Risarcimento danni per revoca agevolazioni (Cons. Stato n. 689/2012) (inviata da R. Staiano)

Redazione 09/02/12
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FATTO

Con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado l’odierna appellante aveva chiesto al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio – Sede di Roma – di condannare in via solidale la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministero dello sviluppo economico e l’******** s.p.a al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dall’illecito commesso in proprio pregiudizio in relazione alla violazione dell’art. 1 del 1° Prot. Addizionale alla Cedu, in misura non inferiore a euro 5.525.000,00 (di cui euro 5.500.000,00 per danni patrimoniali ed euro 25.000,00 per danni non patrimoniali), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, ovvero nella misura di giustizia e anche in via equitativa.

In via subordinata, aveva chiesto disporsi in proprio favore la corresponsione dell’indennizzo dovuto ai sensi dell’art. 21 quinquies della legge 7 agosto 1990 n. 241 a seguito della revoca delle agevolazioni ottenute, in misura non inferiore a euro 4.600.000,00, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, ovvero nella misura di giustizia e anche in via equitativa.

L’odierna appellante aveva premesso di avere già proposto la medesima domanda nel 2005 nei confronti dell’Anas al giudice ordinario e che con sentenza del 30 aprile 2008 il Tribunale di Isernia aveva declinato la giurisdizione.

In punto di fatto essa – impresa operante nel settore turistico – aveva fatto presente che il petitum era giustificato dagli accadimenti succedutisi a seguito della propria iniziativa di voler sviluppare un progetto per la realizzazione di un centro turistico e sportivo nel territorio comunale di Pettoranello del Molise. In relazione a detta iniziativa imprenditoriale essa aveva ottenuto dall’amministrazione comunale, nell’anno 2000, la concessione del diritto di superficie per un’ampia area a ciò destinata (la relativa convenzione, avente durata trentennale, venne formalizzata il 26 febbraio 2002) e dal Ministero delle attività produttive, nel luglio 2002, un contributo in conto impianti per euro 1.522.083,00, subordinato al completamento dell’iniziativa entro 48 mesi dalla concessione del beneficio (a pena di revoca delle agevolazioni).

Con nota del 24 febbraio 2004 inoltrata a fronte dell’istanza per il rilascio del permesso di costruire l’odierna appellante era stata informata dal comune dell’avvenuta trasmissione (da parte della Regione Molise agli enti locali interessati) del presumibile tracciato dell’autostrada S. Vittore-Termoli.

Esso interessava (tra l’altro) l’area di ubicazione del menzionato progetto turistico.

L’odierna appellante aveva quindi invano interpellato l’Anas al fine di ottenere lo spostamento del tracciato (non ricevendo riscontro ma acquisendo invece la certezza dell’interferenza del progetto, approvato il 3 marzo 2004, con l’iniziativa turistica progettata) e faceva presente di essersi infruttuosamente, attivata presso il Comune di Pettoranello del Molise (e anche presso altri enti locali) per il reperimento di altri suoli idonei a ospitare l’investimento.

Senonché tali iniziative erano state vane ed essa aveva patito la “risoluzione della convenzione di concessione del diritto di superficie”, disposta con deliberazione consiliare dell’aprile 2004.

Il primo giudice, respinte le eccezioni di inammissibilità proposte dalle amministrazioni odierne appellate (le quali sostenevano che in assenza di previa declaratoria di illegittimità di atti amministrativi non potesse proporsi alcun petitum risarcitorio), ha in primo luogo inquadrato i termini del petitum, evidenziando che il “bene” leso sarebbe integrato dal “possesso” consistente nel diritto di superficie concesso alla ricorrente dall’ente locale, dal diritto di credito per le agevolazioni e dalla legittima aspettativa nella realizzazione del progetto. L’“interferenza” (illegittima e comunque sproporzionata rispetto ai diritti della appellante, stante la possibilità di collocare altrove l’opera) riposava invece nella predisposizione del menzionato tracciato autostradale ( omportante la revoca del diritto di superficie e la perdita delle agevolazioni).

