Spetta alla Corte d’appello conoscere delle controversie in tema di intese restrittive della concorrenza nel settore della RCA

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E’ quanto ha statuito il Tribunale di Lecce, con la sentenza in commento decidendo l’appello proposto da una compagnia di assicurazioni avverso la sentenza con cui il GdP di Lecce aveva condannato la compagnia medesima alla restituzione dell’indebite somme riscosse a titolo di premi assicurativi, grazie alle intese restrittive della concorrenza tra 17 compagnie, che avevano determinato l’ingiustificato aumento dei premi.
In particolare, per il Giudice adito, poichè le sentenze del Giudice di pace ancorchè emesse secondo equità sono soggette al rispetto delle norme di rito tra le quali quelle che attengono alla competenza del giudice (Cassazione 10486/2001 ex multis) e dei principi informatori della materia (Cassazione 743/2005) quali nella specie quelli che definiscono l’intesa vietata e la sua struttura e rispetto a questa, le posizioni dei terzi, deve rilevarsi come la competenza a conoscere della causa, sia della Corte d’appello.
 
 
Avv. ****************
 
REPUBBLICA ITALIANA
 
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
Il Tribunale di Lecce, 2 sezione civile, decidendo in composizione monocratica, nella persona della dott.ssa *****************
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa d’appello iscritta al n° 3736/2005 del molo generale A.C. promossa avverso la sentenza n°2215/04 emessa in data 9/11/04 dal Giudice di Pace di Lecce
DA
TORO ASSICURAZIONI SPA, in persona del legale rappresentante pro­tempore, rappresentata e difesa dall’ Avv.to Vittorio Russi, come da mandato in atti;
APPELLANTE
 
CONTRO
 
…………, rappresentato e difeso dagli *********************** e *****************, come da mandato in atti;
 
APPELLATO
 
Alla udienza del 12/2/09 sono comparsi i procuratori delle parti, i quali hanno precisato le conclusioni, come in atti, ed hanno discusso oralmente la causa ai sensi dell’ art. 281 sexies c.p.c..
 
IL GI
Pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo e delle seguenti ragioni di fatto e di diritto della decisione
 
FATTO E DIRITTO
La Compagnia assicuratrice TORO ASSICURAZIOM Spa, in persona del legale rappresentante pro-tempore, con atto di citazione del 4/7/05, appellava la sentenza n° 2215/04 con cui il Giudice di Pace di Lecce – accogliendo la domanda con cui il sig. ……. aveva chiesto la condanna della Toro Assicurazioni alla restituzione della somma di €. 481,54 in quanto somma non dovuta a titolo di premio R.C.A. perché pretesa a titolo di aumento imposto agli assicurati all’interno degli accordi di cartello illegittimamente intercorsi con le altre 17 maggiori compagnie di assicurazione – l’aveva condannata alla rifrisione in favore del sig. ******* della somma di €.322,89 e delle spese processuali.
La società appellante deduceva, in via pregiudiziale, l’erroneo rigetto, da parte del giudice di primo grado, dell’eccezione di incompetenza per materia sollevata dalla compagnia assicuratrice in primo grado, alla luce della previsione normativa di cui all’art. 33 della legge antitrust n. 287 del 1990.
Instauratosi il contraddittorio, si costituiva l’appellato chiedendo il rigetto dell’ avverso gravame con vittoria di spese e competenze del presente grado.
Senza che venisse ammessa alcuna attività istruttoria, all’udienza del 17/4/08, in sede di discussione orale della causa, le parti si sono riportate ai propri scritti come in atti.
 
