Tribunale Civile Ferrara 17/10/2008 n. 1549

Redazione 17/10/08
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazioni ritualmente notificate, la dott.ssa X conveniva in giudizio, avanti al Tribunale di Ferrara, la s.r.l. Casa di cura (omissis) e il dott. Y esponendo di essere stata sottoposta da quest’ultimo, presso la Casa di cura convenuta, ad interventi di chirurgia refrattiva ad entrambi gli occhi (a quello sinistro il 4/12/98 ed a quello destro il 15/1/99) per correggere il vizio miopico di cui era affetta;

affermava che, all’esito di tali interventi, aveva lamentato diplopia, visione confusa, distorsione delle immagini e abbagliamento fissando una sorgente luminosa;

asseriva che i disturbi erano dovuti al decentramento del trattamento chirurgico e sosteneva che, nonostante un ulteriore intervento eseguito dal convenuto in altra Casa di cura, attualmente presentava un’ipercorrezione nell’occhio destro di circa il 15% e una regressione nell’occhio sinistro di circa il 40%;

evidenziava, quindi, che, nonostante le operazioni effettuate dal dott. Y, non aveva ridotto il potere degli occhiali, ma anzi era costretta ad usarne due, uno per vedere da vicino e l’altro da lontano, con un danno biologico quantificato nel 15% e con riflessi negativi sulla capacità lavorativa specifica di psicologa;

per questo adiva le vie giudiziali e qui concludeva chiedendo al Tribunale di condannare i convenuti al risarcimento dei danni da lei subiti, quantificati nella misura complessiva di EURO 36.855,79, o nella diversa somma risultata di giustizia, oltre interessi legali, vinte le spese di lite.

Instaurato il contraddittorio, si costituiva la convenuta s.r.l. Casa di cura (omissis) contestando la domanda proposta nei suoi confronti: esponeva, infatti, che nessuna responsabilità poteva a lei addebitarsi per i danni lamentati dall’attrice, i quali, se esistenti, erano ascrivibili a fatto e colpa esclusivi del dott. Y;

contestava, comunque, anche il "quantum" richiesto dalla controparte perché eccessivo;

per questo concludeva chiedendo in via principale il rigetto della domanda attorea perché infondata in fatto e in diritto; in via subordinata, in caso di accoglimento della richiesta risarcitoria, chiedeva la condanna del dott. Y a garantirla e tenerla indenne dalle conseguenze di tale accoglimento, con vittoria di spese, competenze ed onorari.

Si costituiva anche il dott. Y sostenendo che l’attrice, prima dei suoi interventi, presentava forte miopia ad entrambi gli occhi, con antimetropia, essendo un occhio differente dall’altro;

precisava che per migliorare la condizione della sua paziente, non essendo la correzione apportata dagli occhiali ottimale, gli interventi di chirurgia refrattiva rappresentavano la soluzione più adeguata;

asseriva che, eseguiti gli interventi, l’operazione all’occhio sinistro era perfettamente riuscita, poiché erano state eliminate sia la miopia che l’astigmatismo, mentre l’occhio destro presentava una ipercorrezione, che determinava un’ipermetropia ed un astigmatismo e per questo fu effettuato un ulteriore intervento, dopo il quale si manifestò una regressione miopica, evento possibile contemplato dalla casistica e correggibile con normali "presidi ottici";

sosteneva, quindi, che la complicanza verificatasi all’esito dell’operazione all’occhio destro da lui effettuata presso la Casa di cura (omissis) era addebitabile alla strumentazione messa a sua disposizione;

aggiungeva che le operazioni erano state eseguite nel pieno rispetto delle norme tecniche e della diligenza professionale, negando qualsivoglia negligenza, imprudenza o imperizia e richiamando comunque il disposto di cui all’art.2236 c.c.;

asseriva che, rispetto alla situazione patologica iniziale, il risultato degli interventi era positivo, poiché la paziente aveva recuperato i 10/10 nell’occhio sinistro e aveva recuperato gran parte della vista nell’occhio destro;

contestava, comunque, anche il "quantum" richiesto dalla controparte perché eccessivo;

concludeva, dunque, chiedendo il rigetto della domanda dell’attrice, o, in via subordinata, la condanna della sola s.r.l. Casa di cura (omissis), vinte le spese di lite.