Secondo la tesi prospettata dall’odierna appellante, peraltro, gli atti interferenziali sarebbero stati, anche isolatamente considerati, illegittimi in ragione: dell’approvazione del progetto dell’infrastruttura stradale successivamente alla concessione delle agevolazioni per le aree depresse e senza espletamento di attività istruttoria; dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento; della mancata previsione di alcun indennizzo in proprio favore; di una serie di violazioni dell’art. 3 del d.Lgs. n. 190 del 2002 (tra cui la mancata trasmissione del progetto nei termini previsti, la carenza documentale, l’omessa evidenziazione delle fasce di rispetto e delle caratteristiche anche finanziarie dell’opera, la mancata previsione delle necessarie opere strumentali, il difetto di v.i.a.).

Il primo giudice ha quindi preso in esame la domanda avanzata in via principale, e l’ha respinta.

Pur ammettendo in via di principio che la società appellante, (ancorché non proprietaria) potesse comunque vantare un titolo di collegamento col “bene” idoneo a porla in una situazione analoga a quella del proprietario, ha evidenziato che la invocata disposizione CEDU ammetteva che un’ingerenza della pubblica amministrazione potesse attuarsi al ricorrere di una causa di pubblica utilità (alla stessa stregua della regola di cui all’art. 42 della Costituzione).

Rilevato che neppure l’appellante dubitava del diritto delle amministrazioni appellate di realizzare un’opera di sì rilevante impatto quale un’autostrada senza rinvenire in via di principio condizionamenti nelle iniziative economiche intraprese da privati cittadini, ha quindi esaminato gli atti asseritamente lesivi (id est: il progetto teso a realizzare l’autostrada) ed ha escluso che gli stessi fossero intrinsecamente affetti da vizi di legittimità.

Ciò perché, ai sensi dell’art. 3 commi 5 e 7 del d.Lgs. 20 agosto 2002 n. 190 applicabile alla controversia ratione temporis (comma 5: “il progetto preliminare, istruito secondo le previsioni del presente articolo, è approvato dal CIPE”) la delibera del Consiglio di amministrazione dell’Anas n. 14 del 3 marzo 2004 aveva valenza meramente prodromica (con finalità di pre-istruttoria) rispetto all’approvazione del Cipe, e non era suscettibile di arrecare immediata lesione all’appellante.

L’obiezione dell’appellante a tale ricostruzione, (fondata sull’affermazione contenuta nell’“avviso” per la selezione del promotore del 3 luglio 2007, secondo cui “il tracciato individuato nel progetto preliminare ANAS risulta vincolante ai fini della predisposizione della proposta”) non spiegava rilevanza, posto che la procedura era ancora ad uno stadio iniziale e non si aveva alcuna certezza circa l’immutabilità di detto “progetto preliminare” (certezza peraltro neppure sussistente al momento della emissione della decisione di primo grado), in quanto perdurava la possibilità che venissero assunte determinazioni divergenti da quelle originarie, in termini tanto di concreta realizzazione dell’intervento – finanziato, ma solo in parte, nel marzo 2009 -, quanto di modificazione delle modalità esecutive.

Il primo giudice, però, ha convenuto che la pendenza della procedura per l’approvazione del detto progetto legittimamente potesse “consigliare” a un accorto imprenditore di desistere dalla propria iniziativa, dal che discendeva che comunque potesse affermarsi la “lesività” del procedimento intrapreso ed intersecante l’iniziativa progettata dall’appellante, e che dovessero quindi essere esaminati gli ipotizzati vizi di legittimità attingenti la procedura di approvazione del progetto

Il Tribunale amministrativo ha quindi (paragrafo 2.1.3. dell’impugnata decisione) esaminato partitamente i dedotti vizi (assenza di “bilanciamento di interessi”, difetto di istruttoria, violazione dell’art. 7 della legge 7 agosto 1990 n. 241) e ne ha escluso la sussistenza.

Ha quindi preso in esame la (subordinata) domanda di corresponsione di un compenso a titolo di indennizzo per l’implicita revoca delle agevolazioni determinata dalla sopravvenuta attività progettuale e fondata sia sull’art. 21-quinquies della legge 7 agosto 1990 n.241, che sull’ art. 1 I° Prot. add. Cedu.

