Ritardata restituzione dell’immobile (Cass. n. 9722/2013)

Redazione 22/04/13
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Ritenuto in fatto

1. – Con sentenza resa pubblica l’8 gennaio 2007, la Corte di appello di Ancona respingeva il gravame interposto da B.G. e N.C. avverso la sentenza del Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Senigallia, che aveva a sua volta respinto la domanda dai medesimi proposta nei confronti di L.V., al fine di sentir dichiarare, in via principale, l’illegittimità del recesso da quest’ultimo comunicato con raccomandata del 6 marzo 1998 dal contratto di locazione di immobile ad uso laboratorio, in quanto privo di valido motivo, con consequenziale condanna dello stesso V. al pagamento dei canoni maturati dall’ottobre 1998 al gennaio 2007 (per Euro 67.139,40); in via subordinata, per sentir condannare il medesimo conduttore al risarcimento dei danni patiti da essi attori per il tardivo rilascio dell’immobile (avvenuta soltanto in data 18 ottobre 1998), nella misura di Euro 15.493,71, in ragione della risoluzione del contratto di locazione nel frattempo stipulato da essi B. e C. con C.M. a seguito della disdetta del V., oltre ai canoni non percepiti pari ad Euro 89.243,75.
1.1. – La Corte territoriale – per quanto ancora interessa in questa sede – osservava, in relazione al dedotto inadempimento del V., che questi avrebbe dovuto procedere al rilascio dell’immobile in data 13 settembre 1998, mentre era rimasto nel possesso dello stesso sino al 18 ottobre 1998, ma che, tuttavia, la sottoscrizione del contratto di locazione con M.C. era avvenuta in data 11 settembre 1998, “allorché appariva evidente che l’immobile non poteva essere consegnato al locatore nei due giorni successivi”, con la conseguenza che “si presentava, quantomeno, imprudente convenire una penale di L. 1.000.000 per ogni giorno di ritardo nella messa a disposizione del bene al nuovo locatore”. Sicché, soggiungeva il giudice di appello, dovendo il maggior danno ai sensi dell’art. 1591 cod. civ. essere rigorosamente provato, in “siffatto ambito” operava la regola dell’art. 1227, secondo comma, cod. civ., per cui l’invocato risarcimento non poteva essere riconosciuto, giacché, essendo i locatori “consapevoli del fatto che il V. non avrebbe potuto liberare il bene alla prevista data del 13 settembre 1998”, la conclusione di un contratto di locazione “prevedente un termine essenziale e l’applicazione di una penale particolarmente onerosa” non poteva configurarsi come una condotta improntata ad un dovere di diligenza normale “adeguata alla natura del rapporto in questione”.
2. – Per la cassazione di tale sentenza ricorrono B.G. e N.C., affidando le sorti dell’impugnazione a quattro motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso L.V. .

Considerato in diritto

1. – Con il primo mezzo è denunciata inesistenza, nullità della sentenza, per violazione e falsa applicazione degli artt. 132, 133, 161 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ..
I ricorrenti evidenziano che la sentenza impugnata è stata emessa il 23 gennaio 2007, data dell’udienza di discussione, mentre la data del suo deposito risulta, con attestazione del cancelliere ai sensi dell’art. 133 cod. proc. civ., essere quella dell’8 gennaio 2007. Sicché, la sentenza difetterebbe di un suo requisito essenziale e cioè della data di pubblicazione, considerato che quella apposta in calce “non può essere rispondente alla realtà”.
Il motivo si chiude con il seguente quesito di diritto: “se sia vero che la data di pubblicazione sia requisito essenziale della sentenza in modo che la sua assenza, ovvero la sua non palese veridicità costituisca causa di nullità o inesistenza della sentenza stessa”.
1.1. – Il mezzo è inammissibile, anche a prescindere dalla inadeguatezza della formulazione del quesito di diritto che lo assiste (formulazione da reputarsi necessaria nel caso di specie anche tenuto conto dell’orientamento più restrittivo in materia, che, in ipotesi di denuncia di errores in procedendo, ne postula l’indispensabilità ove il motivo richieda la risoluzione di una questione giuridica: Cass., 5 ottobre 2012, n. 17059), giacché affetto da astrattezza per essere del tutto privo di aggancio alla fattispecie concreta oggetto di cognizione.
La censura, infatti, non evidenzia quale sia l’interesse a far valere il vizio dedotto.
