Sulla questione di costituzionalità dell’art. 2751-bis, n. 2, c.c.

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Con ordinanza del 19 giugno 2018 il Giudice Delegato del Tribunale di Udine ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, con riferimento all‘art. 3 Cost., dell’art. 2751-bis, n. 2, C.C., nella parte in cui estende anche al credito per rivalsa I.V.A. il privilegio generale per le retribuzioni dei professionisti.
L’art. 1, comma 474, L. n. 205/2017 (tralasciamo, per carità di Patria, ogni commento a proposito di simile inverecondo sistema di legiferare) ha infatti modificato la citata disposizione in modo tale che il privilegio generale sui mobili ivi previsto non sia limitato alle sole retribuzioni dei professionisti ma – sempre con riferimento agli ultimi due anni di prestazione – vi siano «compresi il contributo integrativo da versare alla rispettiva cassa di previdenza ed assistenza e il credito di rivalsa per l’imposta sul valore aggiunto».
Il tema è stato per anni il punctum dolens soprattutto di legali e commercialisti in sede di esame del passivo, perché pareva ingiusto che costoro dovessero far parte del ceto chirografario per quanto concerneva il contributo (integrativo) alla Cassa professionale di competenza e la rivalsa dell’I.V.A., tantopiù che il meccanismo da seguire in concreto per la fatturazione di quanto ricevuto (peraltro non uniforme tra i Tribunali) risultava contabilmente “fantasioso”.

Solo per memoria di quei tempi, c’era il Curatore che – a fronte del saldo del privilegio – chiedeva al professionista di emettere la fattura globale, come se il pagamento fosse intervenuto per l’intero (con tutte le conseguenze reddituali e sul regime I.V.A. di entrambi i soggetti), salvo poi spiccare nota di accredito quando era chiaro che non vi sarebbe stato alcun ulteriore riparto, e c’era invece chi reputava sufficiente lo scorporo della cifra corrisposta tra compensi, Cassa, I.V.A. e anticipazioni non imponibili: meno redditi per il professionista e meno I.V.A. detraibile per la Massa, anche se – in verità – la somma pagata non era destinata a queste ultime voci.
Tralasciando ora questi aspetti “storici”, occorre notare che, sino alla modifica in questione, «ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare, i crediti del professionista per il rimborso del contributo integrativo da versarsi alla Cassa di previdenza avvocati e procuratori (al pari di quelli per rivalsa I.V.A.) hanno una collocazione diversa da quella spettante al credito per le corrispettive prestazioni professionali, atteso che essi non costituiscono semplici accessori di quest’ultimo, ma conservano una loro distinta individualità» (Cass. 24/3/11 n. 6849, Giust. civ. Mass. 2011, 3, 461).

Insegnamento del tutto pacifico e tralatizio, se è vero che – ancora nel 1995 – la S.C. precisava che «ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare, i crediti del professionista per rivalsa I.V.A. e per il rimborso del contributo integrativo da versarsi alla Cassa di previdenza avvocati e procuratori (sugli affari soggetti ad I.V.A.) hanno una collocazione diversa da quella spettante al credito per le corrispettive prestazioni professionali, atteso che i primi due crediti non costituiscono semplici accessori di quest’ultimo, ma conservano rispetto ad esso una loro distinta individualità, che è confermata dalla diversa disciplina dei privilegi che li assistono» (Cass. 15/9/95 n. 9763, Giust. civ. Mass. 1995, 1648; anche in: Il Fall. 1996, 350; Dir. fall. 1996, II, 484).