Nel mezzo di primo grado il richiamo a tale ultima disposizione si fondava sulla tesi che la verificazione di una qualsiasi “interferenza” poteva anche riscontrarsi nell’approvazione di un’opera strategica impeditiva della soddisfazione dell’interesse del privato, e prescindeva dalla sussistenza di formali atti di revoca del diritto di superficie e dei contributi in passato concessi (tale condotta si assumeva integrata dal contegno del Ministero delle attività produttive, rimasto inerte sulle sollecitazioni in merito alla possibilità di rinvenire aree alternative -anche in una Regione limitrofa- per l’attuazione dell’intervento e nell’anteriorità della concessione del beneficio, elementi asseritamente idonei a qualificare la sopravvenuta attività provvedimentale della branca di amministrazione preposta allo sviluppo delle infrastrutture alla stregua di una revoca implicita della provvigione).

Il primo giudice ha disatteso anche questa domanda subordinata alla stregua di una duplice argomentazione.

Nel concordare con la prospettazione per cui l’operatività del citato art. 21quinquies non poteva essere esclusa anche laddove fosse stata configurata una revoca implicita, ha affermato di volere muovere da un approccio di natura sostanzialistico ed ha rilevato che, in una considerazione unitaria della persona giuridica-Stato, la scelta (dello Stato) di realizzare un’opera pubblica costituiva il superamento, all’esito di una rinnovata ponderazione dell’interesse pubblico, della precedente decisione (sempre riconducibile allo Stato) di ammettere il progetto dell’odierna appellante al regime incentivante.

Indipendentemente dalla formale giustificazione addotta per la “revoca” dell’agevolazione (la inerzia della odierna appellante nel realizzare il progetto turistico, in realtà ascrivibile ad una ponderata valutazione in ordine alla possibile realizzazione dell’autostrada insistente sulla medesima area), alla appellante si poteva in astratto riconoscere il diritto a percepire l’indennizzo a titolo di ristoro dei danni patiti, in conseguenza dello ius poenitendi esercitato dall’amministrazione.

Senonché, ha rilevato il Tribunale amministrativo, l’invocato l’art. 21 quinquies era entrato in vigore l’8 marzo 2005 (in quanto introdotto nell’ordinamento con la l. 11 febbraio 2005, n. 15, pubblicata il 21 febbraio), e dunque in epoca successiva al perfezionamento della revoca implicita, (individuata nella richiesta di “risoluzione concordata” della convenzione sull’utilizzo dei suoli comunali, formulata al Comune il 23 marzo 2004 e accettata dall’ente con deliberazione del 3 aprile 2004, comunicata all’interessata il successivo 16 aprile).

Ne discendeva, sempre per il Tribunale amministrativo, l’inapplicabilità della invocata disposizione, e neppure l’assenza, per il periodo anteriore all’entrata in vigore della l. n. 15 del 2005, di una norma fonte di obblighi indennitari poteva rilevare in termini di contrasto con la Costituzione.

Avverso la sentenza in epigrafe la società originaria ricorrente ha proposto un articolato appello evidenziando che la motivazione della impugnata decisione era apodittica ed aveva frainteso il petitum avanzato in primo grado.

Essa ha infatti sostenuto (pag. 8 dell’atto di appello) di avere chiesto al primo giudice in via principale il risarcimento del danno a causa della revoca implicita delle agevolazioni per violazione dell’art. 21 quinquies della legge 7 agosto 1990 n. 241 e dell’art. 1 del Protocollo Addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Soltanto secondariamente ed in via subordinata aveva chiesto che le venisse erogato l’indennizzo previsto dall’art. 21 quinquies della legge 7 agosto 1990 n. 241 e dall’art. 1 del Protocollo Addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Il primo giudice non si era pronunciato sul petitum principale ed aveva preso unicamente in esame – respingendolo – quello subordinato.

Nel merito, entrambe le richieste erano fondate e dovevano essere accolte.

L’appellata amministrazione ha depositato una articolata memoria chiedendo di respingere il ricorso perché infondato: in particolare ha sostenuto che nel caso di specie la posizione giuridica attiva asseritamente lesa neppure era riposante su di un autonomo titolo di natura reale, ma in una “aspettativa” attribuita (mercè provvedimento comunale) in sede di esercizio di potestà amministrativa pubbliche e ben comprimibile allorché configgente con superiori esigenze.