Premesso che la data di pubblicazione della sentenza è requisito estrinseco alla sentenza stessa – che neppure viene a determinarne la nullità (cfr., in motivazione, Cass., sez. un., 1 agosto 2012, n. 13794), considerato che l’art. 132 cod. proc. civ. non lo menziona tra quelli essenziali, facendo invece riferimento alla data di deliberazione della decisione – che si presenta funzionale rispetto a determinati effetti giuridici e, segnatamente, alla decorrenza dei termini per le impugnazioni della stessa, i ricorrenti avrebbero dovuto specificare quale pregiudizio sia ad essi derivato dalla apposizione, ai sensi dell’art. 133 cod. proc. civ., di una data di pubblicazione della sentenza diversa da (e precedente a) quella di deliberazione della stessa, posto che hanno compiutamente esercitato il loro diritto di impugnazione a seguito di notificazione della sentenza stessa da parte dell’appellato vittorioso. Ciò in quanto – come affermato da questa Corte in più occasioni (tra le altre, Cass., 21 febbraio 2008, n. 4435; Cass., 12 settembre 2011, n. 18635) – la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo, con la conseguenza che, ove il ricorrente non indichi lo specifico e concreto pregiudizio subito, l’addotto error in procedendo non acquista rilievo idoneo a determinare l’annullamento della sentenza impugnata.
2. – Con il secondo mezzo è prospettato il difetto di procura ad litem in appello, con violazione e falsa applicazione degli artt. 83, 163, terzo comma, 166, 342 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ..
Si sostiene che l’unica procura effettivamente rilasciata dal V. sarebbe quella a margine della comparsa di costituzione e risposta in primo grado dinanzi al Tribunale di Ancona, mentre nella comparsa di costituzione in appello non vi sarebbe alcun richiamo a detta procura, né indicazione del suo precedente rilascio al difensore, con la conseguenza che dovrebbe reputarsi invalida tutta l’attività difensiva svolta in secondo grado “per difetto di procura speciale ad litem, con tutte le conseguenze che ne dovranno discendere circa la condanna alle spese”.
Viene conclusivamente formulato il seguente quesito di diritto: “se sia vero che la procura speciale ad litem rilasciata in primo grado e valida anche per giudizio di appello debba essere esplicitamente richiamata in sede di costituzione in appello pena il difetto di procura ad litem in secondo grado”.
2.1. – Il mezzo non può trovare accoglimento.
Pur in disparte il profilo di inammissibilità che concerne la formulazione del quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., non rispondente (già solo per la sua astrattezza) ai criteri enucleati da questa Corte nell’interpretazione, che costituisce ormai “diritto vivente”, della citata norma processuale, il motivo è privo di fondamento.
Posto, infatti, che con esso si deduce unicamente l’assenza del richiamo nell’atto di costituzione in appello della procura rilasciata in primo grado, nel quale atto, peraltro, si postula anche la presenza di “formula estesa all’eventuale grado di appello”, il rilascio in primo grado di procura alle liti valida anche per il giudizio di impugnazione rende ammissibile e valida la costituzione dell’appellato anche in difetto di indicazione nella comparsa di costituzione in sede di gravame del conferimento di procura al difensore. Principio, questo, che mutua il proprio fondamento da quell’orientamento giurisprudenziale, andatosi consolidando (in contrasto con il più risalente indirizzo al quale si richiamano i ricorrenti), secondo cui “non costituisce causa d’inammissibilità dell’atto d’appello l’invalidità della relativa procura, qualora il difensore sia altresì munito di altra procura valida, anche per la proposizione del gravame, rilasciatagli in primo grado” (Cass., 5 giugno 2003, n. 8985; Cass., 14 ottobre 2005, n. 19975; Cass., 10 dicembre 2009, n. 25810).
3. – Con il terzo mezzo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1221, secondo comma, cod. civ. e 345, secondo comma, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per il “divieto di nuove eccezioni in appello”.
La Corte territoriale avrebbe fondato la decisione di rigetto delle pretese risarcitorie avanzate da essi attori – appellanti facendo leva sulla norma di cui all’art. 1227, secondo comma, cod. civ., che impone al creditore di usare l’ordinaria diligenza per evitare i danni derivanti dal’inadempimento della controparte, la quale prevede un’eccezione in senso proprio, sollevata dal convenuto – appellato soltanto con la comparsa di costituzione in appello. Sicché, il giudice del gravame avrebbe violato la disposizione che vieta in appello la proposizione di nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio.