La causa era, quindi, istruita con prove orali, documentali e due consulenze tecniche; infine, precisate le conclusioni all’udienza del 12/4/08, il Tribunale tratteneva la causa in decisione, decorsi i termini per la conclusionale e le repliche.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Come è noto, l’accettazione del paziente in una struttura sanitaria (pubblica o privata) comporta la conclusione di un contratto d’opera professionale tra lo stesso e l’ente, il quale assume a proprio carico l’obbligazione di svolgere (eventualmente l’attività diagnostica e) l’attività terapeutica in relazione alla specifica situazione patologica del paziente preso in cura: pertanto la responsabilità di un ente sanitario per i danni causati a un paziente dalle prestazioni mediche dei sanitari (anche non dipendenti) è di natura "contrattuale" (giurisprudenza ormai pacifica; tra le più recenti: Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 24759 del 28/11/2007).

Con specifico riferimento a una Casa di Cura privata in caso di prestazione medico / professionale svolta da sanitario in assenza di un rapporto di lavoro subordinato:

Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 13066 del 14/07/2004

Il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura privata (o ente ospedaliero) ha fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo "lato sensu" alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale, e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ., all’inadempimento della prestazione medico / professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto.

Naturalmente analoga natura "contrattuale" ha il rapporto che si instaura tra il paziente e il professionista che esegue un qualsivoglia intervento medico.

In particolare la Suprema Corte (Sez. 3, Sentenza n. 10297 del 28/05/2004; Sez. 3, Sentenza n. 13066 del 14/07/2004) ha precisato che, nel settore chirurgico-sanitario, se il risultato conseguito all’esito dell’intervento operatorio o delle cure fornite sia peggiorativo delle condizioni finali del paziente, quest’ultimo adempie l’onere probatorio a suo carico provando il risultato peggiorativo, dovendosi presumere l’inadeguata o non diligente esecuzione della prestazione professionale del personale sanitario;

spetta, poi, alla struttura sanitaria e al medico fornire la prova contraria, cioè che la prestazione professionale è stata eseguita idoneamente e l’esito peggiorativo è stato causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile oppure dall’esistenza di una particolare condizione fisica del cliente, non accertabile con il criterio della ordinaria diligenza professionale.

Di conseguenza, in tema di responsabilità della struttura medica e del medico per inesatto adempimento della prestazione sanitaria, a carico del danneggiato è:

la prova dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie);

a carico della struttura e del medico è:

la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile, a loro non addebitabile (tra le più recenti sentenze in materia: Cass. civ., Sez. 2, Sentenza n. 17306 del 31/07/2006; Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 9085 del 19/04/2006).

Tali principi sono fondati su quanto enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento.

Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio, del tutto condivisibile, secondo cui il creditore che agisce per il risarcimento del danno deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento. Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento.

Applicando questi principi all’onere della prova nelle cause di responsabilità civile nell’attività medica, il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario o della struttura sanitaria, restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento: in particolare, consistendo l’obbligazione professionale in un’obbligazione di mezzi, il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento o delle cure ricevute, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.

E’ opportuno sottolineare che porre a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova dell’esatto adempimento della prestazione medica soddisfa il c.d. "principio della vicinanza della prova", inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla.

Infatti, nell’obbligazione di "mezzi" il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell’inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione: in queste obbligazioni, in cui l’oggetto è l’attività, l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione della prestazione, cosicché non vi è dubbio che la prova sia "vicina" a chi ha eseguito la prestazione, tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell’inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto.

Va osservato, ancora, che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva quale criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma dovrà essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà (su quest’ultima circostanza: Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 11488 del 21/06/2004).

I suddetti principi sono stati recentemente ribaditi ancora una volta dalle Sezioni Unite (che ha in particolare chiarito quale sia l’onere probatorio in tema di nesso di causalità). Infatti:

Cass. civ., Sez. Unite, Sentenza n. 577 del 11/01/2008

In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (nella specie la S.C. ha cassato la sentenza di merito che,- in relazione ad una domanda risarcitoria avanzata da un paziente nei confronti di una casa di cura privata per aver contratto l’epatite C asseritamente a causa di trasfusioni con sangue infetto praticate a seguito di un intervento chirurgico -, aveva posto a carico del paziente l’onere di provare che al momento del ricovero egli non fosse già affetto da epatite).

Dunque non è il paziente che deve provare l’esistenza del nesso causale tra l’evento peggiorativo e la prestazione sanitaria, ma è il medico (o la struttura sanitaria) a dover provare l’inesistenza del nesso causale tra il peggioramento (o la nuova patologia) e la prestazione medica.

