Strumenti di conciliazione nelle controversie individuali e collettive

Redazione 30/11/06
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 (i) Introduzione. Il rinnovato contesto normativo di riferimento
 
Con l’art. 8 della legge delega n. 30/2003 (la c.d. Legge Biagi) e nell’ottica legislativa di una razionalizzazione del mercato del lavoro, il Governo ha attuato una riorganizzazione delle articolazioni periferiche del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, andando ad incidere sulle due funzioni che maggiormente influenzano la vita del rapporto di lavoro: quella ispettiva, da un lato, quella di conciliazione delle controversie di lavoro, dall’altro.
Il decreto attuativo n. 124 del 23 aprile 2004 e la successiva Circolare ministeriale n. 24 del 24 giugno 2004 hanno realizzato, nel solco così tracciato, una radicale e complessa operazione che modifica, ma non cancella, il precedente assetto normativo.
Quella che si presenta agli occhi degli interpreti appare, dunque, una riforma nella riforma.
 
(ii) L’attività delle Commissioni di conciliazione istituite presso le Direzioni Provinciali del Lavoro (artt. 410 e 411 c.p.c. e art. 69 bis del d.lgs. n. 29/1993)
 
A norma del comma 4 dell’art. 410 c.p.c. con provvedimento del Direttore della Direzione Provinciale del Lavoro, è istituita in ogni provincia, “una commissione provinciale di conciliazione composta dal direttore dell’ufficio stesso o da un suo delegato, in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro e da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale.” 
 
Commissioni di conciliazione possono essere istituite, nel rispetto dei medesimi criteri di composizione, anche presso le sezioni zonali degli uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione.
Inoltre, “[…] le commissioni, quando se ne ravvisi la necessità, affidano il tentativo di conciliazione a proprie sottocommissioni, presiedute dal direttore dell’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione o da un suo delegato, che rispecchino la composizione prevista […]”.
Il successivo comma 7 stabilisce un quorum per la validità della riunione, infatti “[…] è necessaria la presenza del presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e di uno dei lavoratori”.
Nel caso in cui non si rispetti tale previsione, il Direttore della Direzione Provinciale del Lavoro sarà tenuto a certificare l’impossibilità di procedere al tentativo di conciliazione.
Quanto al problema della individuazione della Commissione di conciliazione competente territorialmente, troverà applicazione estensiva l’art. 413 c.p.c., il quale prevede la giurisdizione della Direzione Provinciale del Lavoro “[…] nella cui circoscrizione è sorto il rapporto di lavoro, ovvero si trova l’azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto”.
Orbene, identificato il soggetto attore, non ci resta che approfondire il contenuto dell’attività conciliativa da esso svolta.
 
Il tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c. presso la Direzione Provinciale del Lavoro
Infatti, “Chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c. e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti ed accordi collettivi deve promuovere, anche tramite l’associazione sindacale alla quale aderisca o conferisca mandato, il tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione […] “ competente territorialmente.
Nel testo del comma 1 dall’art. 410 c.p.c. è racchiuso tutto il favor del legislatore per la composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro quale strumento deflattivo del contenzioso ordinario, ponendo in essere una classica ipotesi di giurisdizione condizionata.
Il tentativo di conciliazione, infatti, opera come condizione di procedibilità della domanda, a norma dell’art. 412 bis c.p.c.
L’ammissibilità di tale limitazione al libero accesso alla giurisdizione è stata indagata dalla Corte Costituzionale (nella sentenza 4 marzo 1992, n. 82) già con riferimento alla disposizione della legge 11 maggio 1980, n. 108 sulla disciplina dei licenziamenti individuali, nella quale si era introdotta una fattispecie di tentativo obbligatorio limitatamente ai licenziamenti privi della c.d. tutela reale, norma che rappresenta sul piano legislativo l’antecedente storico dell’istituto in esame.
Il Giudice della Legge è altresì intervenuto, in epoca più recente, specificamente sulla questione di costituzionalità della normativa in esame.
In questa seconda occasione, partendo dalla premessa secondo cui “[…] l’art. 24 Cost., laddove tutela il principio di azione, non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre degli oneri finalizzati ad assicurare “interessi generali”, con le dilazioni conseguenti” ha incisivamente ricompreso il tentativo obbligatorio di conciliazione tra gli strumenti organizzati per “soddisfare l’interesse generale sotto un duplice profilo: da un lato, evitando che l’aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provochi un sovraccarico dell’apparato giudiziario, con conseguenti difficoltà per il suo funzionamento; dall’altro, favorendo la composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguito attraverso il processo” (Corte Cost. 6 – 13 luglio 2000, n. 276).
 