Sotto altro profilo, non di immediato allacciamento con il tema presente ma significativo, la Corte di legittimità insegnava che «il credito di rivalsa I.V.A. di un professionista che, eseguite prestazioni a favore di imprenditore poi dichiarato fallito, emetta la fattura per il relativo compenso in costanza di fallimento (nella specie, a seguito del pagamento ricevuto in esecuzione di un riparto parziale), non è qualificabile come credito di massa, da soddisfare in prededuzione ai sensi dell’art. 111, comma 1, L.F. (applicabile nel testo ratione temporis), in quanto la disposizione dell’art. 6 del D.P.R. n. 633 del 1972, secondo cui le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, non pone una regola generale rilevante in ogni campo del diritto, cosicché, in particolare, dal punto di vista civilistico la prestazione professionale conclusasi prima della dichiarazione di fallimento resta l’evento generatore del credito di rivalsa I.V.A., autonomo rispetto al credito per la prestazione, ma ad esso soggettivamente e funzionalmente connesso. Il medesimo credito di rivalsa può giovarsi del solo privilegio speciale di cui all’art. 2758, comma 2, C.C., nel testo di cui all’art. 5 della legge n. 426 del 1975, nel caso in cui sussistano beni – che il creditore ha l’onere di indicare in sede di domanda di ammissione al passivo – su cui esercitare la causa di prelazione. [Alla stregua di quanto avveniva per i fornitori di merce: N.d.R.] Nel caso, poi, in cui detto credito non trovi utile collocazione in sede di riparto, non è configurabile una fattispecie di indebito arricchimento, ai sensi dell’art. 2041 C.C., in relazione al vantaggio conseguibile dal fallimento mediante la detrazione dell’I.V.A. di cui alla fattura, poiché tale situazione è conseguenza del sistema normativo concorsuale» (Cass. 12/6/08 n. 15690, Giust. civ. Mass. 2008, 6, 931).

La giurisprudenza

Una concisa sintesi di quanto appena espresso si rinviene in una decisione del sempre attento Tribunale di Milano, sebbene a volte facile a porsi ai limiti opposti dell’interpretazione.
«L’ammissione al passivo in via privilegiata di un credito per prestazione professionale da parte di un avvocato può riguardare solo il compenso professionale. L’I.V.A. si può giovare del privilegio solo in caso di utile collocazione in sede di riparto; ciò non è possibile qualora si tratti di privilegio speciale relativo a prestazioni di servizi per i quali manchino i beni sui quali esercitare il privilegio. Per quanto attiene al C.P.A. [sic] è la legge a non prevedere alcun tipo di privilegio» (Trib. Milano 9/7/10 n. 9085, Redazione Giuffrè 2010).
A questo punto non è peregrino (ed anzi si ricollega assai puntualmente al tema de quo) ricordare che l’art. 11 della L. n. 21 del 1986, disciplinante gli Albi dei Dottori Commercialisti, prevede espressamente che il credito per la maggiorazione percentuale sui corrispettivi rientranti nel volume d’affari ai fini I.V.A. non solo è ripetibile nei confronti del cliente ma addirittura «è assistito da privilegio di grado pari a quello del credito per prestazioni professionali».
Sembra quasi una conferma del fatto che la classe forense (per propria colpa, ahimè) si sia fatta sopravanzare dal ceto degli esperti economico-finanziari, però a chi scrive pare strano – e qui l’ordinanza in commento si mostra ancor più sensata, per non dir altro – che la questione di legittimità di quell’art. 11 non sia giunta al vaglio della Corte Costituzionale; non è chi non veda, infatti, la disparità di trattamento tra categorie professionali connotate da rilevanza molto simile nella vita imprenditoriale e quotidiana, benché l’avvocatura goda di un rango costituzionale ignoto al ceto dei dottori e ragionieri commercialisti: senza dire delle altre che prevedono una Cassa di previdenza.
Lo stesso Tribunale di Udine, con il recente decreto del 9 gennaio 2018, ha accolto un’opposizione allo stato passivo nella parte in cui il provvedimento assunto in sede di verifica aveva escluso l’ammissione privilegiata (sempre ai sensi dell’art. 2751-bis, 1° comma, n. 2, C.C.) del credito riferito alla maggiorazione previdenziale, presumibilmente per una svista del Curatore prima e del G.D. poi.