Ciò chiarito in diritto, nel caso di specie pacificamente l’attrice, affetta da grave miopia ad entrambi gli occhi, è stata sottoposta a due distinti interventi presso la Casa di cura (omissis) ad opera del convenuto dott. Y al fine di eliminare il difetto miopico: dunque tra le parti è sorto un contratto in forza del quale la struttura sanitaria e il dott. Y hanno assunto l’obbligazione di svolgere l’attività terapeutica richiesta in relazione alla specifica situazione patologica della dott.ssa X, vale a dire forte miopia ad entrambi gli occhi.

In considerazione di quanto prospettato dalle parti, e considerati i principi giuridici sopra esposti, è stata disposta una C.T.U. diretta a stabilire se lo stato di salute dell’attrice, all’esito degli interventi effettuati dal dott. Y presso la Casa di cura (omissis), sia peggiorato e, in caso positivo, quantificare l’entità di tale peggioramento e l’esistenza del nesso causale tra il peggioramento e la condotta dei convenuti, evidenziando eventuali negligenze, imprudenze o imperizie.

Il C.T.U. dott. *************** (nominato su indicazione congiunta delle parti effettuata all’udienza del 14/1/2005), all’esito degli accertamenti svolti, ha risposto ai quesiti concludendo che gli interventi eseguiti dal convenuto non hanno causato peggioramenti della situazione visiva, ma al contrario hanno comportato alcuni miglioramenti.

In particolare il C.T.U. afferma che:

il visus naturale è passato da 1/10 a 9/10 nell’occhio destro e 2/10 nell’occhio sinistro;

il visus corretto è passato da 8/10 a 10/10;

la visione binoculare con occhiali idonei è presente, corretta e ben tollerata;

la visione per lontano e quella da vicino sono ottime utilizzando il medesimo paio di occhiali;

vi è un residuo di difetto rifrattivo, accettabile ed entro i limiti di prevedibilità;

vi sono disturbi di qualità visiva (aloni), ma solo occasionali e in particolari situazioni, destinati a ridursi nel tempo;

la condizione è passibile di miglioramento chirurgico.

Le conclusioni del dott. ****** sono state aspramente criticate dalla difesa dell’attrice, il cui C.T.P. ha evidenziato il decentramento (vale a dire un incongruenza tra l’asse visivo ed il centro della zona ottica trattata durante l’operazione) causato all’occhio destro dal dott. Y, ammesso da quest’ultimo, che determina una situazione estremamente disturbante, nonché l’intollerabile antimetropia (ipermetropia in un occhio e miopia nell’altro) di cui è affetta la dott.ssa X, costretta ad usare due diversi paia di occhiali.

In effetti il dott. ****** nella sua relazione (pag.6) attesta che l’attrice presenta una antimetropia dovuta ad ipermetropia lieve nell’occhio destro e miopia leggera nell’occhio sinistro ed afferma che essa quando è di grado elevato, vale a dire maggiore di 3 diottrie circa, può non permettere la tolleranza della correzione.

Secondo il C.T.U. l’attrice ha una antimetropia pari a 3,25 diottrie (e dunque di grado elevato secondo le sue stesse considerazioni), ma essa è tollerata dalla dott.ssa X, secondo quanto è risultato all’esito della visita svolta.

Inoltre il dott. ****** conferma (pag.5) che all’esito del primo intervento eseguito dal dott. Y all’occhio destro, vi fu un problema di "decentramento" che rese necessario un secondo trattamento.

In considerazione della accertata antimetropia di grado elevato cui è affetta l’attrice (antimetropia inesistente prima degli interventi eseguiti dal convenuto), visto il decentramento all’occhio destro causato certamente dal primo intervento effettuato il 15/1/99, valutati gli attuali disturbi accertati dal dott. ******, che sostanzialmente consiglia una nuova operazione, evidenziate le dichiarazioni rese dal dott. Y in sede di interrogatorio formale (la cui rilevanza probatoria è superfluo sottolineare), secondo le quali:

"l’intervento all’occhio destro ha determinato una situazione grave alla dott.ssa X";

"è vero che l’antimetropia crea molto disagio alla qualità della visione della paziente;

"prima degli interventi la sig.ra X non era affetta da antimetropia, bensì anisometropia, vale a dire una differenza di miopia tra i due occhi di circa 3 diotttrie;

è stato nominato un secondo C.T.U. (il dott. *************, questa volta scelto dal Giudice tra i medici-legali iscritti all’albo dei consulenti del Tribunale di Ferrara), al quale sono stati posti i medesimi quesiti.

