Soffitta destinata ad abitazione civile: partecipa alla divisione e assegnazione delle parti comuni (Cass. n. 14990/2012)

Redazione 07/09/12
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Svolgimento del processo

Con atto notificato il 4 novembre 1991, i coniugi B. (o B. come indicato a p. 1 e 8 del ricorso e a p. 2 della memoria ex art. 378 cod. proc. civ. per evidente lapsus calami) E.E. e M.G., i coniugi Ro.Gi. e Pe.In. nonché R.D. convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bergamo, ****** , esponendo, per quanto rileva in questa sede, che:
– i coniugi B. -M. erano divenuti comproprietari di una porzione di fabbricato sita in (omissis) (primo piano) in virtù di atto notarile stipulato in data 4 giugno 1990 con Ma.Lo.;
– R.D. era divenuto proprietario del piano rialzato del medesimo stabile in virtù di atto notarile stipulato in data 22 dicembre 1986 con Ma.Pi.,
– i coniugi Ro.Gi. e Pe.In. avevano acquistato il secondo piano del medesimo fabbricato da Ma.Sa. con atto del 1 luglio 1989;
– in virtù dei predetti atti di acquisto gli attori erano divenuti comproprietari per le rispettive quote di tutta l’area del terreno rimasta scoperta, della porzione nord est, est e sud est del piano cantinato;
– una parte della cantina era stata occupata in via esclusiva e contro la volontà degli altri condomini da Ma.Pi., il quale si era riservato il sottotetto dello stabile, in seguito trasformato in propria abitazione.
Tanto premesso gli attori chiedevano l’accertamento del diritto dei soli istanti alle parti comuni dell’edificio de quo, la divisione, fra essi, di dette parti e la condanna di Ma.Pi. al rilascio di una parte della cantina comune nonché al risarcimento dei danni per l’occupazione esclusiva della stessa.
Si costituiva il convenuto che eccepiva – limitatamente a quanto rileva in questa sede – che le parti di cui si chiedeva la divisione spettavano anche a lui; che dalla divisione intercorsa con i fratelli nel 1963 aveva sempre utilizzato la cantina e chiedeva pertanto accertarsi l’intervenuta usucapione della stessa.
Il processo si interrompeva dapprima per la morte di Ma.Pi., cui seguiva, a seguito della riassunzione, la costituzione degli eredi A.A.M., Ma.Ma. e Ma.Ra. e, successivamente, per la morte di R.D., cui seguiva, a seguito della riassunzione, la costituzione degli eredi A.P., R.O., R.P. e R.R.
Il Tribunale adito, con sentenza del 25 febbraio 2003, facendo proprio il progetto divisionale redatto dal CTU nella relazione suppletiva del 6 novembre 2001 (planimetria 16-3), assegnava il posto A allo scoperto ai coniugi Ro. -Pe., il posto B allo scoperto ai coniugi B. -M., il posto C allo scoperto agli eredi R., il posto D interrato ai coniugi B., il posto E interrato agli eredi R. e il posto V interrato ai coniugi Ro. ; condannava gli eredi di Ma.Pi. a rilasciare la cantina posta al piano interrato e, in via tra loro solidale, al pagamento della somma di Euro 1.000,00, oltre interessi legali dal 14 febbraio 2003 al saldo, a titolo di risarcimento del danno per l’illegittima occupazione, in favore dei coniugi B. -M., nonché al pagamento del medesimo importo e per lo stesso titolo sia in favore dei coniugi Ro. -Pe. che degli eredi di R.D.; accertava la comproprietà delle parti comuni dell’edificio in questione, distinto in mappa con i numeri (omissis), (omissis), (omissis), in ragione di 241,31 millesimi all’unità immobiliare identificata con il mappale (omissis), di millesimi 261,54, all’unità immobiliare identificata con il mappale (omissis), di millesiomissisi 261,54 all’unità immobiliare identificata con il mappale (omissis) e di millesimi 232,79 all’unità immobiliare (omissis); rigettava ogni altra domanda; poneva le spese di CTU definitivamente a carico delle parti in ragione dei millesimi determinati come sopra riportato; compensava per metà le spese di giudizio che poneva, per la restante parte, a carico della parte convenuta.
La sentenza di primo grado veniva impugnata da A.A.M., ****** e ******* Si costituivano gli appellati e tra essi P.A., R.O., R.P. e R.R. proponevano appello incidentale.