Tornando al tema del presente commento, l’estensore ha in primo luogo dovuto risolvere il problema dell’immediata applicabilità e quindi dell’eventuale retroattività della norma sostituita, atteso il limite – normalmente invalicabile – posto dall’art. 11 Prel.
In senso negativo si era espressa, nell’immediatezza della entrata in vigore della modifica, secondo cui – mancando al riguardo una specifica previsione da parte del legislatore – ci si sarebbe potuti rifare a due pronunce della S.C., entrambe sul privilegio dell’impresa artigiana ex art. 2751-bis, 1° comma, n. 5, C.C.
Per la prima, la modifica apportata a quest’ultima norma dall’art. 36 D.L. n. 5/2012 non ha natura interpretativa autentica e, pertanto, non può essere applicata retroattivamente a crediti che siano sorti prima della sua data di entrata in vigore (Cass. SS.UU. n. 5685 del 20/3/15, Guida al diritto 2015, 34-35, 48, s.m); per la seconda, ai fini dell’ammissione al passivo di un credito privilegiato ai sensi della stessa norma (nel testo anteriore alla novella del 2012), «la natura artigiana dell’impresa va valutata esclusivamente in relazione al concetto di prevalenza del lavoro evocato dall’art. 2083 C.C., mentre sono irrilevanti la sua iscrizione nell’albo delle imprese artigiane (…) ed il non superamento delle soglie di fallibilità ex art. 1 L.F.» (Cass. 1/6/17 n. 13887, Giust. civ. Mass. 2017).
Ancor più di recente, la Sezione tributaria della S.C. ha precisato che «la L. 27 dicembre 2017 n. 205, art. 1, comma 87, lett. a), non avendo natura interpretativa, ma innovativa, non esplica effetto retroattivo; conseguentemente, gli atti antecedenti alla data di sua entrata in vigore (1° gennaio 2018) continuano ad essere assoggettati ad imposta di registro secondo la disciplina risultante dalla previgente formulazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20» (Cass. 26/1/18 n. 2207, Diritto & Giustizia 31/1/18).
Con maggior accento rispetto ai due esempi che precedono, la sentenza appena citata si riferisce ad aspetti obiettivamente insuscettibili di retroattività, trattandosi di intervenire sulla disciplina della registrazione in fattispecie già perfezionatesi, mentre il caso che ha dato origine all’ordinanza de qua induce ad operare su piani diversi e non incompatibili con una applicazione retroattiva.
Infatti il G.D. estensore ha superato ogni perplessità facendo richiamo a due decisioni della C.C. che – per quanto paradossalmente concludano con la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 23 (vari commi) del D.L. n. 98/2011 – concordano nel dire, alla luce dei principi generali delle procedure fallimentari, che «l’introduzione di un nuovo privilegio da parte del legislatore deve sempre ricevere immediata applicazione da parte del giudice delegato, dal momento che le norme processuali sulla gradazione dei crediti si individuano avendo riguardo al momento in cui il credito viene fatto valere. (…) Anche in passato, del resto, analoghe disposizioni, che prevedevano l’applicazione di un nuovo privilegio ai crediti anteriormente sorti, sono sempre state univocamente e pacificamente interpretate nel senso che con esse si intendesse estendere la possibilità di riconoscere il privilegio anche ai crediti ammessi come chirografi con provvedimenti definitivi, purché non si fosse già proceduto al riparto dell’attivo» (C.C. 4/7/13 n. 170, Foro it. 2014, 6, I, 1721, in motivazione, nota CARMELLINO; nel medesimo senso: C.C. 13/7/17 n. 176, Giur. cost. 2017, 5, 2067, nota MASTROIACOVO).

