Tentata estorsione ex artt. 110, 56 e 629 c.p. (Cass. pen. n. 5912/2013)

Redazione 07/02/13
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Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 24/11/2011, la Corte di Appello di Milano confermava la pronuncia resa dal Tribunale di Milano in data 27/04/2010 con la quale P.S. e R.N. venivano condannati per il reato di tentata estorsione ex artt. 110, 56 e 629 cod. pen.: gli imputati venivano riconosciuti colpevoli di avere, in concorso tra loro, al fine di trarre per sè profitto ed approfittando inizialmente della buona fede e della condizione economica di P.M., costretto quest’ultimo, mediante minaccia di morte alla di lui moglie P.M.L., al pagamento di Euro 3.000,00 per ottenere il nulla osta finalizzato all’ingresso della figlia P.T.M. e della nuora P.Q.M.B. – entrambe di nazionalità filippina – nel territorio dello Stato, evento che si verificava solo in parte dietro la corresponsione di complessivi Euro 2.300,00. La Corte di Appello confermava altresì l’impugnata sentenza relativamente alle statuizioni a favore delle costituite parti civili.

2. Avverso la suddetta sentenza gli imputati, a mezzo del comune difensore, hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi:

2.1. violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. per avere i giudici di merito fondato la penale responsabilità dei ricorrenti esclusivamente sulle versioni fornite dalle parti offese, ritenute più credibili, ancorchè in contrasto sia con i fatti emersi in dibattimento sia con le altre deposizioni testimoniali.

Secondo la tesi difensiva, il ragionamento dei giudici di merito sarebbe viziato da illogicità e da un’erronea valutazione delle testimonianze, in quanto la conferma della versione delle parti offese sarebbe avvenuta sulla base di un supposto mancato riscontro delle affermazioni della R. da parte degli altri due coimputati. Inoltre, la versione accreditata presso il Tribunale e la Corte sarebbe, sotto un primo profilo, in contrasto con le altre deposizioni testimoniali, mentre, sotto un altro profilo, intrinsecamente contraddittoria, sicchè l’attendibilità della stessa, peraltro non motivata con precisione ed attenzione, risulterebbe seriamente compromessa.

Quanto al primo aspetto, il Pi., come emergerebbe dalle testimonianze di B.J. e B.D., avrebbe mentito circa la pregressa conoscenza degli imputati. Il Pi., poi, sarebbe stato ulteriormente smentito dalla teste B. J., la quale avrebbe escluso che il P. e G.J. si erano recati presso l’abitazione delle persone offese prima alle ore 10,30 ed una seconda volta alle ore 15,30, nella quale ci sarebbe stata la consegna del denaro.

Riguardo all’intrinseca contraddittorietà della deposizione del Pi., la difesa rileva che quest’ultimo avrebbe affermato che il P. si sarebbe allontanato con una moto, in contrasto sia con la circostanza secondo la quale l’accesso di G.J. e di P. sarebbe stato effettuato con l’auto del primo sia con la stessa testimonianza del Pi., che avrebbe ritrattato subito dopo.

2.2. omessa motivazione in ordine alle censure dedotte nei motivi di appello, essendosi la Corte territoriale limitata a richiamare “per relationem” la sentenza del Tribunale. In particolare, i ricorrenti osservano che il giudice di primo grado e, conseguentemente, la Corte di Appello avrebbero affermato, senza motivare, che:

– nè J. nè il P. avevano riscontrato la dichiarazione di N.R. secondo la quale non vi era stata alcuna minaccia ma solo un’offesa telefonica;

– non vi era alcuna ragione per la quale N. avrebbe dovuto mandare il marito e J. dai Pi., se il problema fosse sorto soltanto tra M. e M.L. a causa del ritardo del primo nel riferire alla moglie di aver presentato le domande, sicchè il motivo non poteva che essere per riscuotere il denaro;

– poichè N. aveva interesse a far capire che non voleva truffare alcuno, essa aveva deciso di far recapitare immediatamente le tre ricevute ritirate dalla Limic;

– l’inattendibilità del teste P. si fondava sulla circostanza che questi era sempre disponibile all’assunzione di nuovo personale, che aveva anticipato i soldi per le domande e che non ne aveva successivamente richiesto il rimborso;

– sussisteva l’elemento materiale del reato di estorsione costituito dall’ingiusto profitto, anche in assenza di una precisa e puntuale individuazione delle attività riservate ai consulenti del lavoro.