La Corte di Appello di Brescia, accogliendo parzialmente l’appello principale, con sentenza depositata il 14 luglio 2005, dichiarava che la porzione di fabbricato, di proprietà degli appellanti principali, situata in (omissis) alla partita n. (omissis) del NCEU e cernita al fg. 12 mapp. (omissis), partecipava, in misura proporzionale, alla comproprietà dell’edificio, ivi incluse l’area scoperta adibita a cortile ed il piano cantinato, quanto alla porzione di nord-est, est, sud/est, secondo le tabelle millesimali predisposte dal consulente tecnico nella relazione depositata il 26 settembre 1996 a p. 19 (tabella millesimale A relativa agli appartamenti) e pag. 20 (situazione A: quote diritto cantinato; quote di diritto superficie scoperta); predisponeva il progetto di divisione dei singoli lotti facendo proprio quello redatto dal predetto consulente nella relazione da ultimo ricordata e graficamente illustrato nell’allegata tavola denominata “disegno Ctu 16-2″; ordinava procedersi all’estrazione a sorte dei suddetti lotti dopo il passaggio in decisione della sentenza; confermava la decisione di primo grado nella parte in cui aveva rigettato la domanda di usucapione; riduceva la somma di Euro 1.000,00 posta a carico degli appellanti di cui ai capi 2, 3, e 4 dell’impugnata sentenza, ad Euro 700,00; dichiarava assorbito l’appello incidentale proposto da P.A., R.O., R.P. e **** e compensava integralmente tra tutte le parti le spese processuali di entrambi i gradi del giudizio. Avverso la sentenza della Corte di merito hanno proposto ricorso per cassazione P.A., R.O., R.P. e R.R. sulla base di due motivi.
Gli intimati non hanno svolto difese.
I ricorrenti hanno depositato memoria.

 

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, denunciando (sia pure in relazione all’art. 360, n. 2. cod. proc. civ.) la violazione degli artt. 1117 e 1361 e ss. cod. civ., i ricorrenti lamentano che la Corte di merito – nell’accogliere il primo motivo di appello sull’assunto che il Tribunale di Bergamo avrebbe mal interpretato l’atto di divisione (rectius di vendita, vedi ricorso p. 4) del 1986, negando che con tale atto Ma.Pi. avesse inteso trattenere per sé la propria quota proporzionale di comproprietà delle parti comuni – avrebbe erroneamente interpretato l’atto in questione ed avrebbe inesattamente applicato l’art. 1117 cod. civ. al caso di specie. Ad avviso dei ricorrenti il giudice di appello avrebbe erroneamente applicato il canone ermeneutico dell’interpretazione letterale ad un’ipotesi in cui tale canone non sarebbe applicabile o comunque sufficiente. Sostengono, infatti, i ricorrenti che l’interprete dovrebbe arrestarsi al significato letterale solo nel caso in cui le espressioni adoperate dalle parti facciano emergere in modo chiaro e lampante la loro volontà, laddove, invece, nel caso di specie, tali espressioni non sarebbero chiare, precise ed univoche. Rappresentano, inoltre, che, a differenza di quanto avrebbe fatto la Corte di merito, l’interprete non dovrebbe fermarsi al senso letterale di una sola clausola del contratto ma dovrebbe “leggere” la stessa alla luce dell’intero testo contrattuale e valutare il comportamento delle parti successivo alla conclusione del negozio.
In particolare assumono i ricorrenti che la Corte di appello di Brescia ha ritenuto che applicando il criterio letterale di interpretazione del contratto dovesse desumersi che “le parti comuni rimanevano in comunione tra tutte le unità immobiliari che componevano l’intero edificio” laddove l’atto in questione – per quanto qui rileva – si limita ad indicare semplicemente che la porzione venduta “ha in comune con le altre unità immobiliari che compongono l’edificio tutta l’area di pertinenza scoperta, la porzione di nord est, sud est, del piano cantinato…”. Tale frase sarebbe per i ricorrenti variamente interpretabile e dovrebbe essere “letta e coordinata” con altra parte del testo contrattuale (in cui si afferma che “l’unità immobiliare in contratto é venduta e acquistata nello stato di fatto e di diritto in cui si trova… così come al venditore attribuita dal su enunciato atto di divisione”) nonché alla luce del contratto del 1990 con cui il Ma. aveva venduto ai coniugi B. e M. (nel quale si legge: “L’unità immobiliare in contratto é venduta e acquistata (omissis) con le inerenti servitù attive e passive, azioni e ragioni e (omissis) con la proporzionale quota di comproprietà delle cose comuni per legge e per destinazione, nulla escluso ed eccettuato”).