FATTO E DIRITTO
L’appello è fondato e va, pertanto, accolto.
E’ noto il pronunciamento a Sezioni Unite della 5 C, intervenuta a dirimere il contrasto giurisprudenziale verificatosi al riguardo tra le Sezioni prima e terza, per cui è stato stabilito non solo che "il consumatore che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per effetto di una collusione a monte lesiva della struttura concorrenziale del mercato, posta in essere dagli imprenditori aderenti al cartello, ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli autori della collusione, l’azione di nullità e di risarcimento del danno prevista dall’art. 33 della legge antitrust n. 287 del 1990 ma in particolare che " la competenza per materia a conoscere della relativa controversia appartiene, in. unica grado, alla corte d’Appello (Cass.Sez.Un. 2207/2005).
La 1. 287/1990, come è noto ha rappresentato una novità nel panorama nazionale che, pur della vigenza del Trattato Ce. ha tuttavia imperniato sulla logica codicistica della concorrenza sleale, e dunque, sulla tutela dell’imprenditore dalla attività scorretta del concorrente.
Infatti benché anche la tutela suddetta si sia evoluta nella interpretazione della dottrina e dei giudici facendo si che si attenuasse fortemente l’impronta deontologica e corporativa e si prendesse atto della nozione costituzionale del mercato come luogo della libertà di impresa che attribuisce un rilievo pubblico anche al conflitto interindividuale (Cassazione 11859/1997), essa conserva il carattere fondamentale di strumento di tutela del corretto rapporto di concorrenza. La normativa che difende l’imprenditore dalla concorrenza sleale, dunque, ancorché la si possa ritenere consapevole della dimensione necessariamente concorrenziale del mercato, provvede pur sempre alla riparazione dello squilibrio che ad uno specifico rapporto di concorrenza viene cagionato dalla scorrettezza di un concorrente.
La novità del Trattato CE è stata l’introduzione della tutela della struttura e della logica competitiva del mercato. Questo in quanto luogo nel quale si esplicita la pretesa di autoaffermazione economica della persona attraverso l’esercizio della imprese, e perciò stesso luogo della competizione, cosicché ogni comportamento di mercato che riduce tale competitività perché diminuisce la possibilità per chiunque di esercitare liberamente la propria pretesa di autoaffermazione, è illecito. In particolare, poiché l’esercizio della concorrenza presuppone l’autonomia delle imprese concorrenti nell’esercizio delle rispettive scelte di mercato, è illecito ogni fatto che porta a ridurre questa autonomia, assimilando o avvicinando i comportamenti di mercato all’esecuzione di accordi antecedenti ovvero comunque conformandoli oggettivamente ad un certo grado di collaborazione che sostituisce o riduce la competizione.
Detta affermazione merita qualche ulteriore considerazione. L’art. 2 della legge antitrust chiarisce che "sono considerati intese" una serie di comportamenti, come gli accordi, le pratiche concordate ed addirittura le deliberazioni di consorzi ed associazioni di imprese. Essi sono vietati se hanno "per oggetto o per effetto di ridurre o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza…". Pertanto se al di là della loro veste giuridico formale, tali attività in realtà mirano ad eliminare ovvero addirittura eliminano o riducono la autonomia di mercato dei soggetti che le compiono, esse integrano l’illecito di cui si tratta. La norma si conclude, al n. 3, con la perentoria statuizione: "le intese vietate sono nulle ad ogni effetto". L’elencazione del n. 2 dell’art. 2 in parola, considerata esemplificativa, sorregge la lettura della norma innanzi anticipata giacché consente all’interprete di delineare i tipi dei comportamenti anticompetitivi. Le fattispecie elencate e cioè la fissazione diretta o indiretta dei prezzi di acquisto o di vendita ovvero di altre condizioni contrattuali. L’impedimento e la limitazione della produzione o dello sbocco o dell’accesso al mercato, l’impedimento degli investimenti e dello sviluppo tecnico delle imprese, tutte le forme di ripartizione dei mercati o delle fonti di approvvigionamento, l’applicazione di condizioni ingiustificatamente diverse a categorie di imprenditori omogenee, l’imposizione nei contratti con i concorrenti di prestazioni prive di relazione con la natura del rapporto, sono classici comportamenti anticompetitivi. La loro finzione è di sostituire all’esercizio individuale e perciò stesso libero del potere di impresa, un potere esercitato collettivamente estraneo alle forme societarie nelle quali si esercita l’impresa collettiva ed esente dai controlli che la legge in proposito prevede. Tali pratiche rafforzano la posizione dei loro autori riducendo l’efficacia della concorrenza da parte degli esclusi ed eliminando quella tra i partecipi.
