sono rivenibili:

  1. nell’obbligo di correttezza tra debitore e creditore (art. 1175 c.c.), che si traduce nella collaborazione reciproca dei contraenti in ogni fase del rapporto per la salvaguardia degli interessi di ciascuna parte (art. 1206 c.c.);
  2. nel principio della buona fede precontrattuale, che regola il comportamento delle parti nelle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.), così come nei contratti standardizzati, ove non avviene nessuna trattativa, e nei contratti conclusio da soggetti consumatori, il controllo di ragionevolezza delle condizioni che «determinano un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto » ( art. 33 cod. Cons. ex art. 1469-bis c.);
  3. nel principio della buona fede nell’interpretazione e nell’esecuzione del contratto (artt. 1366, 1375, 1440, comma 2, c.c.);
  4. nelle clausole dell’ordine pubblico e del buon costume (artt. 5, 634, 1343, 1354, comma 2, 2035 c.c.), che pongono un ulteriore limite agli atti di autonomia privata.

I diritti fondamentali, che in effetti esprimono valori costituzionali, non acquisiscono efficacia normativa sull’autonomia privata. I diritti fondamentali, dunque, costituiscono un parametro valutativo, come gli standard sociali di valutazione, di cui si serve il giudice per valutare la liceità dello scopo del contratto.

 

  1. La costituzionalizzazione dei valori etici della persona in diritti fondamentali ha consentito di utilizzare la clausola della correttezza e della buona fede come strumento di controllo dell’autonomia privata[51]. Da qui la necessità(ovvero il dovere, ma non l’obbligo) di preservare gli interessi di ciascun contraente da comportamenti contrari a buone fede e correttezza sia nella fase delle trattative che dell’esecuzione del contratto[52], buona fede, intesa, dunque, come reciproca lealtà di condotta[53].

Raffrontando gli artt. 1374, 1375, 1366 c.c. si può desumere che in ordine alle prestazioni dedotte in contratto, la buona fede, non è fonte di integrazione del regolamento negoziale ( art. 1374, lo sono invece gli usi e soprattutto l’equità), ma criterio ermeneutico (art. 1366 c.c.) che consente  di ricavare i doveri e le  condizioni implicite nell’accordo (art. 1366 c.c.: il contratto deve essere interpretato secondo buona fede). La buona fede diviene quindi, il metro di valutazione dell’esattezza dell’esecuzione del contratto (art. 1375).  Tale lettura, largamente diffusa in dottrina e giurisprudenza, ha tuttavia trovato alcune eccezioni:    Occorre premettere che, nel sistema attuale, l’attività interpretativa dei contratti è legalmente guidata. Essa è conforme a diritto non già quando ricostruisce con precisione la volontà delle parti, ma quando si adegui alle regole legali. Queste, in generale, non sono norme integrative, dispositive o suppletive del contenuto del contratto; piuttosto, sono strumento di ricostruzione della comune volontà delle parti al momento della stipulazione del contratto, e, quindi, della sostanza dell’accordo, senza che la volontà pattizia possa essere integrata con elementi ad essa estranei (Cass. 26 marzo 2003, n. 6053), anche quando sia invocata la buona fede come fattore d’interpretazione del contratto. La buona fede, infatti, è fattore d’integrazione del contratto non già sul piano dell’interpretazione di questo, ma su quello della determinazione delle rispettive obbligazioni come indicato dall’art. 1375 cod. civ.; in questo senso. Cassazione civile sez. III  12 aprile 2006 n. 8619. In termini generali, non può farsi a meno di ricordare come la buona fede operi non solo in sede d’interpretazione ed esecuzione del contratto, a norma degli artt. 1366 e 1375 c.c., ma anche quale fonte d’integrazione della stessa regolamentazione contrattuale, secondo quel che si desume dall’art. 1374 c.c., “concorrendo alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere inderogabile di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 2 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti … nel rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l’interesse dell’altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio”. Cass. 22 maggio 1997, n. 4598. [54]

In nessun caso comunque, la violazione del dovere di buona fede è causa di invalidità del contratto[55], ma solo fonte di responsabilità per i danni. La buona fede è dunque  regola di comportamento che vincola le parti nell’esecuzione del rapporto operando “al di là” e “contro” le specifiche previsioni contrattuali, in quanto fondamento etico di solidarietà e, quindi, dotata dei caratteri tipici di una norma di ordine pubblico, che è sovraordinata ai poteri dispositivi delle parti.

la buona fede, intesa in senso etico, come requisito della condotta, costituisce uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico, che viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito col proposito doloso di recare pregiudizio, ma anche se il comportamento non sia stato improntato alla schiettezza, alla diligente correttezza e al senso di solidarietà sociale che integrano il contenuto della buona fede” (Cass. 5 gennaio 1966, n. 89).  Più precisamente, come principio di solidarietà contrattuale, la buona fede si articola in due canoni della condotta, che attengono, rispettivamente, alla fase di formazione – interpretazione (artt. 1337 e 1366 c.c.) e alla fase d’esecuzione del contratto (1375 c.c.).  Il primo si traduce nel dovere di lealtà; il secondo si concreta nel c.d. obbligo di salvaguardia. È proprio la combinazione tra il dovere di lealtà e l’obbligo di salvaguardia che vincola ciascuna le parti ad assicurare l’utilità dell’altra – indifferentemente dalle previsioni negoziali e del dovere generale del “neminem laedere” – ovviamente nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico. Il contraente, deve quindi, salvaguardare l’utilità della controparte compatibilmente con il proprio interesse nei limiti dei poteri discrezionali che gli derivano dagli accordi. Passando ad un esempio pratico si rileva che nell’ambito della fideiussione “omnibus”, il creditore garantito, la banca, deve, nel suo potere discrezionale di accordare  anticipazioni al debitore principale, comportarsi secondo buona fede nell’esecuzione del contratto di garanzia poiché va a determinare un ampliamento del rischio del garante. Così pure per il fideiussore, il limite dell’estensione del rischio è caratterizzato  dal dovere dell’istituto di credito di comportamento secondo il canone della buona fede nell’esecuzione del contratto di garanzia. Ciò risponde a un’esigenza di protezione del contraente “per i potenziali arbitri insiti nel meccanismo relazionale prescelto” e rientra – bisogna aggiungere – in una regola del codice sostanzialmente riproduttiva della “exceptio doli generalis” del diritto romano[56]. Tornando quindi alla figura giuridica della fideiussione, mentre a livello di formazione della fattispecie, l’integrazione si realizza per mezzo della determinazione dell’oggetto per relationem, a livello di esecuzione del contratto l’integrazione avviene con la repressione degli sconfinamenti, contrari alla buona fede, che si sono verificati nelle operazioni di concessione del credito.