Sotto altro profilo, e quanto al petitum relativo alla liquidazione dell’indennizzo previsto dall’art. 21 quinquies della legge 7 agosto 1990 n. 241, la determinazione di soprassedere all’utilizzo dell’area di sedime era ascrivibile (unicamente) all’appellante, di guisa che era carente l’emissione di un atto autoritativo di natura revocatoria, costituente presupposto dell’applicabilità della disposizione predetta (che comunque era entrata in vigore successivamente alla conclusione della vicenda per cui è causa).

Alla pubblica udienza del 24 gennaio 2012 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.

DIRITTO

1.L’appello è infondato e merita di essere respinto nei termini di cui alla motivazione che segue.

1.1. Al fine di chiarire in via preliminare la cornice alla quale si atterrà il Collegio nello scrutinio delle dedotte doglianze si anticipa che si ritiene condivisibile l’impostazione seguita dal primo giudice nel valutare unitariamente la vicenda rappresentata dall’appellante, ancorché siano venuti in rilievo determinazioni provvedimentali provenienti da distinte Autorità amministrative.

In particolare, con riferimento al petitum proposto in primo grado dall’appellante, il Collegio condivide l’approccio del primo giudice, che ha qualificato la vicenda in termini sostanzialistici, nel convincimento dell’unitarietà della persona-giuridica Stato, allorché venga in rilievo una pretesa di natura risarcitoria od indennitaria (e considerando irrilevante lo “schermo” derivante dalla diversa soggettività giuridica degli enti che asseritamente concorsero ad arrecare il danno) e la possibile natura di “revoca implicita” delle determinazioni provvedimentali assunte (aspetto, questo, che verrà ulteriormente precisato quando si esaminerà il secondo motivo dell’appello).

Ciò implica che possa e debba essere presa in esame anche la domanda subordinata volta ad ottenere l’indennizzo a titolo di ristoro dei danni patiti, in conseguenza dello ius poenitendi esercitato dall’amministrazione, indipendentemente dalle formali giustificazioni addotte per la “revoca” dell’agevolazione.

1.2. Secondariamente, appare indubbio – ad avviso del Collegio – che la posizione giuridica attiva (sostanzialmente un diritto reale parziario quale quello di superficie) vantata dall’odierna appellante consenta la astratta invocabilità delle disposizioni della Cedu.

L’art. 1 del Protocollo Addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, infatti – sul quale di qui a poco ci si soffermerà più diffusamente-, prevede che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai princìpi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di emanare leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende. ”.

L’elemento oggettivo tutelato dalla fattispecie è stato costantemente interpretato in senso estensivo dalla giurisprudenza sovranazionale.

In particolare si è rilevato che “la nozione di «beni» può comprendere sia beni attuali sia valori patrimoniali, crediti compresi” purché “il titolare del credito dimostri che esso ha un fondamento sufficiente nel diritto interno” (Corte europea dir. uomo , sez. grande chambre, 06 ottobre 2005 , n. 1513).

Ne consegue la esattezza della deduzione del primo giudice secondo cui l’appellante, ancorché non intestataria di posizioni propriamente dominicali, potesse comunque vantare un titolo di collegamento col “bene” idoneo a porla in una situazione analoga a quella del proprietario.

2.Ciò premesso in via di inquadramento generale, per comodità espositiva ed al fine di meglio chiarire il convincimento reiettivo espresso dal Collegio si esamineranno separatamente la pretesa risarcitoria “principale” e quella indennitaria definita dalla stessa appellante “subordinata”, con l’avvertenza che il Collegio non concorda affatto con la tesi appellatoria secondo cui il primo giudice sarebbe incorso in una “omissione di pronuncia” (che comunque non esimerebbe questo Collegio dal decidere il merito della controversia: arg. ex Consiglio Stato , sez. IV, 19 giugno 2007, n. 3289: “l’omessa pronuncia su una o più censure proposte col ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo tale da comportare l’annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado, ma solo un vizio dell’impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo del merito della causa.”) avendo questi invece partitamente esaminato tutte le censure dedotte.

3.Venendo al merito, il petitum risarcitorio definito dall’appellante “principale” è infondato, al limite della inammissibilità.