Accertata la legittimità costituzionale della pregiudizialità del tentativo de quo, andiamo ora ad indagare, in dettaglio, le modalità applicative in cui si manifesta e le conseguenze sul piano giuridico che ad esso si riconnettono.
 
Il tentativo di conciliazione deve essere esperito, a norma dell’art. 410 bis c.p.c., “[…] entro sessanta giorni dalla presentazione della richiesta” alla Direzione Provinciale del Lavoro competente.
Soffermiamoci subito su un concetto apparentemente secondario della disciplina, ma che in realtà, dal punto di vista procedurale, deve considerarsi nodale: in che momento e secondo quali modalità la domanda potrà dirsi “presentata”?
La più recente giurisprudenza ha sottolineato come per “presentazione” debba intendersi “[…] sottoporre la domanda all’organo investito del dovere di dare ad essa il corso necessario” (Cass. 21 gennaio 2004, n. 967, in Giust. civ. mass. 2004, fasc. 1). Allo stesso tempo, “[…] tale termine non può coprire anche un’attività rivolta alla controparte del rapporto. A questa la domanda va comunicata, non presentata”. (idem)
È proprio dal momento della presentazione della domanda che, utilizzando la tecnica giuridica della fictio iuris, il comma 2 dell’art. 410 bis c.p.c. considera espletato il tentativo di conciliazione.
 
Quanto agli effetti giuridici della presentazione, il comma 2 dell’art. 410 c.p.c. statuisce che “La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”.
La mera presentazione della richiesta, in assenza della sua comunicazione, dunque, fa sì che non sorgano gli effetti interruttivi (della prescrizione) e sospensivi (della decadenza) ora indicati. Allo stesso tempo, tuttavia, apre il problema della relativa iniziativa, “[…] prospettandosi, di fronte alla non chiara formulazione del testo, la possibilità che quelle conseguenze si verifichino anche quando la comunicazione sia data alla controparte non dal richiedente ma dallo stesso organo incaricato della conciliazione” (Cass. 21 gennaio 2004, n. 967, cit.).
Da ciò discende una ulteriore conferma dell’accezione dell’attività di presentazione più sopra proposta.
Alla luce della considerazione che una duplice comunicazione renderebbe incerta la esatta individuazione del termine iniziale per il maturarsi della condizione di procedibilità, essa deve ritenersi soddisfatta, anche nel rispetto del dato testuale della norma, nel momento della semplice presentazione della domanda, laddove alla successiva comunicazione dovranno riconnettersi gli effetti interruttivi e sospesivi sopra esposti.
Si tratta della riproposizione della costante distinzione operata dalla Suprema Corte tra effetti processuali ed effetti sostanziali del ricorso introduttivo, “i primi correlati al deposito del ricorso, i secondi condizionati alla notifica delle stesso” (ex alios, Cass. 8 maggio 2001, n. 6423 e Cass. 21 settembre 2000, n. 12507).
 
Torniamo sulla questione procedurale.
 