19. La clausola della correttezza e della buona fede  come strumento di controllo dell’autonomia privata

Oltre alle tradizionali figure dell’errore, del dolo e della violenza, il codice civile prevede due ipotesi di squilibrio delle prestazioni generato da fattori perturbanti la libertà di decisione di una parte, da cui però l’altra trae vantaggio: contratto concluso in stato di pericolo e condizioni inique note alla controparte (art. 1447 c.c.); contratto concluso in stato di bisogno, del quale l’altra parte ha approfittato per ottenere una prestazione ultra dimidium (art. 1448). Il codice prevede la rescindibilità del contratto nel termine di prescrizione di un anno, salvo, nella ipotesi di cui all’art. 1447 c.c., per chi ha prestato l’opera, il diritto di vedersi riconoscere dal Giudice un equo compenso, diversamente nell’ipotesi di cui all’art. 1448 c.c.,  la lesione deve perdurare sino al momento della domanda giudiziale. Nell’ipotesi di un mutuo contratto con interessi usurari, la sanzione di nullità che colpisce la clausola che determina gli interessi, introdotta dall’art. 4 della l. 7 marzo 1996, n. 108, che ha escluso la sostituzione automatica degli interessi legali, prevista dall’originario secondo comma dell’art. 1815 c.c.,  sostituisce la disciplina generale dell’art. 1448.

Accanto alla  disciplina dei vizi della volontà volta ad allineare la volontà con la dichiarazione, esiste nel nostro ordinamento altra forma di tutela caratterizzata dalla dottrina anglosassone che incide con limiti molto penetranti nell’autonomia privata a difesa di categorie di soggetti (principalmente consumatori) in posizione di  disuguaglianza di potere economico rispetto alla controparte. I precedenti sono riconducibili al Consumer Credit Act inglese del 1974, nell’Unfair Contract Terms Act del 1977, e nella legge tedesca sulle condizioni generali di contratto del 1976: sono quindi rinvenibili 4 (sotto)categorie di vizi del consenso.

La prima categoria è la disciplina delle vendite “porta a porta”, offerti da operatore commerciale fuori dai locali di esercizio dell’attività ovvero  contratti sottoscritti dal consumatore “sorpreso” da una proposta e  invito a offrire, a condizioni unilateralmente predisposte, su contratti standardizzati in  prospetti e cataloghi, proposti  da un operatore commerciale fuori dai locali ove esercita la sua attività professionale[57]. Alla vittima della sorpresa è consentito di recedere dal contratto  ex artt. 47, 64 e 65 D.Lgs. 6 settembre 2005 n. 206, tuttavia tale diritto non è propriamente riconducibile ad un potere unilaterale di risoluzione di un contratto che si è già perfezionato in ogni punto così come accade per il  recesso prevista dall’art. 1373 c.c. ma piuttosto ad un diritto di “ripensamento” che consente di impedire – entro un determinato termine –  il prodursi degli effetti del negozio[58]: si tratta dunque di una ipotesi di efficacia sospesa.

Alla secondo categoria appartengono le misure adottate in materia di trasparenza bancaria con la l. 17febbraio 1992, n. 154, relativamente alla fideiussione e, almeno in parte , la disciplina delle clausole vessatorie nei contratti del consumatore introdotta dalla l. 6 febbraio 1996, n. 52 (c.d. lista nera).

L’art. 10 della legge n. 154 del 1992, modifica gli artt. 1938 e 1956 c.c. sancendo la nullità della fideiussione per obbligazioni future senza previsione dell’importo massimo garantito, e la nullità della clausola che sancisca la preventiva  rinunzia del fideiussore ad avvalersi della liberazione dal vincolo prevista dalla legge qualora il creditore, senza una speciale autorizzazione del fideiussore, abbia fatto credito ad un terzo pur conoscendo le condizioni di difficoltà finanziaria.

L’abrogato art. 1469-quinquies c.c., relativo ai contratti del consumatore, che sanciva l’inefficacia di alcune clausole tassativamente previste, anche se oggetto di trattativa; norma abrogata per effetto dell’art. 142 Cod. Cons., e sostituita dall’art. 36.

La terza categoria è rappresentata dalla  tutela del consumatore rispetto  alle clausole che si presunte vessatorie  ex  art. 33 Cod. Cons.[59].  Sono ritenute  vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede[60], determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto .  In questa sede il criterio  della buona fede  non assume il ruolo di strumento di un giudizio[61] sul comportamento della parte che ha proposto la clausola[62], ma piuttosto un test of reasonableness  sul contenuto della clausola, ovvero assume  un significato prossimo  al concetto pragmatico di equità.