L’appellante infatti, non ha neppure riproposto le – per il vero generiche e comunque puntualmente respinte nel merito dal Tribunale amministrativo – censure con le quali si era sostenuta la illegittimità degli atti amministrativi relativi alla costruzione dell’autostrada in area il cui tracciato interferiva con i fondi dove sarebbe dovuto sorgere il proprio insediamento imprenditoriale.

E per il vero neppure ha espressamente configurato dette iniziative quali illegittime, limitandosi a definirle “interferenziali” con il proprio “possesso” asseritamente tutelato dall’ art. 1 del Protocollo Addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo citando detta ultima norma (e quella di cui all’art. 21 quinquies della legge 7 agosto 1990 n. 241 parimenti utilizzata per supportare la propria prospettazione “subordinata” sulla quale ci si soffermerà di qui a poco).

3.1. Se così è, in carenza di alcuna affermazione e men che meno allegazione di alcun vizio attingente gli atti asseritamente lesivi, non può certo ravvisarsi una autonoma prospettazione (se non labiale) di una responsabilità di natura risarcitoria da atto illegittimo, ma, semmai, di una supposta “responsabilità da atto lecito”, il che costituisce, sostanzialmente, il nucleo della domanda prospettata in via subordinata.

Si rammenta in particolare che costituisce jus receptum nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato il principio per cui a fini classificatori e dogmatici “l’indennizzo, previsto dall’art. 21 quinquies l. n. 241 del 1990 introdotto dalla l. n. 15 del 2005, nel caso di revoca del provvedimento amministrativo “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario” non può confondersi con il risarcimento del danno.”(Consiglio Stato , sez. VI, 19 giugno 2009 , n. 4138).

I detti titoli di “responsabilità”, pertanto, devono essere tenuti nettamente distinti, in quanto “

la legittimità della revoca è il presupposto del diritto all’indennizzo, previsto dall’art. 21 quinquies l. n. 241/1990, atteso che il risarcimento del danno da responsabilità civile dell’amministrazione si fonda sul diverso presupposto della illegittimità del provvedimento.”(Consiglio Stato , sez. V, 06 ottobre 2010 , n. 7334).

Condivisibilmente, poi, si è ritenuto comunque che la predetta distinzione non spieghi effetti preclusivi a fini processuali: si è pertanto esattamente ritenuto, in passato, che

“deve ritenersi consentito nello stesso processo il cumulo delle azioni di risarcimento, sul presupposto dell’illegittimità della revoca, e di indennizzo, in via subordinata, in caso di infondatezza della domanda risarcitoria. “ (Consiglio Stato , sez. VI, 17 marzo 2010 , n. 1554).

3.2. Ferma la proponibilità, pertanto, nell’odierno giudizio del duplice titolo di responsabilità dell’Amministrazione, la infondatezza della domanda risarcitoria (non a caso ipotizzata facendo richiamo alle medesime disposizioni che fondano, nella prospettazione appellatoria, anche la richiesta di liquidazione dell’indennizzo) va ribadita sia alla luce della circostanza che nessuna illegittimità è stata neppure prospettata con riferimento agli atti amministrativi (approvazione del progetto del trattato autostradale) “fonte” dell’abbandono del progetto imprenditoriale, sia alla stregua della condivisibile giurisprudenza sovranazionale secondo cui l’ingerenza statuale che finisca con incidere sui beni del privato è consentita, purché realizzi un corretto equilibrio tra diritto sacrificato e interesse generale.

Si è detto in proposito, infatti, che “un’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve realizzare un giusto equilibrio tra le esigenze di interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo. La preoccupazione di assicurare un tale equilibrio si riflette nella struttura dell’art. 1 del Protocollo n. 1 considerato complessivamente, quindi anche nella seconda frase che deve essere letta alla luce del principio consacrato nella prima. In particolare, deve esistere un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito attraverso qualsiasi misura che privi una persona della sua proprietà. Al fine di determinare se la misura contestata soddisfi il giusto equilibrio voluto e, soprattutto, se non faccia gravare sui ricorrenti un onere sproporzionato, si devono prendere in esame le modalità d’indennizzo previste dalla legislazione interna. Senza il versamento di una somma ragionevolmente proporzionata al valore del bene, una privazione della proprietà costituisce normalmente un pregiudizio eccessivo, e un’assenza totale di indennizzo può giustificarsi sul piano dell’art. 1 del Protocollo n. 1 solo in circostanze eccezionali.”(Corte europea dir. uomo , sez. grande chambre, 06 ottobre 2005 , n. 1513).