Secondo i ricorrenti la frase sopra riportata per prima indicherebbe che “alla parte acquistata compete per la sua quota la proprietà delle parti comuni dell’edificio” dal che se ne dovrebbe trarre che il “Ma. ha venduto, quindi, la sua proprietà ed anche la propria quota relativa alle parti comuni, spogliandosene definitivamente”. La Corte di merito avrebbe dovuto, pertanto, applicare i criteri di cui agli artt. 1363 e 1369 cod. civ. e avrebbe conseguentemente dovuto disporre che la divisione giudiziale delle parti comuni fosse effettuata unicamente tra le tre unità immobiliari originarie da cui andrebbe escluso il Ma. e, quindi, i suoi eredi, mediante la formazione di tre lotti.
Ad avviso dei ricorrenti la sentenza impugnata dovrebbe essere cassata non solo nella parte relativa all’accertamento della comproprietà mediante applicazione del criterio interpretativo letterale ma anche, conseguentemente, in relazione ai capi della sentenza che da essa dipendono e cioè quello relativo alla determinazione del danno subito dai ricorrenti e delle spese legali, che si assumono ingiustamente compensate sulla base del parziale accoglimento.
1.1. Il motivo è infondato.
1.2. La sentenza impugnata ha accertato in fatto che Ma.Pi. nel 1986, quando era ancora proprietario dell’intera porzione immobiliare pervenutagli in virtù dell’atto di divisione del 1963, aveva provveduto a frazionarla fra il piano rialzato e il sottotetto (trasformato in vera e propria abitazione), ricavandone due autonomi appartamenti non solo distinti fisicamente ma anche catastalmente e che l’atto di vendita del 22 dicembre 1986 aveva come “presupposto logico e giuridico” proprio tale frazionamento, che in esso viene espressamente richiamato, sicché il sottotetto così come trasformato costituiva una delle unità immobiliari componenti l’edificio al quale erano comuni le aree in detto frazionamento indicate. In relazione a tanto la sentenza impugnata non è stata censurata. Risulta pertanto corretta l’interpretazione data dalla Corte di merito a fronte del chiarissimo e non equivoco dato testuale della clausola in questione ed alla luce dell’ulteriore unica altra clausola del contratto riportata in ricorso e a cui fanno riferimento i ricorrenti nel censurare la ricostruzione della volontà contrattuale operata da quel giudice. Anzi, tale ultima clausola rafforza la “lettura” operata dal giudice di appello secondo cui “le parti comuni rimanevano in comunione fra tutte le unità immobiliari che componevano l’intero edificio e, quindi, anche dell’appartamento ricavato nel sottotetto e contraddistinto con il mapp. (omissis); il che significa che il Ma. vendette a R. l’appartamento al piano rialzato oltre la sola quota proporzionale delle parti comuni ad esso spettante e non anche la parte comune di spettanza dell’altro appartamento sito al quarto piano”. La tesi espressa dai ricorrenti nella memoria ex art. 348 cod. proc. civ., secondo cui la clausola in questione “deve essere interpretata nel senso che, poiché il IV piano era ancora abusivo e risultava essere una soffitta le porzioni comuni erano relative solo alle tre unità immobiliari allora esistenti. La quarta non esisteva come unità immobiliare e quindi non poteva godere delle parti comuni come l’area esterna e la cantina”, va disattesa, sia perché introduce questioni nuove (abusività del quarto piano, rectius dell’appartamento ivi realizzato), sia perché l’esistenza di tale appartamento risulta accertata dalla sentenza, come già prima evidenziato, sia infine perché, comunque, sono gli stessi ricorrenti a riconoscere l’esistenza di una quarta unità immobiliare, sia pure qualificandola come soffitta.
Né ha rilievo il richiamo al contratto di compravendita del 1990, trattandosi di atto intervenuto non tra Ma.Pi. – come assumono i ricorrenti (v. p. 8 del ricorso in cui quest’ultimo viene indicato come resistente) – e i coniugi B. -M. bensì tra questi e Ma.Lo. , parti, quindi, diverse da quelle del contratto della cui interpretazione si discute in questa sede, evidenziandosi che dalla stessa massima richiamata dai ricorrenti (Cass. n. 10298 del 2002) e da molte altre (v. da ultimo Cass. n. 20817 del 20101) si evince che, per l’interpretazione del contratto, qualora la medesima vicenda negoziale e i relativi effetti abbiano formato oggetto di due o più atti scritti, il giudice é tenuto, giusta il disposto dell’art. 1363 cod. civ., ad esaminare le convenzioni intercorse tra le medesime (e non altre) parti.