La pronunciata incostituzionalità

Altro è dire, ed è questa la ratio della poi pronunciata incostituzionalità, che «il divieto di retroattività della legge (…), pur costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost., riservata alla materia penale, con la conseguenza che il legislatore – nel rispetto di tale previsione – può emanare norme con efficacia retroattiva, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale, ai sensi della CEDU (…). Tuttavia, occorre che la retroattività non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti (…) e, pertanto, questa Corte ha individuato una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi attinenti alla salvaguardia di principi costituzionali e di altri valori di civiltà giuridica, tra i quali sono ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (…). In particolare, (…) la norma retroattiva non può tradire l’affidamento del privato, specie se maturato con il consolidamento di situazioni sostanziali, pur se la disposizione retroattiva sia dettata dalla necessità di contenere la spesa pubblica o di far fronte ad evenienze eccezionali» (C.C. 4/7/13 n. 170, cit., in motivazione).
D’altra parte, sebbene i Giudici della Consulta si siano espressi nei sensi appena riferiti, non è possibile dimenticare che – sin dalla sentenza n. 235 del 1980, da essi citata (Giur. it. 1980, I, 1, 1038; Giust. civ. 1980, I, 1351; Il Fall. 1980, 861, nota LUGARO) – la S.C. ha reputato possibile intervenire sullo stato passivo mediante un’insinuazione tardiva, anche in deroga alla regola della non utilizzabilità per variare il titolo dell’ammissione già disposta, nell’ipotesi di modifiche al regime dei privilegi: era il caso della L. n. 426 del 1975.
Chi scrive ha trovato opportuno riportare questi due ampi stralci della parte motiva, perché – se si è inteso bene il percorso logico del Giudice estensore – il momento rilevante è quello della domanda di ammissione al passivo qualora la modifica al regime di privilegi sia intervenuta prima della chiusura del termine per il loro deposito telematico; tant’è che ci si potrebbe porre l’interrogativo se, di fronte a un credito indicato per errore come chirografario (ma normativamente “promosso” al privilegio), il G.D. sia tenuto a seguire l’istanza o possa (se non debba) applicare il brocardo iura novit curia e disporre l’ammissione privilegiata, non trattandosi di dare voce all’art. 112 C.P.C. ma al factum principis.
Il diverso piano operativo tra l’odierna tematica e quella afferente il privilegio artigiano sembra però condurre ad una sorta di discrasia, già rilevata da commentatori ben più esperti del sottoscritto (si veda, ad esempio, la nota di MASTROIACOVO, cit.); ciò tuttavia non ha impedito che il Tribunale di Milano prima e poi (in sede locale) quello di Pordenone si orientassero per la non retroattività della norma introdotta dal comma 474 dell’art. 1, L. n. 205 del 2017; analoga posizione, sottolineando che non la C.C. ma la Cassazione è il Giudice di legittimità, ha assunto larga parte della dottrina: per razionalità d’esame e completezza di richiami si può far riferimento a SCARPELLI, Sulla retroattività o meno [sic] della recente riforma dell’art. 2751-bis, n. 2, C.C. (Forum procedure 14/2/18), ma qualsiasi ricerca su internet fornisce ampi ragguagli.
Sia come sia, l’ordinanza in commento si è dunque posta da un differente punto visuale e – come accennato – ha dato la precedenza alle pronunce della Consulta, valorizzando l’introduzione di un nuovo privilegio (ossia, in ipotesi, l’allargamento di quello preesistente) e l’aspetto processualistico, del tutto peculiare, che si riferisce al c.d. giudicato endofallimentare; la rimarcata aporia sta proprio in questo, che la S.C. ha stimato superabile l’irretroattività proprio all’epoca del globale intervento in tema di privilegi, con la citata sentenza n. 235 del 1980, rimasta un caposaldo durante gli anni: il Giudice Delegato vi si rifà – sebbene per implicito – allorquando pone il momento della ripartizione dell’attivo come termine ultimo per la modifica dello stato passivo.
Il terzo punto nell’esame della rilevanza costituzionale – seguendo l’ordine espositivo della parte conclusiva dell’ordinanza – attiene alla concreta possibilità di soddisfare il credito di rivalsa dell’I.V.A., chiaramente assai diversa e maggiore qualora esso goda dal privilegio speciale mobiliare; sebbene qui inespresso, il nocciolo (o, meglio, il riflesso speculare) della questione sta nella palese incertezza di veder gratificati in sede di riparto crediti posti nei numeri successivi del medesimo art. 2751-bis C.C. e per questo – data la natura latu sensu lavorativa del privilegio, come correttamente rileva il Magistrato remittente poco più sopra – l’incostituzionalità pare emergere ancor più profilata.