Lo “statuto proprietario”, cioè (anche a volere considerare equiparata la posizione dell’appellante, a tal fine, seppur questi fosse soltanto attributario di una posizione derivata di natura ampliativa discendente dal provvedimento concessorio comunale) può essere tutelata soltanto allorché l’equilibrio con il sacrificio imposto non sussista, ovvero in ipotesi di riscontrata illegittimità dell’azione amministrativa (si rammenta in proposito l’orientamento comunitario – Corte Europea Diritti Uomo, 6 marzo 2007, n.43662 – che preclude di ravvisare una “espropriazione indiretta” o “sostanziale” in assenza di un idoneo titolo previsto dalla legge.).

Nel caso di specie (esclusa e comunque non scrutinabile, perché non riproposta in appello alcuna illegittimità a monte nella previsione del tracciato autostradale), appare non seriamente contestabile (e neppure per il vero decisamente messa in dubbio dall’appellante) la preminenza, sotto il profilo dell’interesse, della grande opera infrastrutturale di natura strategica progettata rispetto alla iniziativa imprenditoriale asseritamente ostacolata dalla prima, di guisa che risulta perfettamente rispettata la condizione legittimante il “sacrificio” della posizione del privato.

3.3. Né, per concludere sul punto, il “giusto equilibrio tra le esigenze di interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo” può essere prospettato facendo riferimento alla mancata previsione dell’indennizzo, atteso che, da un canto, la pretesa alla liquidazione dell’indennizzo è stata specificamente proposta nell’odierno giudizio e, sotto altro profilo, il Collegio condivide la consolidata giurisprudenza amministrativa secondo cui

“la revoca senza previsione dell’indennizzo non è illegittima, poiché la mancata previsione dell’indennizzo di cui all’art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990 in un provvedimento di revoca, non ha efficacia viziante o invalidante di quest’ultima, ma semplicemente legittima il privato ad azionare la pretesa patrimoniale innanzi al giudice amministrativo che potrà scrutinarne i presupposti.” (Consiglio Stato , sez. VI, 17 marzo 2010 , n. 1554).

3.3.1. In ultimo, se la illegittimità del “sacrificio”, che, a dire dell’appellante, postula una responsabilità risarcitoria, dipendesse dalla mancata previsione dell’indennizzo, una volta che quest’ultimo sia stato richiesto, e la relativa pretesa sia stata scrutinata dal giudice, dalla mancata concessione dello stesso non potrebbe in via derivata discendere una “reviviscenza” del petitum risarcitorio “puro”, non possedendo quest’ultimo autonomia concettuale rispetto all’indennizzo richiesto.

3.4. Conclusivamente, il primo motivo di censura deve essere disatteso sotto ogni angolo prospettico.

4. Quanto alla complessa censura “subordinata”, relativa all’omesso riconoscimento, da parte del primo giudice dell’indennizzo di cui all’art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990, la determinazione del primo giudice resiste alle censure appellatorie sotto tutti i profili di critica.

4.1. In primo luogo, si rileva che trattasi di norma sostanziale, e non certo di istituto processuale, di guisa che la pretesa all’applicabilità “retroattiva” della detta disposizione (come già chiarito nella parte in fatto l’odierna vicenda processuale si è dipanata in epoca antecedente al 2005, data di entrata in vigore della invocata disposizione) è senz’altro inaccoglibile (si veda, Consiglio di stato, sez. VI, 19 giugno 2009 , n. 4138, laddove si è affermata la inapplicabilità della disposizione predetta ratione temporis).