All’esito degli accertamenti svolti anche in collaborazione con un ausiliario tecnico specialista (dott. *****************), il C.T.U. ha evidenziato (pag.16) che l’attrice, prima degli interventi eseguiti dal convenuto, era affetta da "astigmatismo miopico composto bilaterale con anisometropia" ed attualmente presenta "antimetropia" vale a dire miopia all’occhio sinistro ed ipermetropia all’occhio destro, nonché "aberrazioni visive di ordine elevato" nell’occhio destro, dovute al "decentramento verticale (circa mm.1,5) della zona ottica rispetto a quella pupillare" e ciò in conseguenza degli interventi di chirurgia rifrattiva eseguiti dal convenuto.

Il C.T.U. ha precisato che decentramenti ed aberrazioni sono da considerare come naturale conseguenza della tipologia di intervento cui si è sottoposta l’attrice, ma (pag.17) "Nel caso oggetto di causa […] il decentramento verticale della zona ottica rispetto a quella pupillare risulta […] pari a mm.1,5 (decentramento severo), incompatibile […] con una accettabile qualità della visione, sia pure anche dopo la correzione del difetto rifrattivo mediante utilizzo degli occhiali" e non può considerarsi (pag.18) "come naturale conseguenza ovvero come mera complicanza dell’intervento".

Per questo il C.T.U. ha sostenuto (pag.18) che "è configurabile nell’operato del dott. Y un approccio specialistico censurabile, inquadrabile in condotta imperita, per quanto attiene all’intervento occorso in data 15/1/1999" e ciò anche "qualora l’apparecchiatura avesse presentato problematiche nel dispositivo autocorrettivo (non sussistenti, come già riferito)" ed ha concluso affermando che l’attrice, all’esito degli interventi eseguiti dal convenuto, ha subito un danno biologico in misura del 7-8%, una inabilità temporanea assoluta pari a giorni 1, una inabilità temporanea parziale al 25% pari a giorni 40, escludendo, peraltro, esiti dannosi per la capacità lavorativa specifica di psicologa.

La relazione peritale del dott. ************* appare accurata e ben argomentata ed è, quindi, convincente; inoltre le sue valutazioni appaiono esenti da vizi logici, tecnicamente esatte nonché correttamente e adeguatamente motivate; pertanto, anche tenuto conto delle ammissioni del convenuto in sede di interrogatorio formale, la C.T.U. del dott. ****** deve essere disattesa, mentre quella del dott. ***** deve essere fatta propria dal giudicante.

In sede di comparsa conclusionale la difesa del dott. Y richiama un’eccezione di invalidità della C.T.U. del dott. ***** asseritamente sollevata all’udienza del 12/7/2007 (prima udienza successiva al deposito della relazione), di cui invece non vi è traccia: a tale udienza, infatti, vi è stata una semplice richiesta di termine per deposito di osservazioni alla C.T.U., con conseguente decorrenza del termine perentorio per proporre eccezioni alla validità formale dell’elaborato peritale (giurisprudenza pacifica).

In conclusione, quindi, sulla base delle conclusioni della C.T.U. redatta dal dott. ***** deve affermarsi che la dott.ssa X ha assolto all’onere probatorio a lei spettante (esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto degli interventi eseguiti dal dott. Y presso la Casa di cura (omissis)): di conseguenza, i convenuti, per escludere la propria CONGIUNTA responsabilità, avrebbero dovuto provare che la prestazione professionale è stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi subiti dall’attrice sono stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile a loro non addebitabile.

All’esito dell’istruttoria svolta non è provato in alcun modo né che il peggioramento sia stato conseguente ad un evento imprevisto e imprevedibile, né che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente.

Viceversa, dal quadro probatorio agli atti emerge la prova che la prestazione professionale fornita dal dott. Y, quantomeno in data 15/1/99, è stata "imperita".

Va sottolineato, infine, come nessuno dei due C.T.U. abbia evidenziato, con riferimento alle operazioni effettuate dal dott. Y la presenza di problemi tecnici di speciale difficoltà, di cui comunque i convenuti non hanno fornito prova alcuna.