Viene dunque esercitato  un sindacato di ragionevolezza analogo a quello esercitato dalla Corte Costituzionale sulle norme di legge, il  giudice civile assume quindi il compito di bilanciare gli interessi in virtù dell’art. 34 Cod. Cons. (ex art. 1469-ter).

Alla quarta categoria trova applicazione nell’art. 117 del d.lgs. 1o settembre 1993, n. 385 (testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), a garanzia della trasparenza delle condizioni contrattuali praticate dalle banche e dagli intermediari finanziari[63]. I contratti devono essere stipulati, a pena di nullità,  per iscritto con indicazione del tasso di interesse e di ogni altro prezzo e condizioni praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora.  Per i contratti di credito al consumo sono poi richieste specifiche informazioni, sempre a pena di nullità del contratto se mancanti.

20. Casi particolari

La problematica oggi più presente è rappresentata dalla incertezza dei limiti degli obblighi di informazione e di illustrazione dei termini dell’affare che la buona fede impone al contraente informato ed esperto nei confronti di una controparte inesperta. Le formulazioni normative lasciano, oggi, al giudice una discrezionalità molto ampia[64], e la Corte di cassazione, a sua volta non colma questa lacuna.

Trattasi di regola, codificata, di correttezza e di buona fede, più volte qui richiamata, che deve presiedere al comportamento delle parti nella fase d’esecuzione del rapporto obbligatorio (artt. 1175 e 1375 c.c.): nel caso concreto, del rapporto di garanzia.

Autorevoli interpreti hanno, di recente, rielaborato e approfondito il concetto di buona fede in senso oggettivo, precisando le caratteristiche del ruolo che ad essa compete come fonte di integrazione del contratto.  Così intesa, la buona fede si pone quale regola di comportamento vincolante le parti nell’esecuzione del rapporto. Essa opera “al di là” e “contro” le specifiche previsioni contrattuali, perché sorretta da un fondamento etico di solidarietà e, quindi, dotata dei caratteri tipici di una norma di ordine pubblico, sovraordinata ai poteri dispositivi delle parti.  Secondo la giurisprudenza, “la buona fede, intesa in senso etico, come requisito della condotta, costituisce uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico, che viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito col proposito doloso di recare pregiudizio, ma anche se il comportamento non sia stato improntato alla schiettezza, alla diligente correttezza e al senso di solidarietà sociale che integrano il contenuto della buona fede” (Cass. 5 gennaio 1966, n. 89).  Più precisamente, come principio di solidarietà contrattuale, la buona fede si articola in due canoni della condotta, che attengono, rispettivamente, alla fase di formazione – interpretazione (artt. 1337 e 1366 c.c.) e alla fase d’esecuzione del contratto (1375 c.c.).  Il primo si traduce nel dovere di lealtà; il secondo si concreta nel c.d. obbligo di salvaguardia.  Quest’obbligo vincola ciascuna delle parti ad assicurare l’utilità dell’altra – al di là delle particolari previsioni negoziali e del dovere generale del “neminem laedere” – nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico.  Il contraente, quindi, è tenuto ad agire nell’esercizio dei poteri discrezionali che gli derivano dagli accordi, in modo da salvaguardare l’utilità della controparte compatibilmente con il proprio interesse e con l’interesse per il quale il potere gli è stato conferito.  È proprio questo, nell’ambito della fideiussione “omnibus”, il principio che deve presiedere al comportamento del creditore garantito, la banca, nell’esercizio del suo potere discrezionale consistente nell’accordare le anticipazioni al debitore principale, con ampliamento del rischio del garante. Per il fideiussore, invero, il limite dell’estensione del rischio è rappresentato dall’assoggettamento dell’istituto di credito al dovere di comportamento secondo il canone della buona fede nell’esecuzione del contratto di garanzia.

Ciò risponde – com’è stato esattamente osservato – a un’esigenza di protezione del contraente “per i potenziali arbitri insiti nel meccanismo relazionale prescelto” e rientra – bisogna aggiungere – in una regola del codice sostanzialmente riproduttiva della “exceptio doli generalis” del diritto romano.  Perciò, mentre, a livello di formazione della fattispecie, l’integrazione avviene attraverso la determinazione dell’oggetto “per relationem”, a livello d’esecuzione del contratto l’integrazione stessa si realizza mediante la repressione degli sconfinamenti, palesemente contrari alla buona fede, verificatisi nelle operazioni di concessione del credito.  Lo stesso requisito della prevedibilità trova, quindi, riscontro non in una particolare disposizione statutaria dell’ordinamento bancario, ma nel dovere generale, sancito dal codice, di salvaguardia – nel senso e nei limiti testè delineatesi – degli interessi della controparte.  Confluiscono nell’alveo di questo generale criterio di valutazione i c.d. inizi di determinabilità della fideiussione “omnibus”, come la qualità del “soggetto – banca”, la “normalità” dell’attività bancaria e la “regolamentazione” di tale attività secondo leggi speciali.  Elementi, questi, che, nel regime del rapporto contrattuale in esame riguardano piuttosto il particolare aspetto della professionalità del soggetto garantito, influente – certo – nella prospettazione iniziale, da parte del garante, dei possibili sviluppi delle relazioni future col creditore, e quindi sulla sua stessa opzione contrattuale, ma non decisivo per identificare i caratteri essenziali della fideiussione “omnibus”, che opera costantemente entro il limite sostanziale della clausola legale di salvaguardia del soggetto obbligato alla prestazione di garanzia.  In conclusione, se, da un lato, deve essere risolto in senso affermativo il problema dell’ammissibilità, in astratto, della fideiussione “omnibus” (problema proponibile, ormai, sol quando non sia contemplato, nei nuovi moduli contrattuali bancari, alcun massimale per la erogazione del credito), dall’altro, il vero limite di operatività della garanzia deve essere individuato nell’obbligo di osservare la clausola legale di salvaguardia, più volte ricordata.