A chiusura del motivo è formulato il seguente quesito di diritto: “se sia vero che ai sensi dell’art. 345 II comma c.p.c. nel giudizio di appello non possa per la prima volta essere proposta eccezione ex art. 1227 II c.c., essendo la stessa mai stata avanzata nel corso del primo grado e che la relativa preclusione è rilevabile d’ufficio anche la prima volta in sede di legittimità”.
3.1. – Il motivo non può trovare accoglimento.
Con esso si denuncia un error in procedendo e, segnatamente, un vizio di extrapetizione del giudice di appello, che si sarebbe pronunciato d’ufficio su eccezione di parte, quale in effetti è – secondo la giurisprudenza di questa Corte (tra le tante: Cass., 25 maggio 2010, 12714) – quella sul dovere del danneggiato di evitare i danni tramite l’uso dell’ordinaria diligenza, di cui al secondo comma dell’art. 1227 cod. civ..
La censura, anzitutto, non è confezionata secondo il principio di specificità che deve assistere la denuncia dell’error in procedendo (più di recente, Cass., sez. un., 22 maggio 2012, n. 8077), al fine di consentire a questa Corte di procedere utilmente a svolgere la sua funzione di giudice del “fatto processuale” attraverso l’esame degli atti previamente e puntualmente indicati dalla parte, alla luce di una ricostruzione della vicenda processuale strettamente attinente al vizio che si deduce.
Nel caso di specie, i ricorrenti si sono limitati al generico assunto sul fatto che il V. abbia sollevato detta eccezione soltanto in sede di costituzione in appello, senza dar conto del contenuto delle memorie di costituzione dal medesimo depositate e ciò in correlazione alla particolare scansione della vicenda processuale, che ha visto una prima fase – con relativi atti di citazione e costituzione del convenuto – terminata con sentenza di incompetenza, ed una seconda fase, iniziata con la riassunzione del giudizio dinanzi al giudice competente, anch’essa connotata dai rispettivi atti di citazione e costituzione del convenuto in riassunzione. E siffatta generica prospettazione della doglianza appare ancor più risaltare in ragione della circostanza – apprezzabile direttamente ex actis, cui questa Corte ha accesso in ragione della natura del vizio denunciato – che nella comparsa di costituzione e risposta depositata (in data 13 marzo 2003) nel giudizio di riassunzione dinanzi al Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Senigallia (dinanzi al quale la causa è stata riassunta a seguito di declaratoria di incompetenza del Tribunale di Ancona), il V. eccepiva non soltanto la simulazione del contratto di locazione stipulato da B. e C. con la M. , ma anche che esso “non legittima i ricorrenti a richiedere il risarcimento del danno” (p. 3), là dove poi si precisava – dopo aver ricostruito la vicenda contrattuale ed il relativo contenuto – che “il danno, di cui si richiede il risarcimento, non è conseguenza immediata e diretta del comportamento del V. , bensì semmai del comportamento scientemente e volutamente colposo o inadempiente dei coniugi B. “.
4. – Con il quarto mezzo è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1227, secondo comma, e 1591 cod. civ., nonché vizio di motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ..
I ricorrenti assumono che, ai fini dell’applicazione dell’art. 1227, secondo comma, cod. civ., rileverebbero soltanto i comportamenti del creditore successivi all’inadempimento ed al verificarsi dei danni, mentre nella specie la Corte territoriale, nell’escludere il maggior danno ad essi derivato a seguito della penale corrisposta al terzo con il quale era stato stipulato l’11 settembre 1998 il contratto di locazione dello stesso immobile che il V. avrebbe dovuto rilasciare il 13 settembre 1998, avrebbe erroneamente applicato l’anzidetta disposizione, facendo riferimento a comportamenti del creditore anteriori all’inadempimento dello stesso V. . Peraltro, il giudice del merito avrebbe dovuto tenere in considerazione soltanto il comportamento del creditore eccedente l’ordinaria diligenza, mentre nella condotta di essi attuali ricorrenti non era ravvisabile alcun profilo di colpa, posto che se avessero ricevuto l’immobile il 13 settembre 1998, lo avrebbero poi potuto consegnare “tranquillamente” alla nuova conduttrice.
