Società: rapporto di subordinazione per l’associato senza partecipazione agli utili e alle perdite dell’azienda (Cass. n. 4070/2013)

Redazione 19/02/13
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Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Torino con sentenza n. 932 del 2008, in riforma della decisione di primo grado, ha dichiarato che tra M.A. e la Srl SOFTECH SVILUPPO SOSTENIBILE erano intercorsi due rapporti di lavoro subordinato con inquadramento nel 2 livello del CCNL aziende terziario, il primo dal 1.09.1981 l 30.04.1990 e il secondo dal 18.03.1991 al 21.10.2004, con condanna dell’appellata società al pagamento della somma di Euro 88.804,92, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali, per differenze retributive e TFR. La stessa Corte ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato alla M., con condanna della società a riassumere l’appellante o, in subordine, a corrisponderle Euro 9.296,22, oltre accessori.

La Corte ha ritenuto sussistente, sulla base delle dichiarazioni dei testi escussi, la subordinazione per entrambi i periodi in cui si era sviluppato il rapporto di lavoro, in quanto in occasione della sottoscrizione del contratto di associazione in partecipazione, intervenuto nel 1996, non era intervenuta alcuna modifica nelle modalità di estrinsecazione della precedente prestazione lavorativa.

La stessa Corte ha ritenuto esistente ed efficace il licenziamento, non risultando prodotta agli atti la relativa lettera, con applicazione della tutela obbligatoria, in mancanza di prova del requisito dimensionale L. n. 300 del 1970, ex art. 18.

La società ricorre per cassazione affidandosi a tre motivi. La M. resiste con controricorso, illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. La controricorrente eccepisce in via preliminare tardività e conseguente decadenza – inammissibilità del ricorso. L’eccezione è infondata, giacchè, a fronte della pubblicazione della sentenza di appello in data 24 ottobre 2008, cadente di sabato, il ricorso risulta notificato il 26 ottobre 2009, primo giorno utile dopo la domenica, quindi tempestivamente.

2. Con il primo motivo la ricorrente lamenta violazione e falsa dell’art. 2697 c.c., nonchè vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

La ricorrente addebita alla Corte territoriale l’errore di avere affermato l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato sulla base di dichiarazioni testimoniali, senza che le stesse avessero in alcun modo affermato quanto dedotto nella sentenza impugnata.

Il vizio di motivazione viene ravvisato nel fatto che nel ragionamento del giudice di merito si riscontra una obiettiva deficienza del criterio logico, che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento. Il motivo è infondato.

Al riguardo va richiamato l’orientamento consolidato di questa Corte (cfr Cass. n. 5231 del 2001, Cass. n. 11933 del 2003; Cass. N. 21412 del 2006), secondo cui la valutazione delle risultanze probatorie, come la scelta, tra queste, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro, limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze, che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili.

Orbene nel caso di specie la Corte ha valutato le dichiarazioni rese dai testi S., C., Ma. e G. pervenendo alla conclusione dell’esistenza, per il periodo 1.09.1981/30.04.1990, di un rapporto di lavoro subordinato tra l’Architetto Ma. e la Softech.

A tale valutazione, sorretta da motivazione adeguata e logica, la ricorrente si è limitata ad opporre un diverso apprezzamento, non consentito in sede di legittimità.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., e ciò in relazione al pagamento di titoli, quali i ratei di tredicesima e quattordicesima, non precedentemente richiesti.

Il motivo è infondato, atteso che l’Arch. M. sin dal ricorso introduttivo chiese, anno per anno, il pagamento delle tredicesime e quattordicesime mensilità, con il richiamo delle disposizioni del contratto collettivo.

4. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 2094, 2549 e 2697 c.c., nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

La ricorrente contesta alla Corte territoriale, nel ritenere costituito un rapporto di lavoro subordinato, di avere svolto un’indagine sommaria ed incompleta, trascurando, da un lato, gli aspetti riferibili al contratto di associazione in partecipazione, considerando, da altro lato, come decisivi elementi, approssimativamente evidenziati, di per sè non costituitivi della subordinazione e neppure estranei anche all’associazione.

Il motivo è infondato.

In tema di distinzione tra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili della impresa, questa Corte (cfr Cass. n. 19475 del 2003; Cass. n. 24781 del 2006) ha affermato che l’elemento distintivo delle due fattispecie risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione lavorativa, dovendosi verificare l’autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell’associato al rischio di impresa, dovendo egli partecipare sia agli utili che alle perdite.