Di conseguenza, non rientrano nella copertura fideiussoria le anticipazioni accordate dalla banca al debitore principale in violazione del dovere di solidarietà contrattuale, nella cui osservanza, durante la esecuzione del rapporto di garanzia, deve trovare realizzazione il principio di buona fede. (Cass., 18 luglio 1989, n. 3362)

Oggi le norme sulla trasparenza delle condizioni contrattuali delle banche hanno sottratto gli obblighi di informazione della banca all’ambito della colpa precontrattuale allocandoli a  requisiti di forma del contratto.  La condotta della banca potrebbe comunque essere ricondotta al dolo causale e dolo incidentale, prevista dagli artt. 1439 e 1440 c.c. come criterio di limitazione al primo della sanzione di annullabilità del contratto per vizio del consenso, mentre il secondo è sanzionato dalla responsabilità del contraente in mala fede per i danni. Tali argomenti sono altresì  riproducibili in relazione  alle turbative della libertà del consenso imputabili a comportamenti dell’altra parte contrari a buona fede; in tal caso non occorre  rifarsi al dolo nel senso dell’art. 1439, ovvero qualificabile, in senso atipico nell’ambito normativo dell’art. 1337  strumento che consente di graduare la misura della sanzione, che comunque porterà ad una domanda risarcitoria.

La libertà di contratto è una libertà individuale, ma anche a considerarla un aspetto della libertà di sviluppo della propria personalità, garantita dall’art. 2 Cost., non si deve tuttavia dimenticare che un contratto si conclude solo se due soggetti si mettono d’accordo: nessuno dei due può concludere l’affare alle condizioni che più gli piacciono, perché nessuno dei due può concludere se non alle condizioni consentite dall’altro. In questo senso nessuno dei due contraenti può gridare allo scandalo perché la controparte gli pone questa o quella condizione[65].

La libertà di contratto non esclude  che una parte possa perdere e l’altra guadagnare.  Infatti da un punto di vista dinamico  l’art. 1322 c.c. ci descrive la libertà di contratto come libertà di due o più parti di darsi un regolamento di interessi sul quale si verifica una convergenza delle loro volontà.

L’autodeterminazione deve essere tuttavia intesa quale libera decisione di stipulare il contratto a certe condizioni in accordo con una (o più) parte.

La scelta del legislatore  del 1942 è stata quella di introdurre   di una nuova fattispecie, l’incapacità di intendere o di volere, definita in termini generici che possono comprendere non solo stati di obnubilamento mentale, ma anche di crassa ignoranza o disinformazione oppure di dipendenza personale ed economica da un terzo interessato alla conclusione del contratto ha subito nel tempo modifiche volte ad introdurre  figure di nullità del contratto (di solito limitata a singole clausole) improntate a tecniche di prevenzione di squilibri contrattuali, operanti mediante l’imposizione di limiti all’autonomia privata.

La giurisprudenza deve, oggi ricorrere sempre più spesso a indagare sui limiti dell’autonomia contrattuale, specie in un epoca, come la nostra, in cui il diritto dell’economia trova unoa sua, sempre, più evidente autonomia.

Si pensi al caso di un assegno in bianco o postdatato consegnato al creditore,  in genere utilizzato per fornire una garanzia – da restituire al debitore alla scadenza in caso di regolare adempimento, tale operazione è contraria alle norme imperative contenute nella R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, artt. 1 e 2 e dà luogo ad un giudizio negativo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, alla luce del criterio della conformità a norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume enunciato dall’art. 1343 cod. civ.: la Corte di Cassazione[66], ha ritenuto che,

non viola il principio dell’autonomia contrattuale sancito dall’art. 1322 cod. civ. il giudice che, in relazione a tale assegno, dichiari nullo il patto di garanzia e sussistente la promessa di pagamento di cui all’art. 1988 cod. civ.[67] 

E’ stato ritenuto[68] pacifico che, in base al principio dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c.,  sia configurabile il contratto atipico di cosiddetto “vitalizio alimentare”, autonomo e distinto da quello, nominato, di rendita vitalizia di cui all’art. 1872 c.c., sulla premessa che i due negozi, omogenei quanto al profilo della aleatorietà, si differenzino perchè, mentre nella rendita alimentare le obbligazioni dedotte nel rapporto hanno ad oggetto prestazioni assistenziali di dare prevalentemente fungibili, nel vitalizio alimentare le obbligazioni contrattuali hanno come contenuto prestazioni (di fare e dare) di carattere accentuatamente spirituale e, in ragione di ciò, eseguibili unicamente da un vitaliziante specificatamente individuato alla luce delle qualità personali proprie di questo[69].