La Commissione, ricevuta la richiesta di conciliazione, deve provvedere alla convocazione delle parti, “[…] per una riunione da tenersi non oltre dieci giorni d-al ricevimento della richiesta” (art. 410 c.p.c., comma 3).
L’istanza di convocazione della Commissione potrà essere di due differenti tipologie: ordinaria, nel caso in cui la richiesta di esperimento del tentativo di conciliazione provenga da una sola delle parti, ovvero congiunta, qualora le parti abbiano già raggiunto un accordo di massima per la risoluzione dell’insorgenda controversia e vogliano sottoporre il contenuto del relativo accordo all’imprimatur della Commissione.
Qualora la conciliazione riesca, verrà redatto un processo verbale sottoscritto dalle parti e dal presidente del Collegio che ha esperito il tentativo, “[…] il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere (2113 c.c., ultimo comma)” (art. 411 c.p.c.).
Il processo verbale è depositato a cura delle parti o della Direzione Provinciale presso la Cancelleria del Tribunale nella cui circoscrizione è stato formato.
Solo su istanza della parte interessata il Giudice, “accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto” (art. 411 c.p.c., comma 2).
Al contrario, nel caso in cui la conciliazione non riesca, “si forma processo verbale con l’indicazione della ragione del mancato accordo […]” (art. 412 c.p.c.).
Qualora l’accordo sia meramente parziale, è prevista la possibilità per le parti di formalizzare nel verbale di mancata conciliazione la soluzione sulla quale esse limitatamente concordano, “precisando, quando è possibile, l’ammontare del credito che spetta al lavoratore
Su tali punti, il Giudice potrà attribuire al verbale efficacia di titolo esecutivo.
Inoltre, le risultanze del verbale di mancato accordo possono essere valutate dal Giudice in sede di decisione delle spese del successivo giudizio (art. 412 c.p.c., ultimo comma).
 
L’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione è previsto dall’art. 412 bis c.p.c. quale condizione di procedibilità della domanda nel processo del lavoro; la relativa mancanza deve essere eccepita dal convenuto nella memoria difensiva di cui all’art. 416 c.p.c., e può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice, purché non oltre l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c., con la conseguenza che ove l’improcedibilità dell’azione, ancorché segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice entro il suddetto termine, la questione non può essere riproposta nei successivi gradi di giudizio” (Cass. 16 agosto 2004, n. 15956, in Giust. civ. Mass. 2004, fasc. 7-8).
La recente massima ora riportata riassume pienamente il problema degli effetti della mancata proposizione del tentativo obbligatorio di conciliazione nella successiva controversia giudiziale.
Attuando un vero e proprio coordinamento tra la fase stragiudiziale e quella giudiziale, infatti, l’art. 412 bis c.p.c. prevede che “il Giudice, ove rilevi che non è stato promosso il tentativo di conciliazione ovvero che la domanda giudiziale è stato presentata prima dei sessanta giorni dalla promozione del tentativo stesso, sospende il giudizio e fissa alle parti il termine perentorio di sessanta giorni per promuovere il tentativo di conciliazione.
Trascorso il termine di cui all’art. 410 bis il processo può essere riassunto entro il termine perentorio di centottanta giorni, decorsi i quali il Giudice proclama l’estinzione del processo con decreto.
Qualora il processo, una volta sospeso, sia stato riassunto senza la proposizione dell’istanza, il Giudice deve chiuderlo in rito con sentenza dichiarativa della carenza della condizione di procedibilità.
 
L’esperimento del tentativo di conciliazione, in tal modo, diventa una condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, dando luogo ad una classica ipotesi di giurisdizione condizionata.
Il tentativo de quo, tuttavia, oltre a condizionare la successiva fase giudiziale, è a sua volta condizionato dalla volontà della parte di non “[…] avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti ed accordi collettivi […]”.
 
(iii) Il ricorso al procedimento arbitrale: tipologie, cautele e limitazioni imposte dalla legge
 
Qualora il procedimento di conciliazione abbia avuto esito negativo, ovvero sia decorso il termine previsto per il suo espletamento, le parti possono ricorrere alla procedura arbitrale.
L’accesso a tale strumento alternativo di risoluzione delle controversie in materia di lavoro, tuttavia, è vincolato al rispetto di due distinti requisiti: il primo, di carattere formale, in base al quale il ricorso alla procedura arbitrale deve essere previsto all’interno dei contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro del comparto di riferimento, il secondo, di carattere sostanziale, secondo cui la contrattazione collettiva deve stabilire “le modalità della richiesta di devoluzione della controversia e il termine entro il quale l’altra parte può aderirvi”, “la composizione del collegio arbitrale”, “la procedura di nomina del presidente e dei componenti”, “le forme e i modi di espletamento dell’eventuale istruttoria”, “il termine entro il quale il collegio deve emettere il lodo”, “i criteri per la liquidazione dei compensi per gli arbitri” (art. 412 ter c.p.c.).
Come appare de plano dalla lettura della norma, il potere di deferire il componimento della controversia ad arbitri è condizionato all’infruttuoso esperimento del tentativo di conciliazione o all’inutile decorso del termine previsto per lo stesso.
Questo significa che il tentativo di conciliazione influenza in maniera determinante l’ingressum litis nel procedimento arbitrale. Agli arbitri, infatti, allo stesso modo che ai Giudici, è attribuita la facoltà di acquisire i processi verbali di mancata conciliazione e di tener in considerazione le valutazioni ivi espresse dalle parti.
 