Vengono, quindi, formulati i seguenti quesiti di diritto: “a) Se sia vero che nel giudizio di risarcimento danni per inadempimento contrattuale a norma dell’art. 1227, secondo comma, c.c. ed al fine di escludere la risarcibilità dei danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, vanno presi in considerazione soltanto i comportamenti tenuti dal creditore – danneggiato successivamente all’inadempimento del debitore – danneggiante ed al verificarsi del danno, restando irrilevanti i comportamenti tenuti in epoca antecedente al verificarsi dell’inadempimento; b) se sia vero che, facendo l’art. 1227 II comma c.c. esplicito riferimento all’elemento della colpa, il giudice deve prendere in considerazione non ogni comportamento del creditore che astrattamente possa aggravare il danno, ma solamente quel comportamento colposo che eccede i limiti dell’ordinaria diligenza; c) se sia vero che non può essere considerato colposo il comportamento del creditore che facendo legittimo affidamento sull’adempimento di una altrui obbligazione, contragga a sua volta obbligazioni nei confronti di terzi”; d) se sia pertanto illogico ritenere i proprietari di un immobile obbligati prima di procedere a nuova locazione ad attendere la materiale ed effettiva restituzione del bene, senza poter fare affidamento sulla data di rilascio indicata dal conduttore, scontando quindi inevitabilmente i danni di un periodo più o meno lungo di mancata locazione”.
4.1. – Il motivo è infondato.
Occorre muovere dalla statuizione resa dalla Corte territoriale, posto che al giudice di merito è riservato l’apprezzamento, insindacabile ove congruamente motivato (Cass., 5 luglio 2007, n. 15231), sulla ricorrenza dei presupposti fattuali che consentono di sussumere la fattispecie concreta in quella legale dettata dall’art. 1227, secondo comma, cod. civ..
La Corte di appello di Ancona ha inquadrato il danno che i locatori dell’immobile (B. e C. ) avrebbero dovuto evitare, ai sensi del capoverso del citato art. 1221, nel “maggior danno” al cui ristoro era tenuto, in base all’art. 1591 cod. civ., il conduttore in mora nella restituzione della cosa locata (V. ), in capo al quale, ex lege, sarebbe spettato anzitutto di versare il corrispettivo fino alla riconsegna. Nella specie, tale maggior danno evitabile è stato ravvisato nella perdita patrimoniale patita dai locatori per effetto del dovuto pagamento a titolo di penale della somma di L. 1.000.000 “per ogni giorno di ritardo nella messa a disposizione del bene al nuovo locatore” e dalla perdita dei canoni locatizi correlata alla risoluzione del contratto di locazione in forza del pattuito termine essenziale. Ciò sull’ulteriore presupposto, inerente sempre all’operatività dell’art. 1227, secondo comma, cod. civ., di una condotta, da parte dei locatori, non improntata ad ordinaria diligenza, individuata nella congiunta predisposizione dell’anzidetta clausola penale, “particolarmente onerosa”, e del termine essenziale di adempimento della prestazione in seno al contratto di locazione stipulato con il terzo in data (11 settembre 1998) prossima a quella in cui il precedente conduttore del bene avrebbe dovuto rilasciare l’immobile locato (13 settembre 1998), “allorché appariva evidente che l’immobile non poteva essere consegnato nei due giorni successivi”; peraltro, là dove gli stessi locatori intimavano l’immediato rilascio del bene al V. con lettera datata 15 settembre, adducendo “impegni verso terzi… nel frattempo assunti”.
4.1.1. – Le doglianze dei ricorrenti si incentrano essenzialmente sulla concorrenza di due argomenti e cioè che la condotta da essi tenuta, come locatori nei confronti del terzo contraente, non sarebbe rilevante in relazione alla fattispecie di cui all’art. 1227, secondo comma, cod. civ., giacché antecedente all’inadempimento del precedente conduttore (a tal fine evocando il precedente costituito da Cass., 9 maggio 2000, n. 5883) e che la stipula tempestiva di un nuovo contratto di locazione era volta alla tutela dei propri interessi, anche nella prospettiva di evitare danni da mancata locazione futura, in ragione dell’affidamento che avrebbero potuto riporre nella fissata data di rilascio del bene locato.
Esse, tuttavia, non sono tali da scardinare l’impianto motivazionale della sentenza impugnata, il quale è logicamente supportato e rispondente a diritto, sia pure, sotto tale ultimo profilo, con le precisazioni ed integrazioni che sono consentite a questa Corte dall’art. 384 cod. proc. civ..