Rappresenta un caso da segnalare, quello sollevato quello sollevato dal Collegio arbitrale costituito in Roma, con ordinanza del 16 giugno 2014 per la risoluzione della controversia tra una società cooperativa sociale Onlus e l’AUSL Roma E. la questione ha ad oggetto  la legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 25, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 108 e 111 della Costituzione, nonché dell’art. 241, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163[70] come sostituito dall’art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 97, 102 e 111 Cost.. La Corte Costituzionale  ha stabilito che  Lo ius superveniens consistente nel divieto di deferire le controversie ad arbitri senza una preventiva e motivata autorizzazione non ha l’effetto di rendere nulle in via retroattiva le clausole compromissorie originariamente inserite nei contratti, bensì quello di sancirne l’inefficacia per il futuro, in applicazione del principio, espresso dalla costante giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la nullità di un contratto o di una sua singola clausola, prevista da una norma limitativa dell’autonomia contrattuale che sopravvenga nel corso di esecuzione di un rapporto, incide sul rapporto medesimo, non consentendo la produzione di ulteriori effetti, sicché il contratto o la sua singola clausola si devono ritenere non più operanti. Non si pone conseguentemente alcun problema di retroattività della norma censurata o di ragionevolezza della supposta deroga all’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale.[71]

Anche Cassazione civile, sez. I, 05/06/2014, (ud. 10/12/2013, dep.05/06/2014),  n. 12705, ha ribadito che ha esaminato la questione relativa  alla denuncia concernente la violazione delle norme sull’autonomia contrattuale, oltre che sull’efficacia dei contratti, e delle disposizioni in tema di arbitrato, per il fatto che la volontà derogatrice alla giurisdizione ordinaria sarebbe stata già manifestata con la previsione dell’apposita clausola, al momento dell’entrata in vigore della legge preclusiva dell’arbitrato, ed una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa vigente deporrebbe nel senso dell’applicazione del detto divieto soltanto alle clausole compromissorie poste in essere successivamente all’entrata in vigore del D.L. n. 180 del 1998, si ritiene che anche tale rilievo non possa essere condiviso; la corte ha infatti stabilito che valgano in proposito le seguenti considerazioni: a) la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda (art. 5 c.p.c.), sicchè sotto questo riflesso risultano irrilevanti gli accordi di diverso tenore precedentemente assunti;

b) il fluire del tempo costituisce idoneo elemento di differenziazione delle situazioni soggettive e non sussiste alcuna ingiustificata disparità di trattamento per il solo fatto che situazioni, pur identiche, siano soggette a diversa disciplina “ratione temporis”[72];

c) la garanzia costituzionale dell’autonomiacontrattualenon è incompatibile con la prefissione di limiti a tutela di interessi generali[73];

d) non è ravvisabile una violazione del principio di “affidamento” legislativo, che va interpretato nel senso dell’impossibilità di ritenere applicabile una nuova disciplina all’atto già formato, ipotesi certamente insussistente nella specie;

e) la Corte Costituzionale, cui era stata sottoposta la relativa questione, ha già esplicitamente affermato la costituzionalità delle disposizioni che precludono la devoluzione a collegi arbitrali delle controversie, già oggetto di compromesso arbitrale, relative all’esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione in territori colpiti da calamità naturali[74].

Questione molto dibattuta in giurisprudenza, e che, forse più ditutte esprime la delicatezza della problematica legata ai limiti dell’autonomia contrattuale e la possibilità per i i provati di prevedere in un contratto preliminare, la possibilità di stipulare un ulteriore preliminare, ma vediamo come la giurisprudenza ha affrontato il problema.

Il Trib. Salerno 23 luglio 1948[75] affermò che la legge, nel fissare i due tipi fondamentali di contratti (preliminare e definitivo), esclude l’esistenza di un contratto preliminare relativo ad altro preliminare, il quale dovrebbe comunque rispettare il requisito di forma di cui all’art. 1351 c.c.

Il tribunale di Napoli[76] ritenne, da parte sua,  che il contratto con cui le parti si impegnano a stipulare un futuro contratto preliminare con lo stesso contenuto è nullo per mancanza di causa, difettando di ogni funzione economica meritevole di tutela[77], tesi quest’ultima non sempre confermata dal tribunale partenopeo[78], ha ritenuto che in virtù del principio dell’autonomia negoziale sia ammissibile un regolamento contrattuale che preveda, dopo la prima intesa scritta, un’ulteriore fase temporale, con la stipulazione del contratto preliminare, legata al versamento di una caparra. Così pure il Trib. Napoli 28 febbraio 1995[79] muovendo dallo stesso principio ha ritenuto meritevole di tutela il contratto preliminare del preliminare qualora lo stesso costituisca un momento ben caratterizzato dell’iter progressivo per il raggiungimento del compiuto regolamento di interessi.

Altri Tribunale di merito senza approfondire, hanno ravvisato già nel primo contratto gli elementi sufficienti a qualificare come preliminare ex art. 1351 c.c., l’accordo documentato[80] ovvero, all’opposto, la configurabilità di una condizione sospensiva, il cui mancato avveramento impedisce il perfezionamento della fattispecie negoziale[81].

Come sottolinea la Suprema Corte[82], se mancano violazioni di una legge imperativa, non v’è motivo per giudicare inammissibili procedimenti contrattuali graduali, la cui utilità sia riscontrata dalle parti con pattuizioni che lasciano trasparire l’interesse perseguito, in sè meritevole di tutela, a una negoziazione consapevole e informata.

            Le posizioni di coloro che pongono l’alternativa “preliminare o definitivo” amputano le forme dell’autonomia privata, sia quando vogliono rintracciare ad ogni costo il contratto preliminare in qualunque accordo iniziale, sia quando ravvisano nel c.d. preliminare chiuso il contratto definitivo, passibile soltanto di riproduzione notarile. La procedimentalizzazione della fasi contrattuali non può di per sè essere connotata da disvalore, se corrisponde a “un complesso di interessi che stanno realmente alla base dell’operazione negoziale”. E’ vero che occorre guardarsi da un uso “poco sorvegliato” dell’espressione preliminare di preliminare”, perchè l’argomento nominalistico non è neutro. Tuttavia, se ci si libera dell’ipotesi in cui appare che il primo contratto è già il contratto preliminare e che il secondo è, al più, solo la sua formalizzazione per la trascrizione, restano due “sequenze” variabili che si avvicinano:

A) quella delle mere puntuazioni in cui le parti hanno solo iniziato a discutere di un possibile affare e senza alcun vincolo fissano una possibile traccia di trattative. In questa ipotesi, quanto maggiore e specifico è il contenuto, tanto più ci si avvicina al preliminare.