Va osservato ancora che la 1. 287/1990, la quale ai sensi della prima parte dell’art. 1 deve essere letta come attuazione dell’art. 41 Cost., deve peraltro essere interpretata in base ai principi dell’ordinamento comunitario. Pertanto in armonia con la norma del Trattato (vedi quanto alla cosiddetta regola de minimis nel diritto comunitario della concorrenza causa ****** n. 40/70, sentenza 18 febbraio 1971, e causa **** n. 5/69, sentenza 9 luglio 1969) essa fa rilevare una dimensione quantitativa della intesa traducendola in carattere della stessa. La legge vieta le intese che abbiano per effetto o per oggetto di impedire, restringere o falsare "in maniera consistente" il gioco della concorrenza "all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante". La norma ripete quasi letteralmente il tenore dell’art. 81 del Trattato, salvo che per la norma comunitaria la rilevanza quantitativa è data ovviamente dall’ambito comunitario. Ma ciò che conta rispetto al problema che ne occupa è il rilievo dimensionale della fattispecie, che si spiega con il fatto che oggetto della tutela della 1. 287/1990, come già del Trattato, è appunto la struttura concorrenziale del mercato di riferimento, la quale ragionevolmente non viene messa in discussione ‘da un comportamento che per quanto ontologicamente rispondente alla fattispecie di cui si tratta, per la sua dimensione, non incide significativamente sull’assetto che trova. In defmitiva, poiché, …, la legge non si occupa dell’intesa tra i barbieri di piccolo paese, il dato quantitativo conferma che oggetto immediato della tutela della legge non è il pregiudizio del concorrente aneorché questo possa essere riparato dalla repressione della intesa (cfr. quanto al pregiudizio al commercio comunitario, presupposto di applicabilità dell’art. 81, causa Grundig 58/64, sex4enza 13luglio 1966, e causa Montecatini, C 235/92, sentenza 8 luglio 1999, ex multis), bensì un più generale bene giuridico. Tuttavia tale più ampia tutela accordata dalla legge nazionale antitrust, in armonia con il Trattato, non ignora la plurioffensività possibile del comportamento di vietato (cfr. Cassazione 827/1999). Un’intesa vietata può ledere anche il patrimonio del singolo, concorrente o meno dell’autore o degli autori della intesa. Ciò spiega che la!. 287/1990 all’art. 33, che contiene tanto una norma di giurisdizione, una norma di competenza, si preoccupi con quest’ultima di individuare anche il giudice dell’accertamento della nullità, che è il presupposto della eliminazione del pregiudizio in una prospettiva esplicitamente risarcitoria. La legge infatti mentre affida al Giudice amministrativo (TAR del Lazio) la giurisdizione sulle impugnative avverso le deliberazioni della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, stabilisce pure che "Le azioni di nullità e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione, delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV sono promossi davanti alla Corte d’appello competente per territorio". Alla Corte d’appello, dunque, deve rivolgersi chi allega il comportamento di mercato tenuto da un imprenditore tale da ledere la struttura concorrenziale del medesimo, e dunque ne chieda la dichiarazione di nullità presupposto dell’eventuale risarcimento (Cassazione 827/1999).
La diversità di ambito e di finzione tra la tutela codicistica della concorrenza sleale e quella innanzi detta della legge antitrust esclude si possa negare la legittimazione alla azione davanti al Giudice ordinario ai sensi dell’art. 33, n. 2, della 1. 287/1990, al consumatore, terzo estraneo alla intesa. Contrariamente a quanto ritenuto da Cassazione 17475/2002, la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione ditale carattere. Pare opportuno notare peraltro che mentre siffatta esclusione della legittimazione in parola non è prevista espressamente dalla legge, questa peraltro, all’art. 4, laddove prevede il potere discrezionale della Agcm di autorizzare un’ intesa che possiede i caratteri che giustificherebbero il divieto, indica tra i presupposti della discrezionalità che fonda "il beneficio del consumatore".
La legge dunque non ignora, nella materia della intesa, l’interesse del consumatore al punto da prevedere una ipotesi in cui esso,alla cui tutela la ideologia antitrust è funzionale, può essere tutelato per un "periodo limitato" addirittura da un allentamento del divieto del più classico comportamento anticoncorrenziale. Il consumatore, che è l’acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene. Pertanto la funzione illecita di una intesa si realizza per l’appunto con la sostituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente. E ciò quale che sia lo strumento che conclude tale percorso illecito. A detto strumento non si può attribuire un rilievo ‘giuridico diverso da quello della intesa che va a strutturare, giacché il suo collegamento funzionale con la volontà anticompetitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile. Va detto pure, atteso il rilievo interpretativo dei principi dell’ordinamento comunitario nella materia, che la sentenza della Corte di Giustizia, Courage, (453/1999) tende ad ampliare l’ambito dei soggetti tutelati dalla normativa sulla concorrenza, in una prospettiva, che valorizza proprio le azioni risarcitorie, quali mezzi capaci di mantenere effettività alla struttura competitiva del mercato. Nella delineata prospettiva dunque il contratto cosiddetto "a valle" costituisce lo sbocco della intesa, essenziale a realizzarne gli effetti. Esso in realtà, oltre ad estrinsecarla, la attua. E’ ben