4.2. – Invero, non è dato dubitare che la conclusione di un nuovo contratto di locazione, con effetti successivi alla cessazione del rapporto in atto, è condotta non soltanto ascrivibile a legittimo esercizio dell’autonomia contrattuale, indirettamente tutelata dall’art. 41 Cost. in quanto strumento della libertà di iniziativa economica (C. cost., sentenze n. 393 del 2000, n. 70 del 2000, n. 268 del 1994, n. 241 del 1990), ma anche consentanea, in linea di principio, ad evitare conseguenze pregiudizievoli ulteriori e, dunque, frutto di un diligente adoperarsi del locatore (in questa ottica possono leggersi quelle pronunce che individuano un onere del locatore di attivarsi per concludere un contratto di locazione sostitutivo del precedente: Cass., 19 dicembre 1980, n. 6561).
Nel caso di specie, però, ciò che ha guidato il motivato convincimento del giudice del merito sono state le peculiari circostanze modali connotanti la condotta negoziale anzidetta, da cui si è determinato il danno che il giudice del merito ha ritenuto evitabile ai sensi dell’art. 1227, secondo comma, cod. civ.. Ciò in forza di un inquadramento della fattispecie nell’alveo del capoverso della citata norma sul quale può convenirsi, giacché il pregiudizio “evitabile” si è prodotto in un momento successivo alla sequenza inadempimento – danno imputabile al debitore, essendo scaturiti dalla mancata restituzione dell’immobile locato nei termini contrattuali (e, dunque, dall’originarsi della fattispecie risarcitoria di cui all’art. 1591 cod. civ.) sia il danno emergente per la corresponsione della penale al terzo nuovo conduttore, che il lucro cessante per la perdita dei canoni di locazione in conseguenza della risoluzione di tale ultimo contratto per inosservanza del pattuito termine essenziale.
In siffatto contesto, la Corte territoriale ha ritenuto che i locatori, allorché venne stipulato il nuovo contratto di locazione, fossero consapevoli che l’immobile non sarebbe stato riconsegnato dal vecchio conduttore nei termini di scadenza contrattuale e che, dunque, fosse chiaramente prevedibile il suo inadempimento nella restituzione del bene locato. Sicché, non già la conclusione del nuovo contratto di locazione, bensì il fatto che in esso siano stati contemplati una clausola penale e un termine essenziale caratterizzati da irragionevole onerosità per gli stessi locatori ha integrato un comportamento contrario a buona fede e correttezza da parte di questi ultimi, in veste di creditori verso il precedente conduttore, in quanto condotta strettamente correlata ad un inadempimento, da parte di detto conduttore, certo nella sua verificazione o che, comunque, palesava un elevato grado di probabilità di realizzazione. Non senza considerare, poi, che la contrarietà della condotta anzidetta ai criteri di cooperazione nell’esecuzione del contratto e, dunque, alla diligenza richiesta dall’art. 1227 cod. civ., è stata reputata tanto più significativa in quanto i locatori non avevano neppure provveduto ad informare tempestivamente ed adeguatamente il conduttore, che era ancora nella detenzione dell’immobile, del nuovo contratto di locazione concluso a condizioni particolarmente svantaggiose, mancando in tal modo di assolvere un onere rientrante nell’ambito più generale obbligo di buona fede oggettiva o correttezza, ex artt. 1175 e 1375 cod. civ. (si veda: Cass., 20 febbraio 2006, n. 3651; Cass., 30 ottobre 2007, n. 22860; Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28056; in motivazione: Cass., 27 aprile 2011, n. 9404), siccome suscettibile di integrare una condotta non particolarmente gravosa in capo ai creditori – locatori, ma, al contempo, idonea a porre il debitore – condutture nelle condizioni di valutare appieno la situazione incombente (difatti – come evidenziato nella sentenza impugnata – i locatori, solo successivamente al dispiegarsi degli effetti del nuovo contratto di locazione, provvedevano ad inviare al conduttore una missiva nella quale facevano cenno “a impegni verso terzi… nel frattempo assunti”, senza tuttavia specificarli in concreto).
4.3. – La ricostruzione operata dalla Corte territoriale risulta, quindi, in linea con le essenziali coordinate applicative che la norma di cui all’art. 1227, secondo comma, cod. civ. esibisce e cioè l’esistenza di un danno che trova fonte nell’inadempimento ascrivibile al debitore ed il comportamento che si richiede al creditore – danneggiato al fine di evitare l’anzidetto pregiudizio.