B) Quella in cui il contratto non è ancora un vero preliminare, ma una puntuazione vincolante sui profili in ordine ai quali l’accordo è irrevocabilmente raggiunto, restando da concordare secondo buona fede ulteriori punti.

Deve peraltro evidenziarsi che nel diritto amministrativo i limiti all’autonomia contrattuale assumono sfumature differenti dal diritto privato. Il Consiglio ha sottolineato che, mentre l’art. 1339 c.c. assolve la funzione precipua di assicurare l’attuazione delle condizioni contrattuali previste in via inderogabile dalla legge, con il meccanismo dell’inserzione automatica delle clausole imperative in sostituzione di quelle difformi convenute dalle parti, e postula, dunque, la conclusione di un accordo negoziale il cui contenuto risulti parzialmente contrastante con quello imposto dal legislatore e sottratto, come tale, all’autonomia privata, il bando di gara si limita a regolare il procedimento di selezione del contraente e non contiene disposizioni in ordine alla misura dei diritti e degli obblighi nascenti dal contratto che sarà stipulato all’esito della procedura[83].

            È in via di principio quindi estranea al diritto amministrativo la differenza tra norme dispositive e norme imperative, diversamente da quanto accade nel diritto privato, dove alle parti viene riconosciuto, nella loro autonomia, il potere di derogare, entro certo limiti, alle previsioni della legge, tendenzialmente dispositive, salvo il limite delle norme imperative (e di altri fondamentali principi come l’ordine pubblico o il buon costume, art. 1343 c.c.). E tanto si spiega per la ragione che, a differenza di quelle dettate dal diritto pubblico, secondo l’antico insegnamento ius publicum privatorum pactis derogari non potest, le norme del diritto privato, come la più attenta dottrina civilistica non ha mancato di rilevare, sono in linea di principio derogabili e “flessibili” per il massimo spazio lasciato all’autonomia dei privati, con il limite, appunto, di quelle imperative. (56.) Nelle limitate ipotesi di norme privatistiche imperative l’atto di autonomia, che si ponga in contrasto con esse, è nullo (art. 1418, comma 3, c.c.), operando, se del caso, il meccanismo di inserzione automatica previsto dagli artt. 1339 e 1419 c.c.[84]

In campo farmaceutico, l’art. 1, comma 41, della l. 662/1996 afferma il principio del “prezzo contrattato”, in forza del quale l’eventuale modifica delle quote di spettanza dovute alle imprese farmaceutiche, ai grossisti e ai farmacisti è rimessa, come confrmato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 295 del 13.11.2009 e ribadito nella sentenza n. 330 del 16.12.2011, è rimessa “all’autonomia contrattuale dei soggetti del ciclo produttivo e distributivo attraverso convergenti manifestazioni di volontà”. Tale principio è affermato dall’art. 48, comma 33, del d.l. 269/2003, convertito in legge dalla l. 326/2003, secondo cui “dal 1° gennaio 2004 i prezzi dei prodotti rimborsati al Servizio Sanitario Nazionale sono determinati mediante contrattazione tra Agenzia e Produttori secondo le modalità e i criteri indicati nella del. CIPE 1° febbraio 2001, n. 3, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 73 del 28 marzo 2001”.

Proprio con la  pronuncia n. 295 del 13.11.2009, la Corte, nel censurare una disposizione di una legge regionale della Puglia che aveva indebitamente limitato la capacità dei predetti soggetti di modificare pattiziamente le quote di loro spettanza, ha rimarcato il principio dell’autonomia negoziale dei privati, di cui all’art. 1322 c.c., la disciplina delle quali spetta in via esclusiva al legislatore statale.

21. La trasparenza nei rapporti negoziali

In definitiva la giurisprudenza ha ritenuto di affermare che, la sfera di autonomia privata non riceve dall’ordinamento una protezione assoluta, “sì che la sua lamentata compressione nella determinazione del prezzo non è costituzionalmente illegittima quando si riveli preordinata a consentire il soddisfacimento contestuale di una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti”, come era avvenuto nel caso di specie, con le norme citate, mediante le quali il legislatore aveva perseguito l’obiettivo di “realizzare il contenimento della spesa sanitaria in vista del fine di utilità sociale costituito dalla garanzia del più ampio godimento del diritto alla assistenza farmaceutica, lasciando comunque all’imprenditore un più ridotto ma ragionevole margine di utile”[85].

La riorganizzazione del diritto pubblico dell’economia mista ha determinato un intervento sempre più massiccio sulle  restrizioni dell’autonomia privata al fine di garantire una maggior  tutela della concorrenza, della correttezza e della trasparenza delle operazioni commerciali, al fine di qualificare  il mercato sulla matrice dell’ utilità sociale.

Note

[17] Cass. 20 aprile 1994 n. 3775.

[18] W. Siebert, Verwirkung und Unzulässigkeit der Rechtsausübung, Marburg in Hessen, 1934, 68 ss.

[19] Art. 74: «È tenuto al risarcimento colui che ha cagionato danno ad altri, eccedendo nell’esercizio del proprio diritto i limiti posti dalla buona fede e dallo scopo per il quale il diritto gli fu riconosciuto».

