Sospensione condizionale della pena e diritto all’oblio

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La sospensione condizionale della pena implica la legittimità per il condannato ad esercitare il diritto all’oblio sul web. 

>>>Leggi il provvedimento n. 258 del 21 luglio 2022<<<

    Indice

  1. I fatti
  2. La difesa di Google
  3. La decisione del Garante

1. I fatti

Un soggetto che era stato condannato nel corso del 2021 chiedeva al Garante per la protezione dei dati personali la deindicizzazione, dai risultati di ricerca forniti da Google in associazione al suo nome e cognome, di 20 URL che rinviavano a degli articoli giornalistici, pubblicati tra il 2019 e il 2020, nei quali si dava conto del coinvolgimento di quest’ ultimo, quale assistente di un europarlamentare, in una indagine relativa ad una presunta truffa aggravata all’unione europea.

In particolare, il reclamante riferiva al Garante che tra la fine del 2019 e il 2020 alcune testate giornalistiche avevano diffuso la notizia di una indagine penale relativa ad una presunta truffa realizzata da un europarlamentare nei confronti dell’Unione Europea, in concorso con terzi, e che lo stesso reclamante risultava coinvolto nel suddetto procedimento penale.

Tale notizia era stata ripresa anche da numerose testate giornalistiche on line e da siti web e blog che indicavano il reclamante quale indagato nel procedimento.

Tuttavia, nel giugno del 2021, il reclamante aveva definito il procedimento penale mediante “patteggiamento”, che era stato ratificato con la sentenza con cui lo stesso era stato condannato a 11 mesi di reclusione con sospensione condizionale della pena. Il patteggiamento ha permesso inoltre al reclamante di ottenere il beneficio della non menzione del procedimento nel casellario giudiziale e pertanto al momento del reclamo l’interessato non presentava alcun carico pendente rispetto alla vicenda descritta nelle pagine web oggetto del reclamo (né per altre vicende giudiziarie).

Dato atto di ciò, il reclamante evidenziava, da una parte, di essere, al momento di presentazione del reclamo, un professionista del settore della pubblicità e della comunicazione digitale nonché amministratore delegato di una società di servizi di marketing e di non aver mari rivestito alcun tipo di incarico pubblico elettivo. In secondo luogo, evidenziava che i fatti descritti nei siti web che rimandavano all’indagine penale erano risalenti al 2014.

In considerazione di quanto sopra, il reclamante riteneva che continuare a diffondere la notizia del suo coinvolgimento nella vicenda penale non era giustificata da alcun interesse pubblico e che tutte le informazioni ivi reperibili erano obsolete e non attuali. Pertanto, dette informazioni, oltre ad essere trattate in violazione al principio di attualità ed esattezza dei dati, erano lesivi della sua immagine e delle sue libertà, nella misura in cui avrebbero potuto alimentare i database di profilazione reputazionale impiegati da istituti finanziari e di credito, società, studi professionali e uffici governativi per avere informazioni su specifici soggetti con cui vogliono instaurare rapporti professionali.

Il Garante provvedeva quindi ad avviare il procedimento ed a richiedere a Google la propria disponibilità a rimuovere gli URL contestati, dai risultati di ricerca restituiti dal motore di ricerca in associazione al nome e cognome del reclamante, nonché a fornire le proprie osservazioni in ordine alla suddetta richiesta di rimozione.


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2. La difesa di Google

Nonostante il reclamo presentato dall’interessato, Google ha risposto al Garante di ritenere che non fosse possibile accogliere la richiesta di deindicizzazione.

In primo luogo, Google ha ritenuto che non fosse trascorso un periodo di tempo sufficiente per ritenere non più attuale la notizia. Infatti, secondo la società americana sono passati soltanto due anni dalla pubblicazione degli articoli contestati e quindi ciò dimostra che sussiste ancora un interesse del pubblico a reperire la notizia; ciò anche in considerazione del fatto che la condanna del reclamante è avvenuta soltanto nel giugno del 2021.

In secondo luogo, Google ha rilevato che si tratta di un reato particolarmente grave ed in cui i fatti che stanno alla base, cioè l’aver perpetrato una truffa ai danni dell’ UE tramite finte assunzioni volte a percepire i fondi destinati a coprire gli stipendi degli assunti per poi usarli per scopi personali, sono stati confermati come veri dal reclamante e della sua condanna. Infatti, la stessa condanna del reclamante, anche se a seguito di patteggiamento, esclude la sussistenza del diritto all’oblio, anche in considerazione del fatto che al momento in cui Google ha fornito la propria risposta non era neanche spirato il termine previsto per la sospensione condizionale della pena.

In terzo luogo, Google ha rilevato che il diritto all’oblio per reati gravi non sussisterebbe, mentre troverebbe applicazione solo per reati minori.

Infine, la società americana ha evidenziato come la condanna ha riguardato un reato commesso nell’esercizio dell’attività professionale del reclamante e pertanto, secondo le linee guida WP29, il soggetto coinvolto svolgerebbe un ruolo pubblico in ragione della professione svolta.

3. La decisione del Garante

Il Garante ha valutato che le osservazioni di Google non fossero accoglibili e che invece dovesse trovare applicazione il diritto all’oblio dell’interessato.

In particolare, secondo il Garante la vicenda giudiziaria in cui è stato coinvolto l’interessato, anche se è avvenuta in tempi recenti, tuttavia si è conclusa attraverso una condanna (a 11 mesi di reclusione) con beneficio della sospensione condizionale della pena. Tale tipologia di misura, cioè la sospensione condizionale della pena, oltre a permettere al reo di non scontare la pena, esclude l’iscrizione del provvedimento nel certificato del casellario giudiziale per il caso in cui la pena applicata non sia superiore a due anni.

Ebbene, secondo il Garante, nel caso in cui si permettesse al gestore del motore di ricerca di pagine web di rendere reperibili sul web, anche successivamente al provvedimento di sospensione e di non menzione nel casellario giudiziale, le pagine e gli articoli che riferiscono del coinvolgimento dell’interessato nella vicenda penale, di fatto si renderebbe vano il beneficio riconosciuto al reo dall’ordinamento e finalizzato a limitare la conoscibilità della sua condanna. In altri termini, posto che l’obiettivo della non menzione della condanna nel certificato del casellario è quella di evitare che soggetti terzi possano acquisire conoscenza del dato giudiziario relativo alla condanna del soggetto, qualora questo dato fosse comunque reperibile sul web mediante la consultazione delle pagine che trattano della vicenda, di fatto il soggetto verrebbe danneggiato e non otterrebbe alcun vantaggio dal provvedimento di non menzione.

In considerazione di quanto sopra, il Garante ha ritenuto fondato il reclamo e ha ordinato a Google di rimuovere dai risultati di ricerca delle pagine web associate al nominativo del reclamante gli URL in questione.

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