In conclusione, pertanto, deve accogliersi la domanda risarcitoria proposta da ********** nei confronti di entrambi i convenuti perché fondata in fatto e in diritto.

Per quel che concerne la conversione del danno in termini monetari, nella valutazione del risarcimento del danno biologico, da intendersi come lesione della integrità psicofisica, appare preferibile procedere con il criterio "a punto", che consente di indennizzare il "valore umano" leso nella sua integrità, a prescindere da ogni considerazione di ordine economico e produttivo e valutando invece la gravità delle lesioni, gli eventuali postumi permanenti, l’età: in tal senso è da tempo orientata la giurisprudenza della Suprema Corte.

A questo fine si ritiene condivisibile la modulazione del danno suggerito dal Tribunale di Milano, con la elaborazione delle note tabelle (l’ultima delle quali è del 2007), che tengono conto della naturale evoluzione della vita umana e del maggiore peso che ogni punto invalidante assume, con l’incremento della invalidità, così commisurando il risarcimento a questi due elementi.

Il conteggio così effettuato quantifica, alla data del fatto (gennaio 1999), in EURO 10.341,50 il risarcimento del danno alla salute spettante ad una persona dell’età di ********** (anni 28 al momento delle operazioni), per una invalidità permanente di 7-8 punti; (il calcolo è il seguente, secondo la più recente tabella milanese: 7,5 x 1.594,065 x 0,865);

a tale somma debbono aggiungersi, a titolo di invalidità temporanea totale e parziale, ulteriori EURO 660,00 (vale a dire EURO 60 x 1 giorni + EURO 15 x 40 giorni), cosicché il danno biologico si determina, alla data del fatto, in EURO 11.001,50.

Si riconosce poi, a titolo di danno morale, la somma di EURO 5.498,50, vale a dire praticamente la metà del danno biologico complessivo, per un totale di EURO 16.500,00.

Dunque devono condannarsi i convenuti, in solido fra loro, al pagamento in favore dell’attrice dell’importo complessivo di EURO 16.500,00.

Trattandosi di un debito di valore e non di valuta occorre stabilire se disporre il pagamento degli interessi e la liquidazione della rivalutazione monetaria.

Com’è noto, la costante ed ormai consolidata giurisprudenza della Suprema Corte afferma che nella liquidazione del credito di valore sulla somma riconosciuta possono calcolarsi sia la svalutazione, sia gli interessi con la medesima decorrenza, perché la prima ha la funzione di ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato antecedentemente alla consumazione dell’illecito; i secondi invece hanno una funzione compensativa.

Anche la sentenza delle Sezioni Unite n. 01712 del 17/02/1995, ammette la rivalutazione monetaria e la liquidazione di interessi compensativi, da determinarsi caso per caso, affermando:

Qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata "per equivalente", con riferimento, cioè, al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva (anche se adottata in sede di rinvio), è dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno, che questi provi essergli stato provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma. Tale prova può essere offerta dalla parte e riconosciuta dal giudice mediante criteri presuntivi ed equitativi, quale l’attribuzione degli interessi, ad un tasso stabilito valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive del caso.

Più recentemente: Cass. civ., Sez. 3, Sent. n. 18490 del 25/08/2006

Qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata con riferimento al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva è dovuto al danneggiato anche il risarcimento riconducibile al mancato guadagno che questi provi essergli stato provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma. Tale prova può essere offerta dalla parte e riconosciuta dal giudice anche ricorrendo a criteri presuntivi ed equitativi (quale l’attribuzione degli interessi ad un tasso stabilito), previa valutazione di tutte le circostanze obiettive e soggettive attinenti al caso specifico.

Occorre precisare che la giurisprudenza più recente afferma che il criterio più idoneo allo scopo per l’adeguamento dell’importo dovuto a titolo risarcitorio è quello dell’attribuzione degli interessi legali dalla data del fatto sul capitale mediamente rivalutato, che si persegue dividendo la sorte capitale attualizzata per il coefficiente di rivalutazione ISTAT relativo all’anno dell’evento dannoso e aggiungendo al capitale non attualizzato la metà della rivalutazione maturata.

Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 4791 del 01/03/2007

Qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata "per equivalente", ovvero con riferimento al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva, il criterio più idoneo allo scopo per l’adeguamento dell’importo dovuto a titolo risarcitorio è quello dell’attribuzione degli interessi legali dalla data del fatto sul capitale mediamente rivalutato, che si persegue dividendo la sorte capitale attualizzata per il coefficiente di rivalutazione ISTAT relativo all’anno dell’evento dannoso e aggiungendo al capitale non attualizzato la metà della rivalutazione maturata.

Nel caso di specie, tenuto conto:

dell’utilizzo della recente tabella che ha aggiornato il valore dei punti all’aprile 2007;

del fatto che non vi è prova dell’utilizzo da parte dell’attrice di particolari strumenti di investimento finanziario;

del fatto che gli interventi agli occhi sono stati effettuati in tempi diversi e che l’attuale situazione è stata accertata solo nel 2007;

si ritiene, con criterio presuntivo ed equitativo richiesto dalla sentenza n.1712/95 delle Sezioni Unite, che la liquidazione del danno con riferimento al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, tenendosi conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione, possa essere effettuata mediante la corresponsione degli interessi legali dalla data in cui è stato eseguito (15/1/99) dal dott. Y l’intervento all’occhio destro, sino al saldo effettivo.

Per quel che concerne la domanda di garanzia (impropria) svolta dalla Casa di cura (omissis) nei confronti del dott. Y, deve evidenziarsi come nessuna prova agli atti sia emersa in ordine al presunto non idoneo funzionamento dell’apparecchiatura utilizzata dal convenuto durante l’operazione eseguita il 15/1/99: infatti nessuno dei due C.T.U. ha verificato la circostanza e nessun elemento probatorio, neppure semplicemente indiziario, supporta l’ipotesi ventilata dal dott. Y.

Pertanto è fondata la domanda di garanzia svolta dalla Casa di cura (omissis), poiché nei confronti del suo professionista / ausiliario non dipendente la struttura sanitaria ha assolto alle proprie obbligazioni mettendogli a disposizione le apparecchiature, il materiale e il personale necessario per eseguire correttamente ed efficacemente gli interventi e la sua responsabilità nei confronti dell’attrice deriva da una condotta imperita posta in essere dal professionista stesso.

Per il principio della soccombenza le spese delle C.T.U., nella misure già liquidate, devono porsi a carico definitivamente dei convenuti.

Per la stessa ragione le spese del giudizio sostenute dall’attrice, che si liquidano come in dispositivo sulla base dello scaglione relativo alla somma liquidata, devono porsi a carico dei convenuti: considerato però che la somma richiesta a titolo di risarcimento danni è notevolmente superiore a quella effettivamente liquidata, si ritiene di compensare tali spese per un terzo.

P . Q . M .

Il Tribunale di Ferrara, in composizione monocratica, definitivamente decidendo sulla domanda proposta con citazioni ritualmente notificate dalla dott.ssa X nei confronti della s.r.l. Casa di cura (omissis) e del dott. Y, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa e respinta:

– dichiara tenuti e condanna, in solido fra loro, la s.r.l. Casa di cura (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, e il dott. Y al pagamento in favore della dott.ssa X della somma di EURO 16.500,00, oltre interessi legali dal 15/1/99 sino al saldo effettivo;

– pone definitivamente a carico della s.r.l. Casa di cura (omissis) e del dott. Y le spese delle C.T.U., nelle misure già liquidate;

– conseguentemente condanna, in solido fra loro, la s.r.l. Casa di cura (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, e il dott. Y a rifondere all’attrice dott.ssa X le spese delle C.T.U. anticipate, oltre interessi legali dalla data dei pagamenti al saldo effettivo;

– condanna, in solido fra loro, la s.r.l. Casa di cura (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, e il dott. Y a rifondere all’attrice I DUE TERZI delle spese della lite, che liquida PER L’INTERO in complessivi EURO 11.585,00, di cui 6.100,00 per competenze, 3.300,00 per onorari, 1.175,00 per 12,5% spese generali, 10,00 per spese imponibili, 1.000,00 per C.T.P., oltre IVA e CPA; compensa il terzo residuo;

– dichiara tenuto e condanna il dott. Y a tenere indenne, manlevare, garantire o rimborsare alla s.r.l. Casa di cura (omissis) tutte le somme da questa dovute o pagate all’attrice dott.ssa X all’esito del presente giudizio, comprese le spese delle C.T.U. e della lite;

– respinge ogni altra domanda.

Ferrara, 1 settembre 2008

Il Giudice

Dott.Domenico Stigliano

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