[20] Art. 7: «Nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per cui il diritto medesimo gli è stato riconosciuto».

[21] I timori emergono dai lavori preparatori: Giorgianni, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963, 12 ss. (su cui v. Crespi Reghizzi, AcP, 166, 1966, 565).

[22] Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, 97.

[23] Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, RTPC, 1958, 26 ss.

[24] Trib. Bologna, 5-11-1970; Cass., 20-6-1972, n. 1965; Trib. Milano, 4-7-1975; Trib. Torino, 13-6-1983; Portale, Impugnative di bilancio ed exceptio doli, GCo, 1982, 407 ss.

[25] Portale, Impugnative di bilancio ed exceptio doli, GCo, 1982.

[26] Sacco, Introduzione al diritto comparato, Torino, 1980, 180 s.

[27] Ex multis Cass., III, 10 novembre 2010 n. 22819; Consiglio di Stato sez. III  17 maggio 2012 n. 2857

[28] Cassazione Civile  Sez. I   16/10/2003  n°15482

[29] Cass. 15 novembre 1960, n. 3040

[30] Ex multis: Cass. 21 maggio 1997, n. 4538; Cass. 14 luglio 2000, n. 9321; Cass. 21 febbraio 2003, n. 2642

[31] Cass. 8 febbraio 1999, n. 1078

[32] In particolare, Cass., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106,  in materia di esercizio abusivo del diritto di recesso ad nutum. Ex multis: Consiglio di Stato sez. V  07 febbraio 2012 n. 656

[33] Pure artt. 88, 91, 94 e 96 del codice di rito civile e gli artt. 1, 2 e 26 del codice del processo amministrativo.

[34] Cass., sez. I, 3 maggio 2010, n. 10634

[35] Cass. civile, sez. un., 23 dicembre 2008 n. 30055

[36] RESCIGNO, voce Contratto, in Enc. giur., IX, Roma, 1988, p. 10 ss.; Corte cost., 11 febbraio 1988, n. 159; PACE, Libertà « del » mercato e « nel » mercato, in Pol. dir., 1993, p. 327 ss.. Diversamente, è espressa come nella Costituzione di Weimar (art. 152), e implicitamente nella Costituzione di Bonn (art. 2, Abs. 1)

[37] Cerri, Doveri Pubblici, in Enc. Giur., XII, Torino, 1989

[38] Alpa, Solidarietà, Nuova Giur. Comm., 1994, pag. 365.

[39] Corte Cost. 75/1992.

[40] Queste sono: la libertà di matrimonio, libertà di associazione garantite dagli artt. 18 e 29, ai quali va aggiunto l’art. 39, sulla  libertà sindacale, sia come libertà individuale dei lavoratori e dei datori di lavoro di associarsi per la tutela dei rispettivi interessi professionali collettivi, sia come libertà del sindacato di darsi uno statuto, nel rispetto  del requisito di democraticità interna, sia infine come libertà di azione sindacale, tra le cui forme primeggia  la contrattazione collettiva delle condizioni di lavoro.

[41] L’Italia ha adottato una disciplina antitrust soltanto nel 1990

[42] All’art. 41 della Costituzione è riconducibile all’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea intitolato alla libertà d’impresa. Entrambe le disposizioni, garantiscono la libertà degli individui di avviare e svolgere attività economiche in un’economia di mercato libera e concorrenziale.

[43] Cass. SSUU N. 14828 del 4 settembre 2012

[44] « dall’art. 41, comma 2, non discende un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia privata in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare quella astratta tutela » Cass., Sez. un., 29 maggio 1993, n. 6031. La massima è consolidata: cfr. pure Cass., Sez. un., 1 ottobre 1993, n. 9801; Cass., Sez. un., 17 maggio 1996, n. 4570.

[45] In tal senso Consiglio di Stato sez. III  02 settembre 2013 n. 4364   Il meccanismo dell’eterointegrazione ha origine e trova la sua collocazione sistematica e il suo terreno d’elezione nel diritto privato, che contempla, accanto alla fonte principale dell’autonomia contrattuale, la volontà delle parti, quelle che la più autorevole dottrina civilistica ha chiamato le cc.dd. fonti eteronome da individuarsi, secondo la definizione dell’art. 1374 c.c., nella legge o, in mancanza, negli usi e nell’equità.

L’autonomia privata, che certo assume un ruolo centrale e propulsivo in tutto il diritto delle obbligazioni e dei contratti, non è in altri termini fonte esclusiva e assoluta del regolamento negoziale, essendo pur essa soggetta ai limiti previsti dalla legge (e dalle altre fonti del diritto privato), sicché il regolamento negoziale, quale regola obiettiva del concreto assetto di interessi divisato dalle parti, è costituito e integrato anche da tutte quelle regole cogenti, esterne alla volontà dei contraenti ed eventualmente da questa difformi, dettate dalla legge o dalle altre fonti.

[46] Ad esempio,  stabilire i limiti della disponibilità pattizia di un diritto fondamentale, come l’integrità fisica mediante atti di disposizione del proprio corpo, ovvero art. 5 c.c. e le leggi speciali ; il patto di non concorrenza inserito in un contratto di lavoro o in un contratto di cessione di azienda (Artt. 2125, 2557 c.c.); il divieto di alienazione (Art. 1379 c.c.); i limiti del vincolo di subordinazione accettato dal lavoratore – l. 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. statuto dei lavoratori). Ci sono poi dei limiti costituzionali: nel titolo III della parte I della Costituzione: artt. 36 che garantisce ai lavoratori subordinati il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa; l’art. 37 sul diritto di parità di trattamento, a parità di lavoro, delle donne e dei minori; e l’art. 40 sul diritto di sciopero. Alcune interpretazioni giurisprudenziali che riconoscono al Giudice il potere di controllo sul contenuto del contratto, ovvero di c.d.  concetto di Drittwirkung, sono rimaste isolate. Si ricorda il tentativo  compiuto negli anni ’50 da una parte della giurisprudenza, di ricondurre all’art. 36 Cost., il potere di sindacare la sufficienza delle tariffe dei contratti collettivi. Il potere (da parte del Giudice) di modificare il contenuto del contratto secondo il principio di equità non è ammissibile se non nei casi espressamente previsti dalla legge.