Alla luce di quanto precede il motivo all’esame risulta infondato anche nella parte in cui censura la sentenza impugnata per inesatta applicazione dell’art. 1117 cod. civ., essendo la decisione del Giudice di appello coerente con il dettato di cui alla norma citata.
2. Con il secondo motivo, rubricato “art. 360 n. 5 c.p.c. omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio e errata valutazione delle risultanze tecniche”, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata anzitutto sotto il profilo dell’omessa e/o insufficiente motivazione nella parte relativa alla ripartizione dei lotti tra le unità immobiliari. Ad avviso dei ricorrenti la Corte di appello ha ritenuto che si sarebbe dovuto procedere al sorteggio, trattandosi di quote uguali ed asserendo che nessuna delle parti in causa aveva mai sollevato la problematica della diseguaglianza circa il valore e le dimensioni dei box. In tal modo però – osservano i ricorrenti – la Corte di appello avrebbe omesso di considerare che con l’appello incidentale gli attuali ricorrenti avevano, invece, in comparsa di costituzione in secondo grado sollevato la problematica dell’errata attribuzione dei posto auto da parte del Tribunale, avvenuta senza specificare i criteri di attribuzione.
Rappresentano i ricorrenti di aver in particolare evidenziato che i posti auto sono di dimensioni diseguali e sono posizionati in diverse zone dell’immobile e che ad essi era stato assegnato il posto auto di dimensioni più piccole, posizionato al piano interrato e di minor valore commerciale, rilievi questi non esaminati dai giudici del merito. Assumendo, infine, che i quattro posti auto “sono tecnicamente inagibili”, avendo il consulente tecnico chiarito nella relazione suppletiva che “non vi era spazio” per realizzare quattro posti auto, sicché la decisione di secondo grado sarebbe viziata anche perché la statuizione non potrebbe essere eseguita, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata espressamente per violazione di legge, pur erroneamente invocando al riguardo l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ..
2.1. Il motivo é infondato.
2.2. Va anzitutto evidenziato che dalle conclusioni delle parti indicate nella sentenza impugnata e dallo stesso brano della comparsa di costituzione in appello riportato dai ricorrenti, sia pure solo nella memoria difensiva ex art. 378 cod. proc. civ., a p. 10, risulta che la richiesta di rideterminare l’assegnazione dei posti auto con specificazione dei criteri applicati per l’assegnazione degli stessi in ottemperanza al disposto dell’art. 729 c.c. è stata formulata in alternativa (in entrambi i testi ricordati è utilizzata la congiunzione disgiuntiva “o”) alla richiesta di assegnazione dei detti posti auto, previa estrazione a sorte.
Tanto evidenziato, si rileva che la Corte di merito ha affermato che doveva procedersi al sorteggio delle quote e che da tale decisione conseguiva l’assorbimento dell’appello incidentale proposto dai R. e con il quale era stato, appunto, chiesto – come appena posto in risalto – procedersi al sorteggio. Non risulta, pertanto, pertinente il rilievo degli appellanti incidentali, attuali ricorrenti, relativo all’assegnazione in primo grado agli stessi di un posto auto di minor valore; la medesima Corte ha, inoltre, affermato di considerare i lotti di egual valore sul rilievo che nessuna delle parti aveva chiesto, né in primo né in secondo grado, la corresponsione di conguagli per la teorica diseguaglianza dei lotti.
La Corte territoriale ha, quindi, dato conto, in modo circostanziato e con motivazione congrua ed esente da vizi logici e giuridici, delle ragioni della sua decisione.
Ne deriva che non sussiste il lamentato vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione.
Quanto alla censura relativa alla dedotta errata valutazione delle risultanze tecniche, con conseguente violazione di legge, va evidenziato che la stessa è inammissibile, alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte secondo cui i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa. Ciò comporta che, quando nel ricorso per cassazione è denunziata violazione e falsa applicazione di norme di diritto, il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. deve essere dedotto non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate – indicazione che nella specie é del tutto omessa -, ma anche mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatoci della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina; diversamente il motivo è inammissibile, in quanto non consente alla Corte di Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 16 gennaio 2007, n. 828). In un caso analogo a quello all’esame, questa Corte ha affermato che é inammissibile il motivo di ricorso per cassazione qualora lo stesso, pur denunziando che la sentenza è incorsa in violazione e falsa applicazione di legge, si astiene totalmente dall’indicare quale sia la norma in concreto violata o falsamente applicata dal giudice di merito (v. Cass. 26 giugno 2007, n. 14752, in motivazione).
Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
Non vi é luogo a pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso.

Redazione