Motivi della decisione

1. VIOLAZIONE dell’art. 192 cod. proc. pen.: il motivo di doglianza è infondato.

I ricorrenti lamentano che la Corte territoriale ha attribuito credibilità alle versioni offerte dalle parti offese, benchè fossero risultate contrastanti sia con le affermazione della R. – che aveva sostenuto di aver solo offeso, e non già minacciato, M. e M.L. – sia con le dichiarazioni di J., che aveva affermato di non aver sentito N. pronunciare alcuna minaccia.

Secondo la difesa, dunque, i giudici di merito non solo non avrebbero tenuto in considerazione le precise ed univoche dichiarazioni rese dalla R. e da J., ma avrebbero altresì trovato una conferma della versione delle parti offese nell’asserito mancato riscontro delle affermazioni della R. da parte degli altri due coimputati.

In punto di diritto, è opportuno rammentare che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, “le regole dettate dall’art. 192 cod. proc. pen., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone” (SSUU 41461/2012, Rv. 253214; Cass. 44644/2011, rv. 251661; Cass. 28913/2011, Rv. 251075; Cass. 1818/2010, Rv. 249136). In motivazione la Corte ha poi precisato che, “nel caso in cui la persona offesa si sia altresì costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi”, essendo portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell’imputato (negli stessi termini, Cass. 29372/2010, Rv. 248016; Cass. 33162/2004, Rv. 229755). Pertanto, ®qualora si tratti della testimonianza della persona offesa dal reato, che ha sicuramente interesse verso l’esito del giudizio, è necessario vagliare le sue dichiarazioni con ogni opportuna cautela, cioè compiere un esame particolarmente penetrante e rigoroso attraverso una conferma di altri elementi probatori, talchè essa può essere assunta, da sola, come fonte di prova, unicamente se venga sottoposta a detto riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva” ex plurimis Cass. 7241/1994, Rv. 198323; Cass. 2540/1997, Rv. 207642.

Ora, applicando i suddetti principi, questa Corte ritiene che i giudici di merito, valutando accuratamente tutti gli elementi emersi nel corso del processo, abbiano spiegato, con iter argomentativo esaustivo, logico, correttamente sviluppato e saldamente ancorato all’esame delle singole testimonianze e dichiarazioni, le ragioni per le quali le dichiarazioni rese da M. e M.L. P., persone offese dal reato, fossero da considerare intrinsecamente e oggettivamente attendibili.

Infatti, proprio in ragione della importanza, ai fini della penale responsabilità degli imputati, delle dichiarazioni accusatone rese dalle parti offese, sull’attendibilità di queste ultime i giudici di merito si sono lungamente soffermati: cfr. pagg. 2, 3 e 6 della sentenza impugnata in cui la Corte territoriale, oltre che condividere le argomentazioni del giudice di primo grado, ha anche integrato il giudizio di attendibilità con nuove osservazioni.

Entrambe le sentenze hanno, poi, dato conto delle ragioni per le quali la versione resa dalla R. fosse poco credibile, con argomenti che, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa, non sono affette da alcuno dei vizi motivazionali deducibili in sede di legittimità.

Ne consegue che, poichè è incontroverso nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo cui la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (cfr. ex plurimis Cass. 8382/2008, Rv. 239342), la sentenza impugnata si sottrae, sotto il profilo evidenziato nel presente motivo di doglianza, ad ogni censura.

Diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, infatti, alla declaratoria di colpevolezza i giudici di merito sono giunti non tramite mere ipotesi o illazioni, bensì attraverso una meditata valutazione delle opposte dichiarazioni, che ha portato, per i motivi esplicitati in sentenza, a ritenere maggiormente credibile la versione esposta dalle vittime del reato. Come già precisato, infatti, l’attendibilità delle persone offese è stata motivata adeguatamente e attentamente, valutando, nel complesso, tutte le deposizioni testimoniali, delle quali si è dato atto, sia in punto di attendibilità che di credibilità. La doglianza, quindi, va ritenuta infondata.

2. omessa motivazione: anche la suddetta doglianza è infondata.

E’ vero che la Corte territoriale ha richiamato in gran parte la motivazione della sentenza di primo grado, e segnatamente i punti relativi alla ricostruzione del fatto, all’attendibilità delle dichiarazioni delle persone offese, alla non credibilità delle dichiarazioni degli imputati e di alcuni testimoni ed alla sussistenza del reato di estorsione; tuttavia, ha correttamente proceduto ad integrare la motivazione della sentenza impugnata, rafforzando uno dei punti di maggior importanza nell’assetto motivazionale, ossia l’attendibilità delle affermazioni delle persone offese e degli imputati, ed ha accuratamente respinto le specifiche censure svolte nei motivi di appello.

La Corte territoriale, infatti, dopo aver ripercorso ampiamente e con logicità tutti i passaggi argomentativi sviluppati dal Tribunale, li ha poi condivisi e sostanzialmente richiamati, senza sottrarsi ad un vaglio critico delle risultanza probatorie e delle specifiche doglianze sollevate dagli appellanti. Pertanto, la sentenza impugnata deve ritenersi rispettosa del principio di diritto costantemente ribadito da questa Corte, secondo cui “è viziata da difetto di motivazione la sentenza di appello che, in presenza di specifiche censure su uno o più punti della decisione impugnata, motivi “per relationem”, limitandosi a richiamare quest’ultima”: ex plurimis Cass. 24252/2010, Rv. 247287.

E così, ad es., la Corte territoriale non si è limitata a recepire supinamente il ragionamento del primo giudice, ma ha contribuito ad irrobustire l’impianto motivazionale, aggiungendo che la consegna di denaro da parte dei Pi. non poteva che essere conseguenza delle pressioni e minacce subite, in quanto le loro condizioni economiche non erano floride e non erano stati ottenuti risultati concreti.

Anche l’inattendibilità del teste P. è stata specificamente delibata e motivata dalla Corte territoriale, la quale, condividendo le perplessità già evidenziate dal Tribunale, ha giustificato tale valutazione sulla base di varie circostanze, vale a dire la continua disponibilità all’assunzione di nuovo personale, l’anticipazione dei soldi per le domande e la mancanza di una successiva richiesta di rimborso.

Infine, la Corte ha ritenuto che fosse sufficiente ad integrare la condotta di tentata estorsione la richiesta, con minacce, di somme di denaro non dovute, avendo gli imputati posto in essere un’attività fraudolenta al fine di conseguire una finalità certamente illecita, cioè ottenere il nulla osta al lavoro subordinato necessario per il ricongiungimento familiare, non conseguibile a causa della condizione economica di P.M.. L’individuazione della condotta estorsiva nei suddetti termini, prescindendo dunque dall’esame o dal richiamo, operato invece dal Tribunale, alla normativa relativa all’attività dei consulenti del lavoro, ha escluso la necessità, da parte del giudice di seconde cure, di approfondire il relativo motivo di appello.

In conclusione, quindi, anche il suddetto motivo di doglianza va rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

RIGETTA il ricorso e CONDANNA i ricorrenti al pagamento singolarmente delle spese processuali.

Redazione