Quanto all’esatta identificazione delle connotazioni del rapporto intercorso tra la società e il suo asserito associato la qualificazione giuridica del rapporto (se rapporto di associazione in partecipazione ovvero rapporto di lavoro subordinato) deve considerarsi che le parti hanno qualificato il rapporto, tra le stesse instaurato dal 31 ottobre 1996, come di associazione in partecipazione caratterizzato nella specie dall’apporto di una prestazione lavorativa da parte dell’associato. L’art. 2549 c.c. infatti prevede che con il contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto. Il sinallagma è costituito dalla partecipazione agli utili (e quindi al rischio di impresa, di norma esteso anche alla partecipazione alle perdite) a fronte di un “determinato apporto” dell’associato, che può consistere anche nella prestazione lavorativa del medesimo. E’ ben possibile quindi che l’espletamento della prestazione lavorativa assuma i caratteri del tutto simili a quelli della prestazione lavorativa svolta nel contesto di un rapporto di lavoro subordinato.

Ed allora l’elemento differenziale tra le due fattispecie risiede essenzialmente nel contesto regolamentare pattizio in cui si inseriscono rispettivamente l’apporto della prestazione lavorativa dell’associato e l’espletamento di analoga prestazione lavorativa da parte di un lavoratore subordinato. Tale accertamento implica necessariamente una valutazione complessiva e comparativa dell’assetto negoziale, quale voluto dalle parti quale in concreto posto in essere. Ed anzi la possibilità che l’apporto della prestazione lavorativa dell’associato abbia connotazioni in tutto analoghe a quelle dell’espletamento di una prestazione lavorativa in regime di lavoro subordinato comporta che il fulcro dell’indagine si sposta soprattutto alla verifica dell’autenticità del rapporto di associazione. Tale rapporto, come già rilevato in precedenza, ha come indefettibile elemento essenziale, che ne connota la causa, il sinallagma tra partecipazione al rischio dell’impresa gestita dall’associante a fronte del conferimento dell’apporto (in questo caso, lavorativo) dell’associato, intendendosi, peraltro, che in tal caso che l’associato lavoratore deve partecipare agli utili e alle perdite (ex art. 2554 c.c.), non essendo ammissibile un contratto di mera cointeressenza agli utili di un’impresa senza partecipazione alle perdite, in quanto l’art. 2554, che pur in generale lo prevede, richiama l’art. 2102 c.c., quanto alla sola partecipazione agli utili attribuita al prestatore di lavoro, mostrando così di escludere l’ammissibilità di un contratto di mera cointeressenza quando l’apporto dell’associato consista in una prestazione lavorativa.

Orbene la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione degli indicati principi e, avuto riguardo alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa,è giunta, con motivazione puntuale e non contraddittoria, al convincimento, che fossero emersi i tratti maggiormente tipici del rapporto di lavoro subordinato, ha ritenuto pertanto non determinante la qualificazione formale, che le parti avevano dato al rapporto contrattuale escludendo che le stesse, con la stipula nel 1996 del contratto di associazione in partecipazione, avessero novato ovvero significativamente modificato il rapporto esistente da anni tra le stesse. A tale conclusione la Corte è giunta attraverso il rigoroso e puntuale esame delle risultanze istruttore, che depongono tutte nel senso che, pur a seguito della stipula del contratto di associazione in partecipazione, le modalità di svolgimento del lavoro da parte della M. non erano cambiate, essendo ella rimasta inserita nella struttura aziendale, legata al rispetto di un preciso orario di ufficio (ampliabile in base alle esigenze del lavoro), sottoposta al controllo penetrante e costante del dominus (arch. P.) e dunque sottoposta al potere direttivo, organizzativo e disciplinare dello stesso datore, senza alcuno spazio di autonomia in ordine alle modalità di estrinsecazione del rapporto, essendo anzi la predetta tenuta ad “avvertire” in caso di assenza.

Rispetto a tale situazione di fatto, tale da far ritenere tamquam non esset l’intervenuta stipula formale del contratto associativo, la Corte territoriale ha escluso la partecipazione della M. al rischio di impresa, che caratterizza l’associazione in partecipazione, nel senso della partecipazione agli utili e alle perdite (con l’assenza di un garanzia di guadagno per il prestatore di lavoro). In definitiva sulla base degli esposti presupposti di fatto e di diritto la Corte di Appello, avuto riguardo alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, è giunta, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, al convincimento che nel caso di specie si ravvisavano i tratti maggiormente tipici del rapporto di lavoro subordinato.

5. In conclusione il ricorso come sopra articolato è destituito di fondamento e va rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in Euro 50,00 per esborsi ed Euro 4000,00 per compensi, oltre accessori di legge.

Redazione