Quanto a siffatto ultimo profilo, la “ordinaria diligenza” che il capoverso dell’art. 1227 cod. civ. postula è quella che trascende il mero interesse creditorio e si orienta, invece, alla salvaguardia dell’equilibrio residuale del rapporto obbligatorio già compromesso nella sua funzionalità, il quale, malgrado viva la sua fase patologica, non può – in ragione di quella solidarietà che, seppur con accenti differenti, lo informa dal suo sorgere sino al suo definitivo esaurimento – sbilanciarsi in modo cosi irragionevole e sproporzionato, tanto da far gravare sul debitore conseguenze pregiudizievoli che, per l’appunto, avrebbero potuto, invece, evitarsi da parte del creditore. Ed è proprio in tal senso che la diligenza di quest’ultimo trova il suo referente nei criteri di buona fede e correttezza (si veda anche Cass., 9 gennaio 2001, n. 240), che, armonizzando il rapporto obbligatorio in senso solidaristico, richiedono al creditore, in questa precipua fase, una condotta che circoscriva l’area risarcibile a quella che può ragionevolmente addossarsi al debitore, senza però pretendere che lo stesso creditore patisca un sacrificio eccessivo, ma soltanto apprezzabile. La clausola di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. diventa, pertanto, misura della diligenza e cioè misura la cooperazione del creditore in vista della riduzione dell’area risarcibile, dalla quale espungere i danni evitabili, perché ascrivibili ad un comportamento assolutamente indifferente alla salvaguardia dell’altrui sfera giuridica.
La ratio dell’art. 1227, secondo comma, cod. civ. – che si articola coonestando fattori causali ed elementi equitativi – appare, dunque, quella di non far gravare sul debitore quelle conseguenze pregiudizievoli che, sebbene correlate al suo comportamento inadempiente, non trovano nel dovuto impegno cooperativo del creditore il ragionevole e proporzionato argine, deprivando in tal modo il rapporto obbligatorio del substrato solidaristico che lo deve permeare.
In tale ottica, la buona fede e la correttezza sono suscettibili di essere integrati da un prisma di comportamenti non selezionabili a priori, come del resto avvertito già da tempo da questa Corte, che ha affermato come, alla stregua del capoverso di cui alla norma dell’art. 1227 cod. civ., i principi generali ex art. 1175 cod. civ. impongono al creditore una condotta anche attiva o positiva diretta a limitare le conseguenze dannose del comportamento del debitore, “intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, all’uopo richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici” (Cass., 20 novembre 1991, n. 12439).
4.4. – Dunque, anche la condotta del creditore che si correli ad un inadempimento di certa verificazione (o, comunque, che presenti un grado elevato di probabilità di realizzazione) e, come tale, sia prevedibile, ove connotata da contrarietà a buona fede e correttezza – quali criteri declinabili, in siffatto contesto, anche come doveri di precauzione – è suscettibile di integrare i presupposti di appplicabilità della norma di cui all’art. 1227, secondo comma, cod. civ. e di rendere, quindi, non risarcibile il danno, pur sempre conseguente a detto inadempimento, che avrebbe potuto essere evitato dal creditore medesimo. Ciò alla stregua di un accertamento che è riservato al giudice di merito quanto ai fatti idonei ad integrare la fattispecie anzidetta, il quale rimane insindacabile in sede di legittimità ove sorretto da congrua ed adeguata motivazione.
Né tale conclusione si presta ad entrare in collisione con il principio enunciato dalla citata Cass. n. 5883 del 2000, ed evocato dai ricorrenti, giacché, come emerge dalla motivazione di detta pronuncia, la ritenuta irrilevanza – al fine della operatività dell’art. 1227, secondo comma, cod. civ. – del comportamento del creditore in epoca antecedente all’inadempimento del debitore è legata ad un giudizio sulla imprevedibilità dell’inadempimento medesimo (cosi in motivazione la predetta sentenza: “In ogni caso, ciò che appare assorbente è l’assoluta irrilevanza del comportamento, risalente ad epoca antecedente all’insorgenza dell’inadempimento della controparte, del resistente, il quale non poteva certo prevedere l’inadempienza dell’odierno ricorrente…”), là dove, peraltro, la medesima decisione mostra di valorizzare, alla stregua della letterale formulazione della citata norma, la verificazione del danno, di cui, nel caso di specie, non è dato dubitare in base alla ricostruzione innanzi evidenziata.
5. – Il ricorso va, dunque, rigettato ed i ricorrenti, in quanto soccombenti, condannati, in solido tra loro, al pagamento in favore del controricorrente delle spese processuali del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in complessivi Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Redazione