Si evidenzia in particolare che, prima dell’entrata in vigore dell’art. 21 quinquies della, L. 7 agosto 1990 n. 241, la giurisprudenza escludeva che esistesse un principio di ordine generale di indennizzabilità del sacrificio sopportato dal concessionario a seguito della revoca della concessione o di un atto ampliativo per sopravvenuti motivi di interesse pubblico (CS, sez.VI, n.268/1969 in materia di ricerca di idrorocarburi), atteso che il diritto del concessionario nasce condizionato dall’interesse pubblico inerente alla destinazione e alla natura del bene e dell’attività oggetto della concessione.

Ciò sarebbe sufficiente a disattendere l’impugnazione sul punto.

4.2. Secondariamente, però, deve rilevarsi (e quanto a tal profilo la motivazione della decisione di primo grado deve essere quantomeno integrata, se non corretta) che appare al Collegio certamente fondata la deduzione dell’appellata amministrazione secondo cui nel caso di specie non ci si trova al cospetto di alcun atto revocatorio di natura autoritativa.

La revoca “implicita”, che in teoria potrebbe legittimare la richiesta di “indennizzo” ex art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990, non ricorre affatto nel caso in esame; invero l’ampliamento concettuale del primo giudice che ha sostanzialmente ritenuto l’ipotizzabilità di una revoca “implicita” assistita dalla previsione dell’indennizzo ex art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990 appare corretto in via teorica (e di ciò si è dato atto in precedenza).

Non altrettanto condivisibile, però, esso appare al Collegio, laddove, traslando il principio sulla odierna vicenda processuale, il primo giudice ha evidentemente ritenuto che gli atti adottati potessero rientrare nel paradigma di una revoca implicita.

Invero è appena il caso di rammentare che l’abbandono del progetto è ascrivibile all’autonoma scelta dell’appellante.

La stessa, infatti, prudenzialmente, preso atto della interferenza del progetto di tracciato autostradale, decise di attivarsi in tal senso, non utilizzando l’area per la quale le era stato concesso il diritto di superficie dal Comune: la “risoluzione della convenzione di concessione del diritto di superficie”, disposta con deliberazione consiliare dell’aprile 2004, scaturisce infatti da una iniziativa dell’appellante.

L’iniziativa del Ministero delle attività produttive (che nel luglio 2002 le aveva attribuito un – mai in concreto erogato – contributo in conto impianti per euro 1.522.083,00, subordinato al completamento dell’iniziativa entro 48 mesi dalla concessione del beneficio a pena di revoca delle agevolazioni) scaturisce quale atto dovuto dalla omessa intrapresa delle iniziative suddette, a propria volta discendente dalla scelta di non utilizzare l’area di sedime concessagli in superficie.

Dette iniziative prudenziali, sono ascrivibili alla libera volontà dell’appellante (si rammenta che è incontestato che fu quest’ultima a chiedere la “risoluzione” della convenzione di concessione delle aree comunali, nel marzo del 2004 e che quest’ultima fu accettata dall’ente locale) e discendono, all’evidenza, da una ponderazione della redditività dell’iniziativa ambita, e dal rischio che essa cessasse anzitempo ove la progettata opera fosse stata effettivamente realizzata (il che, allo stato, non è comunque avvenuto).

Ne deriva che l’appellante, nell’ambito delle proprie insindacabili valutazioni imprenditoriali (evidentemente dipendenti dall’aspettativa di profitto prevedibile e dai tempi in cui la stessa sarebbe stata conseguita) ha ritenuto non conveniente avviare il progetto imprenditoriale, ravvisando che la futura interferenza del tracciato autostradale l’avrebbe potuta privare del guadagno atteso.

E’ ovvio che tali valutazioni – lo si ripete condizionate dalla previsione di guadagno in rapporto alle spese necessarie per l’avvio del progetto e dai prevedibili tempi di ammortamento degli investimenti – siano liberamente adottabili dall’imprenditore, ma altrettanto evidente appare che da esse, in carenza di alcun atto sostanziale né formale di revoca, non possa trarsi il convincimento della spettanza di alcun indennizzo.

5.Conclusivamente l’appello deve essere respinto.

6. Devono essere compensate le spese processuali sostenute dalle parti avuto riguardo alla natura della controversia ed alla particolarità delle questioni esaminate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, numero di registro generale 540 del 2010 come in epigrafe proposto, lo respinge nei termini di cui alla motivazione che precede e per l’effetto conferma l’appellata sentenza.

Spese processuali compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Redazione