La rilevanza, cui il Giudice Delegato dedica le ultime righe del provvedimento, assume invero minor peso delle ragioni fondanti la decisione in commento: motivi che – si è accennato – chi scrive è portato a condividere, non solo considerando l’uguaglianza ed il principio di equità (affatto costituzionali) ma proprio il buon senso e quella ragionevolezza che non possono non fare loro da scorta; essi fanno sì che il diritto e la sua applicazione siano come un telaio dove non esistono nodi o intoppi, come disse Goethe.
I punti nodali dell’ordinanza de qua sono invero costituiti dal riscontro della presenza di un carattere che «nulla ha a che vedere con la funzione retributiva» ma soprattutto – e valga la notazione che nulla si dice della Cassa Previdenza – del fatto che «non è prevista (e nemmeno consentita all’interprete) un’analoga estensione alla rivalsa I.V.A. del privilegio attribuito al credito retributivo degli agenti (n. 3), del coltivatore diretto (n. 4), dell’artigiano e della cooperativa (n. 5) e delle cooperative agricole (n. 5bis)».
Sintesi non equivoca di una non giustificata (né tampoco giustificabile) disparità di trattamento, tanto più grave perché il legislatore di bilancio (ognun dica se sia il locus idoneo) neppure accomuna – come sarebbe agevole fare – «in via di interpretazione adeguatrice, “ogni altro prestatore d’opera”, categoria inclusa nel medesimo n. 2 dell’art. 2751-bis C.C., ma letteralmente esclusa dall’estensione»: così, chiaramente e senza mezzi termini il redattore dell’ordinanza.
Non di minor pregio, ed anzi rimarchevole per analisi, si mostra il punto successivo: vi si ricorda innanzitutto che nel sistema già esiste il privilegio per i tributi indiretti dovuti allo Stato ex art. 2758 C.C., di competenza di ciascun soggetto d’imposta.
Certamente è vero che la causa di prelazione può funzionare se nel compendio del soggetto fallito sia rinvenibile il bene ceduto o il bene che sia in diretta relazione con il servizio prestato dal creditore, per cui nella stragrande maggioranza dei casi il privilegio non opera né (a ben vedere la prassi quotidiana) viene evidenziato in sede di verifica, così semplificando quell’attività.
È dunque per un malinteso senso di disuguaglianza di fatto tra creditori (non solo professionisti) che il legislatore di fine 2017 ha pensato di includere la rivalsa I.V.A. nel privilegio generale, in un certo senso duplicando – a sommesso avviso – quello speciale di cui si è appena scritto; si è così introdotta, secondo il Tribunale, una disuguaglianza di diritto tra professionisti e le altre categorie di lavoratori che pur beneficiano dell’art. 2751-bis C.C. e si è violato il principio di ragionevolezza, che tanta parte ha nel prodotto giurisprudenziale della Consulta.
Va ribadito che l’ordinanza de qua nulla obietta circa il riconoscimento del privilegio per la parte dedicata al contributo previdenziale, ciò risultando anzi opportuno proprio per evitare una disparità tra categorie professionali diverse: si è già ricordata la norma del 1986 a favore dei commercialisti.
La linearità del provvedimento va di pari passo con la sua argomentazione, chiara e – merita ripeterlo – del tutto condivisibile, almeno per chi scrive; si è dedicato più spazio al problema processuale perché, con evidenza, solo superando l’aspetto della retroattività era possibile già oggi pervenire a questa pronuncia: l’estensore ha certamente dato un segno forte nel contrastato panorama sul tema e questo conferma il ruolo significativo del Tribunale di Udine nella materia concorsuale.

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