vero, come si fa rilevare in atti, che la legge vieta anche le intese che abbiano anche solo per "oggetto" la distorsione di cui si tratta, oltre che per "effetto", ma ciò si spiega in considerazione del doppio livello di intervento che essa prevede, quello amministrativo della Agcm e quello riparatorio di cui alla azione di nullità e risarcimento. L’autorità garante è organo di amministrazione, ancorché caratterizzato da ampiezza di poteri sui generis. Essa opera anche in vista dì un pericolo, e dunque in considerazione della esigenza economica di prevenire l’effetto distorsivo del fenomeno di mercato. Il giudice, che dirime controversie e non si occupa di fenomeno, può essere officiato solo in presenza o m vista almeno di un pregiudizio. Dunque innanzi alla Corte d’appello deve essere allegata un’intesa di cui si chiede la dichiarazione di nullità, ed altresì il suo effetto pregiudizievole, il quale rappresenta l’interesse ad agire dell’attore secondo i principi del processo, da togliere attraverso il risarcimento. Il contratto cosiddetto "a valle", ovvero il prodotto offerto al mercato, del quale si allega, come nel caso di specie, la omologazione agli altri consimili prodotti offerti nello stesso mercato, è tale da eludere la possibilità di scelta da particolare del consumatore. La realizzazione consapevole di siffatta situazione rientra in modo strutturale nel comportamento oggettivo di mercato che giustifica la azione individuale di cui all’art. 33. Pertanto la previsione del risarcimento del danno sarebbe meramente retorica se si dovesse ignorare, considerandolo circostanza negoziale distinta dalla "cospirazione anticompetitiva" e come tale estranea al carattere illecito di questa, proprio lo strumento attraverso il quale i partecipi alla intesa realizzano il vantaggio che la legge intende inibire. Se un’intesa fosse ancora luogo nelle intenzioni dei partecipi e non avesse dato ancora ad alcun effetto, mentre vi sarebbe spazio, a parte la difficoltà dell’indagine, per la proibizione e la sanzione da parte di Agcm, giacché la legge, giova rammentare, vieta gli accordi che abbiano per oggetto oltre che per effetto la distorsione della concorrenza, non vi sarebbe interesse da parte di alcuno ad una dichiarazione di nullità ai sensi dell’art. 33 della 1. 287/1990, la cui ratio è di togliere alla volontà anticoncorrenziale "a monte" ogni finzione di copertura formale dei comportamenti "a valle". E dunque di impedire il conseguimento del frutto della intesa consentendo anche nella prospettiva risarcitoria la eliminazione dei suoi affetti. Non conduce a conclusione diversa nemmeno la considerazione della fattispecie restitutoria di cui all’art. 2033 cc. Come è noto essa si distingue dalla fattispecie risarcitoria di cui all’art. 2043 c.c. per l’assenza di qualunque profilo di colpa o dolo nell’accipiens (Cassazione 3060/1984).
Orbene, una parte che chiede dichiararsi la nullità di una intesa, allega un fatto illecito nella cui struttura vi è l’elemento psicologico del dolo o della colpa. Pertanto, quale che sia la forma della domanda di ripristino della situazione patrimoniale che si assume lesa, essa prescinde dalla fattispecie di indebito oggettivo. Quegli che chiede la restituzione di ciò che ritiene di avere pagato in esecuzione di un negozio concluso per effetto della intesa nulla, allega pur sempre quest’ultima e l’impossibilità giuridica che essa produca effetti. Ha ritenuto pertanto la Corte, poiché la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente il danno ingiusto ex art. 2043 cc. (Sezioni unite, 500/l999) che colui che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione a monte, ancorché non sia partecipe ad un rapporto di concorrenza con gli autori della collusione, ha a propria disposizione, l’azione di cui all’art. 33 della 1. 287/1990. Cosicché, a qualificare la domanda ed a determinare la competenza nel caso che ne occupa è la richiesta di accertamento di una intesa e quindi di dichiararla nulla presupposto della domanda di eliminarne gli effetti anche attraverso l’eliminazione del sovrapprezzo.
Pertanto, poichè le sentenze del Giudice di pace ancorchè emesse secondo equità sono soggette al rispetto delle norme di rito tra le quali quelle che attengono alla competenza del giudice (Cassazione 10486/2001 ex multis) e dei principi informatori della materia (Cassazione 743/2005) quali nella specie quelli che definiscono l’intesa vietata e la sua struttura e rispetto a questa, le posizioni dei terzi, deve rilevarsi come la competenza a conoscere della causa, sia della Corte d’appello.
Va pertanto accolto: l’appello ed, in riforma dell’ impugnata sentenza, va dichiarata la competenza della Corte d’appello di Lecce.
Ricorrono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
 
P.Q.M.
Il Tribunale, pronunciando definitivamente sulla domanda proposta da Toro Assicurazioni SPA, con atto del 4/7/05, nei confronti di …………, cosi provvede:
     accoglie l’appello ed, in riforma dell’ impugnata sentenza, dichiara la competenza della Corte d’appello di Lecce.
     compensa tra le parti, le spese del doppio grado di giudizio.
Lecce 12/2/09

Matranga Alfredo

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