Fermiamoci per un breve inciso.
 
Verrebbe da domandarsi a questo punto della trattazione quale sia la ratio seguita dal legislatore nel predisporre una regolamentazione così dettagliata.
A ben guardare, infatti, la precostituzione, mediante il rinvio alla contrattazione collettiva, di limitazioni in ordine alla esperibilità del procedimento arbitrale, manifesta la esplicita volontà di attribuire alle parti in causa maggiore consapevolezza nelle loro decisioni processuali.
Questa la motivazione di un impianto di rinvio così dettagliato. Determinare ex ante le modalità in cui può avvenire la procedura de qua altro non vuol dire, nell’ottica del legislatore, che potenziare la tutela processuale della parte ritenuta più debole.
 
Una volta costituito l’arbitrato nelle modalità suddette, la controversia si definisce con la pronuncia del lodo.
Se, infatti, nella conciliazione sono le parti stesse attrici della composizione della controversia, nell’arbitrato invece le parti demandano al giudizio di un soggetto terzo la soluzione del conflitto.
L’art. 412 quater c.p.c. prevede la possibilità di impugnazione del lodo arbitrale. La competenza spetta in unico grado al Tribunale, in funzione di Giudice del lavoro, determinato in base alla circoscrizione in cui ha sede l’arbitrato.
Il termine di trenta giorni per la proposizione del gravame decorre dal momento della notificazione del lodo.
Decorso tale termine, ovvero nel caso di accettazione espressa in forma scritta delle parti della decisione arbitrale, ovvero ancora in caso di rigetto del ricorso da parte del Tribunale, il lodo è depositato nella cancelleria del Tribunale nella cui circoscrizione è sede dell’arbitrato.
Trattandosi di arbitrato irrituale, l’esecutività del lodo può essere apposta unicamente dal Giudice, previo accertamento della regolarità formale del lodo.
 
A questo punto non resta che analizzare come, in concreto, la contrattazione collettiva abbia recepito il rinvio formulato nella normativa in esame.
 
Il CCNL che più dettagliatamente regolamenta tale istituto è quello del Terziario (anche se norme non dissimili si rinvengono nell’Accordo Confservizi del 15 giugno 2000 per la gestione di servizi pubblici locali e nell’Accordo Confapi per la piccola e media industria del 20 dicembre 2000), il quale, all’art. 21, dopo aver previsto l’istituzione di un Collegio di arbitrato, prevede la sua attivazione mediante istanza di parte “avente medesimo oggetto e contenuto dell’eventuale precedente tentativo di conciliazione e contenete tutti gli elementi utili a definire le richieste […]”.
Quanto all’altra parte, questa sarà tenuta “a manifestare la propria eventuale adesione al Collegio arbitrale entro il termine di quindici giorni dal ricevimento dell’istanza […] con facoltà di presentare contestualmente o fino alla prima udienza uno scritto difensivo”.
E’ altresì prevista la possibilità delle parti di rinunciare alla procedura “con dichiarazione scritta da recapitare alla segreteria del Collegio fino al giorno antecedente alla prima udienza”.
Il Collegio è composto da tre membri, due di designazione datoriale e sindacale, il terzo nominato congiuntamente dai primi, con funzione di presidente.
Il presidente, ricevuta l’istanza, fissa entro 15 giorni la data di convocazione del Collegio. Tale organo assume la facoltà di procedere alla fase istruttoria interrogando liberamente le parti, autorizzando il deposito di documenti, memorie e repliche.
Entro 45 giorni dalla riunione il Collegio deve emettere il proprio lodo, dando tempestiva comunicazione alle parti.
 