[47] Trattandosi di sentenza interpretativa di rigetto, vincolante solo per il giudice a quo.

[48] Non ritiene possibile la Corte una correzione del contratto volta a generalizzare il trattamento più favorevole)

[49] Cass., Sez. un., 29 marzo 1980, n. 2072

[50] Corte cost., 28 dicembre 1962, n. 124

[51] Cass. S.U. 15 novembre 2007 n. 23726; Cass. S.U. 24 novembre 2007 n. 28056; Cass. 22 gennaio 2009 n. 1618; Cass. 5 maggio 2009 n. 5348; Cass. 29 maggio 2007 n. 12644.

[52] Obblighi di correttezza, corrispondenti alle Schutzpflichten della dottrina tedesca.

[53] Cass. 18 ottobre 2004 n. 20399; 5 marzo 2009 n. 5348; 31 maggio 2010 n. 13208.

[54] Così, anche Cass. 20 aprile 1994, n. 3775.

[55] Cassazione civile sez. lav.  06 ottobre 2005 n. 19415; Cassazione civile sez. lav.  05 ottobre 1998 n. 9867  

[56] Cass., 18 luglio 1989, n. 3362

[57] Art. 18-ter, comma 2, della l. 7 giugno 1974, n. 216, sul mercato mobiliare, introdotto dall’art. 12 della l. 13 marzo 1983, n. 77, in attuazione della direttiva 85/611/CEE come modificata dalla direttiva 88/220; art. 4 ss. del d.lgs. 15 marzo 1992, n. 50, attuativo della direttiva 85/577/CEE in materia di contratti negoziati fuori dei locali commerciali.

[58] La questione è già stata oggetto di discussione in relazione agi arrt. 1469 bis e ss.: sul punto SACCO, in SACCO-DE NOVA, Il contratto, I, Torino, 1993, p. 484 ss.

[59] ex art. 1469-bis – 1469-sexies, introdotte nel codice civile dall’art. 25 della l. 6 febbraio 1996, n. 52, in attuazione della direttiva 93/13/CEE

[60] la traduzione non appare fedele al  testo francese che recita:  en dépit de l’exigence de bonne foi

[61] alla stregua del bonus vir.

[62] la determinazione unilaterale della clausola, è un presupposto, oggetto di accertamento di fatto, non di valutazione.

[63] Così pure Allegato 1 del Provvedimento Banca d’Italia 29 luglio 2009

[64] Art. 18-ter, comma 2, della l. 7 giugno 1974, n. 216, sul mercato mobiliare, introdotto dall’art. 12 della l. 13 marzo 1983, n. 77, in attuazione della direttiva 85/611/CEE come modificata dalla direttiva 88/220; art. 4 ss. del d.lgs. 15 marzo 1992, n. 50, attuativo della direttiva 85/577/CEE in materia di contratti negoziati fuori dei locali commerciali.

[65] SACCO, op. cit., p. 499, secondo cui potrebbe essere domandato il risarcimento del danno in forma specifica mediante annullamento del contratto, ai sensi dell’art. 2058 c.c..

[66] Cassazione civile, sez. I, 24/05/2016,  n. 10710

[67] Cfr. Cass. civ. sezione 2, n. 4368 del 19 aprile 1995.

[68] Cassazione civile, sez. II, 22/04/2016, (ud. 02/02/2016, dep.22/04/2016),  n. 8209

[69] Cfr.: Cass. 5 maggio 2010, n. 10859; Cass. 29 maggio 2000, n. 7033; Cass. 8 settembre 1998, n. 8854.

[70] Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE.

[71] Corte Costituzionale, 09/06/2015, (ud. 13/05/2015, dep.09/06/2015),  n. 108,

[72] Corte Cost. 01/376.

[73] Corte Cost. 03/11.

[74] Corte Cost.03/11.

[75] Dir. Giur., 1949, 101

[76] 23.11.1982 in Giustciv. 1983, 1, 283; 21.2.1985 n. 1480 Dir Giur. 1985, 725

[77] Ex Multis: App Genova 21.2.2006, Obbl e contr., 2006, 648; App. Napoli 1.10.2003, Giur. mer. 2004, 63.

[78] App. Napoli 11 ottobre 1967, Dir. Giur. 1968, 550-

[79] Dir. Giur. 1995, 163.

[80] Pret. Firenze 19. 12. 1989 Giur. merito, 1990, 466.

[81] Trib. Firenze 10 luglio 1999, Nuovo dir., 2000, 487.

[82] Cassazione civile, sez. un., 06/03/2015, (ud. 07/10/2014, dep.06/03/2015),  n. 4628

[83] Cons. St., sez. V, 5.10.2005, n. 5316.

[84] Consiglio di Stato, sez. III, 02/09/2013, (ud. 12/07/2013, dep.02/09/2013),  n. 4364

[85] Consiglio di Stato, sez. III, 10/12/2013, (ud. 28/11/2013, dep.10/12/2013),  n. 5910.

 

Avv. Morini Giampaolo

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