Analizzando l’attività svolta dalle Commissioni di conciliazione costituite presso le Direzioni Provinciali del Lavoro e dai Collegi arbitrali, la nostra indagine sugli strumenti di composizione del conflitto si è incentrata sui mezzi, per così dire, successivi all’insorgere del contrasto.
 
Quello che andremo a descrivere ora, invece, è uno strumento che, andando a dirimere problemi di interpretazione del contratto collettivo, tenta di evitare il conflitto, precedendolo.
 
(iv) L’attività delle Commissioni paritetiche individuate dai contratti collettivi per la soluzione delle controversie (art. 410 e 411 c.p.c.)
 
All’interno del solco tracciato dagli artt. 410 e 411 c.p.c., la contrattazione collettiva ha dato vita a nuovi organismi finalizzati alla risoluzione delle controversie: le c.d. Commissioni Paritetiche.
Un nuovo soggetto di carattere etero-aziendale attore della fase del conflitto, cui viene attributo un compito specifico, quello di contrastare l’insorgere di controversie fondate su questioni di interpretazione del contratto collettivo.
Le Commissioni de quibus, infatti, vengono costituite all’interno dei singoli comparti produttivi a livello nazionale e regionale e secondo una composizione, appunto, paritetica, la quale cioè rispetta un equo bilanciamento tra rappresentanti di parte datoriale e di parte sindacale.
La nascita di tale strumento di composizione delle controversie deriva dalla reciproca volontà delle parti firmatarie del contratto collettivo di attribuire allo stesso una funzione di gestione omogenea del rapporto di lavoro nell’ambito del territorio nazionale, la quale non può prescindere dalla uniforme lettura e gestione delle intese contrattuali.
Tali Commissioni, tuttavia, devono essere investite della decisione unicamente su questioni interpretative e dietro presentazione di ricorso, da parte del datore o dell’organizzazione sindacale, oltre che del singolo lavoratore.
 
Esempi di regolamentazione dell’attività di tali Commissioni Paritetiche sono rappresentati dagli artt. 79 e ss. del CCNL dell’Industria Alimentare, dagli artt. 5 e ss. del CCNL degli Operatori della Formazione Professionale, dagli artt. 9 e ss. del CCNL del Terziario, dagli artt. 1.2 e ss. del CCNL Chimici.
In particolare, in tali normative di settore si rinviene una vera e propria procedimentalizzazione dell’attività delle Commissioni Paritetiche.
Quanto all’attivazione della procedura questa deve avvenire con dettagliato ricorso scritto da inviare anche alla controparte, la quale a sua volta potrà far pervenire contromemoria alla Commissione entro trenta giorni.
La decisione sulla questione dovrà essere presa entro i successivi trenta giorni ed avrà valore di “interpretazione congiunta delle parti” (art. 1.2 CCNL Chimici).
Nello stesso Contratto si prevede, inoltre, che “Nessuna delle due parti potrà adire l’Autorità giudiziaria o ricorrere a forme di autotutela prima che sia conclusa la procedura […]” (art. 1.2 sub b).
Dalla sfera di competenze delle Commissioni paritetiche sono escluse, purché non relative a interpretazioni normative, le controversie riguardanti i licenziamenti e l’applicazione di provvedimenti disciplinari.
Tali organi svolgono altresì funzione consultiva in occasione di rinnovi contrattuali, sottoponendo successivamente le proposte in quella sede formulate alle parti stipulanti per il loro inserimento nel testo contrattuale.
 
Commissioni di conciliazione, Collegi arbitrali, Commissioni Paritetiche, non sono altro che manifestazioni di una univoca volontà legislativa: quella stessa volontà che “da un lato, evitando che l’aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provochi un sovraccarico dell’apparato giudiziario, con conseguenti difficoltà per il suo funzionamento; dall’altro, favorendo la composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguito attraverso il processo” (Corte Cost. 6 – 13 luglio 2000, n. 276), tenta di dare attuazione al precetto costituzionale contenuto all’art. 24.
 
Una serie di strumenti che, tuttavia, non hanno conseguito, finora, le prefissate finalità deflattive, atteso il crescente ricorso all’Autorità giudiziaria.

Redazione

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